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VII PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE AL FEMMINILE

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28 APRILE 2023

 

 



 

 

 

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Info sull'Opera
Autore:
Grazia Deledda
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

La Giustizia (III - IV )

di Grazia Deledda

III.

Per una settimana proseguì questa vita. Don Piane s'alzava da letto con tanto di muso, e passava le giornate suggestionato or da Maria, or dalle domestiche.
Gli Arca avevano soltanto servi pastori, che, specialmente in autunno, ritornavano raramente in paese.
Il gran patrimonio di don Piane consisteva in vastissime tancas, delle quali una parte era occupata dal proprio bestiame, parte era affittata e parte infine era data a mezzadria per le seminagioni. Quindi ben poche erano le faccende domestiche, mentre in altri tempi, essendo numerosa la famiglia e straordinario il numero delle persone di servizio, la casa pareva un piccolo inferno senza requie, animata da un viavai indescrivibile e dal forno sempre acceso per la cottura del pane.
Ora, dopo la morte di Carlo ed il ritiro di Silvestra, la casa sembrava caduta in una silenziosa atonia piena di segreti dolori e di misteriose paure, appena svegliato dai gridi delle domestiche, dalle corse e dai giuochi dei cani favoriti e dal muto andirivieni dei gatti.
Di solito Stefano sbrigava i suoi affari in uno studio al pian terreno; e le persone da lui ricevute passavano poi nel salotto da pranzo per salutare e confabulare con don Piane.
Dopo una settimana Maria aveva quasi preso possesso della casa, vincendo la stanchezza, il malessere, il fastidio che quella vita le dava, e spinta dall'irritazione per il fare e disfare insolente delle fantesche. Solo verso sera ella si poteva recare un momentino a casa sua, dove riposava fra le soavi parole del padre, gli arditi consigli della madre e le carezze del gattino, che, salendole sulla spalla, sfregandole il velluto grigio del dorso sulle guancie e sul collo e leccandole le orecchie con la rosea linguetta aspra, le dava un bizzarro piacere.
«Me lo piglio?», disse una notte.
«No, che lo strangolano quelle streghe!», osservò zia Larenta adirata.
Rientrando in casa Arca, accompagnata dalla vecchia domestica, una sera Maria vide Serafina uscire con un involto nel grembiale.
«Vorrei sapere che ha e dove va», disse ritirandosi vicino al muro.
Cosa fece zia Larenta? pedinò la domestica, e l'indomani sera, quando Maria fu a casa sua, la vecchia disse, chiudendo malignamente un occhio:
«Sa dov'è andata quella donna? A casa sua. E sa cosa portava? Una pezza di formaggio».
«Come lo sai?»
«Ho ascoltato alla sua porta», disse semplicemente zia Larenta, che aveva una speciale abilità di origliare per conto suo e degli altri.
«Lasciate fare a me, ora!», esclamò Maria sollevando la mano aperta.
L'indomani Stefano lasciò il letto: era quasi guarito, e della sua malattia il porpureo medico diede questa semplice spiegazione:
«Donna Maria, senta bene. Prima di tutto la perniciosa colse il nostro malato, che, naturalmente, gli lasciò uno strascico di debolezza e di disturbi viscerali. Ma se lui si fosse attenuto alle mie prescrizioni la convalescenza sarebbe stata breve e completa: no, lui invece di nuovo a cavallo, a caccia, a pigliar aria cattiva, a far cattive digestioni, ed a... quello che sa lei!», e portandosi furbescamente il pollice destro alle labbra accennò l'azione del bere. Maria sorrise, ricordando il suo vino giallo. «Naturalmente doveva venir questa orribile settimana di febbri gastriche: ma, sa, è come il tempo in questa stagione; vede, dopo l'estate c'è stato un periodo di fresco, ora c'è l'estate di San Martino, poi ritorna il fresco e non se ne parla più. Lei mi capisce benissimo.»
«Ma sì!», assicurò ella, benché veramente non avesse capito bene.
«Ora», conchiuse il dottore, «lascio Stefano in mani sue: lo faccia star in regola per qualche giorno ancora e tutto passerà. Del resto era cosa da nulla,»
Maria, lo stesso giorno, sorridendo, riferì tutto a Stefano, che s'era messo a scrivere una lettera nella sua camera.
Era diventato magrissimo, con gli occhi infossati, fissi, circondati da un lividore che gli saliva fino alle tempie; la sua mano tremante stentava a scrivere; tutto il suo aspetto era così cadaverico che Maria, pur vedendolo alzato e vestito, faceva grandi sforzi per celare il disgusto fisico ch'egli ancora le causava.
Vedendogli tremar la mano, sul cui bianchissimo dorso si scorgevano i tendini attraversati dalle vene verdastre, ella cessò di sorridere.
«Lascia stare», disse, «scriverai più tardi; i tuoi corrispondenti sanno che sei malato, e avranno pazienza. Ora t'indebolisci di più, e non va bene.»
Egli fermò la mano, e avvicinò alla bocca pensierosa la punta della cannuccia.
«Lascia stare», ripeté ella dolcemente, chiuse e allontanò la cartella.
Egli non protestò, non disse molto; solo avvicinò la penna alla fronte e parve volesse appoggiarsi con estrema debolezza a quel fragile appoggio. Ed ella gli tolse facilmente anche la penna, portò via tutto, e rientrando depose sul tavolino un involto di carta bianca, un calice d'acqua e un cucchiaino d'argento.
Vide Stefano contorcer le labbra con un atto di disgusto, e per animarlo e distogliergli l'attenzione da quanto ella stava per fare, esclamò gravemente:
«Ho da dirti una cosa: m'ascolti?».
«Sì», e gli occhi smorti si animarono, seguendo macchinalmente i movimenti delle mani di lei.
Ella raccontò la storiella del formaggio rubato da Serafina; e intanto bagnò nell'acqua del calice una diafana ostia, la pose sulla palma della mano sinistra; sopra vi versò una cartina di chinino, ne ripiegò i lembi e infine la depose così piegata sulla punta del cucchiaino.
Egli arrossì lievemente di dispetto nel sentir le prodezze della domestica, e quasi senza accorgersene ingoiò prima l'ostia, poi due lunghi sorsi d'acqua.
«Spero», disse Maria, riprendendo il calice, l'involto e il cucchiaino, «non sarà tuo padre a permetterlo.»
«Oh, mio padre! oh, mio padre!...», sospirò Stefano, e non disse di più.
Dopo un momento ella lo convinse a scender nell'orto, e passando pel salotto da pranzo si condussero dietro anche don Piane col suo giornale e il suo gatto.
Nell'orto tutto soleggiato, ove le galline per ordine di Maria non penetravano più, regnava una calda dolcezza di mattino estivo: don Piane volle andare a sedersi sotto i salici. L'acqua della vasca (le domestiche avevano lavato), era leggermente livida di sapone, ma rifletteva con egual dolcezza i salici tremanti. Al di là del muro assiepato cantava una cingallegra, e i suoi rapidi, freschi gorgheggi parea salissero dal profondo dell'acqua azzurrastra. Maria rivide, ma come appannate da quel velo azzurrognolo, le immagini della prediletta poesia; don Piane batteva il suo bastone sul tronco filamentoso d'un salice; Stefano taceva sempre ostinatamente.
Maria lo credeva smarrito in qualche strana fantasticheria, forse in qualche memoria dell'infanzia lontana; egli invece parlò prosaicamente delle male azioni di Serafina.
«Chi ti riporta questi pettegolezzi? Io non ci credo!», disse don Piane dando una formidabile bastonata al salice.
La giovine arrossì, comprendendo l'offesa, tacque, ed anzi, vedendo Stefano alterarsi fanciullescamente, lo calmò con buone parole.
«Sta quieto: ti farà male: sta quieto», conchiuse.
Nella sua voce egli sentì quasi una carezza materna, e si calmò, appoggiando la testa al salice. Solo allora cadde in confuse e dolci fantasticherie: s'udiva soltanto il fresco gorgheggio della cingallegra e il picchiar del bastone di don Piane sul salice; neppure il noce stormiva, e tutte le allodole e i passeri che vi si davano convegno, quel giorno parevano migrati oltre le montagne azzurre del nitido orizzonte.
Ma per tutto il giorno, ed anche nel seguente, pur pranzando col padre e con Maria, egli ricadde nel suo ostinato silenzio. Se lo interrogavano si scuoteva come da un sogno, e faceva: «Ah», e rispondeva confusamente alla ripetizione della domanda.
Maria non osava dirgli che, essendo egli oramai guarito, ella intendeva di ritornare a casa, si trovava più che mai a disagio per l'alternarsi degli umori di don Piane e le insidie e le malignità delle domestiche.
Ma il terzo giorno egli parve a un tratto rianimarsi completamente, ed espresse un suo desiderio.
«Vorrei fare una passeggiata in campagna», disse guardando il cielo, «ma camminare piano piano, che possa accompagnarci anche il babbo.»
"Accompagnarci?", pensò Maria.
«Dunque?», domandò Stefano verso le undici, dopo che don Piane ebbe letto nel giornale l'ultimo avviso, nel quale si promettevano due lire di mancia a chi riportava un cagnolino smarrito. «Si va o non si va stasera?»
«Dove?»
«Non ve lo ha detto Maria? Io, lei e voi andremo al vigneto.»
«Chi? Io?», domandò Maria.
«Ma sicuro. E chi dunque?»
"Oh, bella!", esclamò ella fra sé.
Ma don Piane per fortuna era di buon umore e accettò.
Dopo pranzo Maria si recò a casa sua per chieder consiglio: donna Maurizia si scandolezzò della proposta, ma intervenne zia Larenta:
«Vada, vada! Se non va è una sciocca, con rispetto a vossignoria. Vada, ché Serafina schianterà dalla rabbia. E poi le farà bene.»
«A chi, a Serafina?»
«A lei, far due passi!»
Tuttavia ella non si decideva; ma ritornando trovò il suocero e Stefano che, pronti ad uscire, l'aspettavano e non la lasciarono neppure rientrare. Così, per la prima volta, con somma meraviglia di tutto il paese, si vede la famiglia Arca attraversare riunita lo stradale.
"Tre ruderi, avanzi d'una rovina!", pensò malignamente il notaio che lucertolava al sole del pomeriggio, sull'alta piazzetta della chiesa.
Josto, che seguiva con la coda ritta e la schiena lucente al sole, sollevò il capo e abbaiò.
«Buona passeggiata!», disse allora il notaio, sporgendo sul parapetto gli occhiali turchini e il doppio mento raso. «È guarita, don Stene? Mi rallegro.»
«Grazie.»
«Non di cuore!», borbottò don Piane.
E tranquillamente proseguirono a piccoli passi, sostando di tratto in tratto, parlando di raro e di cose indifferenti.
Al ritorno, vedendo Stefano un po' colorito in volto, Maria decise di comunicargli che quella sera ella pensava di ritornarsene da sua madre.
Un po' stanchi camminavano silenziosi tutti e tre, don Piane chino su un fianco e molto appoggiato al bastone, Stefano col cappello bianco a cencio gettato indietro, in modo che le falde gli descrivevano quasi un'aureola intorno alle orecchie, lasciando scoperti i capelli; e Maria con le mani abbandonate, con l'orlo della gonnella nera fatto grigio dal leggero polverìo che sollevava.
L'aperta e larga strada un po' rocciosa rasentava vigneti; dai muri guardavano i rami snelli e sottili di giovani melograni. A un certo punto tutta la strada apparve ingombra di pampini calpestati, rigettati dai vigneti. Stillava dai tralci recisi un umore che esalava intorno la fragranza selvatica della vite tagliata; e le foglie larghe e bucherellate, talune d'un verde ossidato, altre gialle o color rosa vecchio, lentigginate e sfumate in violetto, si staccavano dai corti steli già vecchi, coperti di peluria grigia.
Quattro buoi dalle corna biancastre, due neri del tutto, uno nero, ma con il muso e le zampe bianche e la schiena profilata di grigio, e il quarto cenerognolo chiaro, fittamente spruzzato di bianco, quasi per l'effetto d'una spessa brinata, ingombravano la strada.
L'aria era d'una trasparenza, di una purezza indicibili: sullo sfondo della strada e al di sopra dei muri, sull'azzurro perlato dell'orizzonte, stagnavano lunghissime e sottili striscie d'un rosso liquido, vivo come corallo, che non turbavano ma anzi rendevano più nitida la tinta celeste dello sfondo. E i buoi, specialmente i due dal chiaro profilo, si disegnavano nitidamente su quel fondo cerulo, solcato di corallo: gli eleganti melograni dal vivissimo verde e dai frutti sanguinanti lasciavano intraveder l'orizzonte attraverso un sogno di intensa luce.
Ma sopra tutto dominava la purissima e fragrante scena campestre un ragazzo, il guardiano de' buoi, ritto sul muro: la sua personcina, ergendosi nera e sottile, pareva campeggiar sull'orizzonte, sul fondo marmoreo delle lontane montagne.
Don Piane si fermò e sollevando il viso domandò:
«Di chi sono questi buoi?».
«I nostri!», gridò il ragazzo, e la sua voce parve scendere da una grande altezza.
«E tu di chi sei?»
«Di mio padre!»
«Oh, di', parla bene, o con chi ti credi?», gridò Stefano con voce rauca, sollevando la testa e il bastoncino.
«Son figlio di Simone Sacco vuoto», rispose il guardiano intimorito.
Don Piane rivolse altre domande, e mentre egli confabulava col ragazzo, dall'opposto lato della strada Maria diceva a Stefano, sollevando il viso ed il braccio:
«Batti il bastone su quella melagrana».
Stefano alzò il bastone, ma lo riabbassò tosto ridendo:
«Non arrivo: è poi un furto!».
«Oh», disse Maria con semplicità, guardando sempre verso l'albero: «stasera ritorno in casa mia, non è vero?».
«Come?», fece egli volgendo il viso; e, forse per il riflesso del cielo, diventò rosso fin nella nuca.
«Come? Ritorno a casa perché non c'è più bisogno di me.»
«Il bisogno c'è, c'è!», affermò egli, battendo due volte il bastone sopra una foglia di vite.
«Non c'è, non c'è! tu stai benissimo.»
«Io sto benissimo...», cominciò egli, e tacque: e in un istante, durante il quale Maria parlò di cose che egli non intese, pensò che mai più, meglio che in quel momento, in quell'ora e in quel luogo, gli sarebbe capitata l'occasione di rivelarle il segreto sentimento che da tre giorni, col rifiorir dal sangue e della vita, lo teneva ansioso e concentrato in desideri indefiniti. Ma, attraversando i pampani co' suoi passettini da pulcino, don Piane s'avvicinava.
«Io sto benissimo», ripeté Stefano, «ma almeno fino a domani tu devi restare.»
«Non posso.»
«Devi. Non farmi adirare. Ho da parlarti, stasera, appena il babbo sarà a letto. Resterai?»
Maria non disse né sì né no, ma egli parlava così supplichevolmente, rosso e turbato in viso, che ella, per la seconda volta, dopo la sera della visita, ebbe l'intuizione del vero, e internamente si commosse.
Guardando in lontananza con occhi indifferenti, di nuovo camminarono silenziosi nella dolcezza del vespero luminoso, al cui riflesso le pietre chiare dei muri e le roccie della strada luccicavano.
Josto precedeva correndo, con un brivido pei fianchi, e ogni tanto la sua macchia nera svaniva nel fondo della via.
Arrivarono al paese che imbruniva; il paesaggio si velava di leggere nebulosità violacee, e lo stradale su cui sboccava la strada campestre appariva come un largo nastro carnicino gettato sull'erba autunnale.
«Dunque?», domandò Maria fissa nella sua idea. «Cosa si fa?»
«Si ritorna, si va a casa.»
Nuovo silenzio. Ma quando vide i noci del suo orto ella si rivolse a don Piane, dicendogli con voce grave:
«Ma fategliela intender voi la ragione a vostro figlio. Ora è guarito, non ha più bisogno di infermiera; non vuole ch'io ritorni a casa mia!».
Don Piane era stanco morto, i suoi passi diventavano microscopici, e soltanto per orgoglio non si appoggiava alla nuora.
«Perché non vuole?», domandò con una vocetta dispettosa. «Deve volere. Siamo vicini a casa tua, non è vero?»
«Siamo davanti!», disse Stefano, ricordando la notte in cui s'era fermato sullo stradale mentre il ruscello cantava arcane parole.
E cercò di passar oltre, ma Maria si fermò decisa.
«Scherzi?», diss'egli vivacemente. «Andiamo dunque, che diavolo? Ritornerai domani mattina. Ora devi venir con noi, prima di tutto perché non devi lasciarci soli, e poi... se ci vedono rientrar soli le serve dicono che per via abbiamo avuto qualche malanno.»
Ella si fece ancor più pensierosa, poi si rivolse nuovamente al suocero.
«Cosa ne dite voi?»
«Io? Cosa c'entro io? Se vuoi venire vieni, se vuoi restare, resta.»
«Siete molto stanco?»
«No!», affermò con orgoglio.
«Altro che no! Non state in piedi!», osservò Stefano sorridendo.
Maria ebbe un ardito pensiero, ma alzò gli occhi meravigliati sentendosi preceduta da Stefano, che diceva:
«Entriamo un momentino da te, e mentre babbo si riposa, decideremo se puoi o non puoi venire... almeno a cena! Andiamo, babbo, appoggiatevi a me».
Gli prese la manina e se la mise sul braccio, ma don Piane arrossì, tremò d'ira, si ribellò.
«Macché! macché! Io non vengo..., io non vengo... io... Andiamo a casa nostra, andiamo..., io non vengo...»
«Venite!», disse Stefano con voce persuasiva. «Ci riposiamo un momento, un momento solo»: e lo trascinava riluttante e fremente.
Maria seguiva meravigliata e confusa: la porta era aperta, e Stefano l'infilò volgendosi sul fianco per far entrare il vecchietto, che, attraversando l'andito, continuava a protestare e dibattersi.
Il giovane ricordando ove zia Larenta l'aveva fatto passare entrò nella stanza del telaio, illuminata appena da una piccola finestra.
«Mamma, mamma?», chiamò Maria sulla porta di cucina.
Ma donna Maurizia apparve dalla parte opposta, cioè sull'uscio verso cui si dirigeva Stefano, e alla incerta luce del crepuscolo si videro i peli de' suoi baffi rizzarsi minacciosamente.
Che cercava don Piane Arca in casa sua?
E don Piane, che sempre aveva nutrito una grande, segreta paura per quella donna, si sentì gelare e tacque.
Contemporaneamente Mimìa, la bella gattina grigia, vedendo Josto aggirarsi fiutando i bastoni del telaio, sbuffò spalancando la bocca, ingrossò la coda e, attraversando le sottane di donna Maurizia, spari sotto un guardaroba.
"Inimicizia completa!", pensò Stefano, sorridendo con ironica indulgenza.
«Buona sera, donna Maurizia. Abbiamo dunque fatto una passeggiata lunga lunga; il babbo non ne può più, e siamo entrati per riposarci e per decidere se Maria debba piantarci a mezza strada.»
Egli scherzava, ma donna Maurizia si ritrasse senza sorridere, senza salutare, senza pronunziar parola.
«Sedetevi, sedetevi», disse Maria; e rosea, confusa, timorosa della collera materna e dell'ira di don Piane, mise in iscompiglio tutte le sedie e tutti gli sgabelli. Ma, lieto e disinvolto, Stefano fece sedere il padre sul canapè, e gli si abbandonò accanto ridendo come un fanciullo.
«Sa, donna Maurizia, abbiamo fatto una bella passeggiata?»
«Maria», impose ruvidamente Maurizia con la sua grossa voce maschile, «fa andar via quel cane, altrimenti si ammazzano con Mimìa.»
«Tè, tè, Josto, vieni», pregò Maria, e siccome, invece di seguirla, il cane fiutava il guardaroba sotto cui si celava la gattina, lo prese dolcemente per il collare e, trascinatolo fuori, lo consegnò a zia Larenta, accorsa nell'andito per origliare.
«Dov'è il babbo?», domandò sommessamente la padroncina.
«Se c'è, lo fai venir dentro subito.»
«Subito.»
Maria rientrò e chiuse la porta.
«Abbiamo fatto una bellissima passeggiata», ripeteva Stefano; donna Maurizia accendeva la lucerna, e don Piane, abbandonato e pallido, chini gli occhi al suolo, non sapeva in che mondo fosse.
Maria prese uno sgabello e gli si assise accanto per rincuorarlo.
«Una bellissima passeggiata», affermò anch'ella, ma evitando gli occhi di sua madre. «Non faceva né caldo né fresco, e la via è tanto buona. Quanto tempo non passavo per quella via!»
«Pare che ti abbia fatto bene», disse Stefano, guardandola alla chiara luce della lucerna. «Sei rossa come da molto tempo non ti vedevo.»
"Da molto?", pensò donna Maurizia. "Ma è da dodici giorni che la vedi, scimunito!"
Silenzio di nuovo. Giungeva da lontano il mormorìo del villaggio, delle acque, dei noci sussurranti nel vespero sereno, la lucerna crepitava mandando una viva luce per la stanza sempre seria e pura.
Stefano si mise ancora a ridere fanciullescamente, senza un plausibile motivo; lo divertiva la curiosa e imbarazzante situazione e sentiva i nervi scossi, ma gaiamente, quasi vibranti per la dolce stanchezza della passeggiata, per il presentimento della nuova vita forte e salutare che fra poco lo avrebbe rinvigorito.
«Cosa avete, babbo? Siete molto stanco? Volete qualche cosa? Di', Maria, hai ancora di quel vino famoso?»
E rideva maliziosamente, chinando il viso per guardar meglio suo padre.
«Sa, donna Maurizia, l'ho pagata cara, può dirglielo Maria; ma la colpa è stata tutta di sua figlia...»
«Perché di mia figlia?», domandò freddamente donna Maurizia.
«È stata lei a farmi bere! Il vino scendeva giù limpido e dolce come il miele, ed io credevo si facesse per burla. Invece...»
«Io? Io? Che colpa ne avevo io? Se tu non avessi voluto! Che dite voi?», si difese Maria, rivolta al suocero.
Don Piane aveva il viso illuminato: da qualche momento vedeva la zampetta chiara di Mimìa sporgersi e ritirarsi di sotto il guardaroba. Lentamente apparvero il musetto roseo e la fronte vellutata, sotto cui brillarono due liquidi smeraldi.
Dimentico d'ogni altra cosa, il vecchio guardava, incantato dal desiderio di veder avvicinare la graziosa gattina, di afferrarla e carezzarla; ma dietro la porta s'udì il raschiare del cane, e Mimìa sparve di nuovo, velocemente e coi baffi irti.
«Va via, Josto!», gridò Maria alzandosi; e socchiudendo la porta vide sparir nella penombra della stanza attigua la coda del cane e il lembo verde della gonna di zia Larenta.
Don Piane chiamava:
«Vieni fuori, bellina, vieni, che il cane non c'è più. Mimìa, gattina, vieni fuori...».
Dopo molte preghiere la gattina si degnò di mostrare il nasino schiacciato, su cui pareva errasse un sorriso di ironia.
«Prendila ora!», disse don Piane.
Maria l'afferrò per il collo e la trasse fuori tutta fremente, coi grandi occhi spauriti, non più verdi, ma color di madreperla e le iridi nere dilatate.
«Eccola qui! La volete?», domandò portandola sul canapè e affidandola all'entusiasmo del suocero.
In quel momento entrò sorridendo e rinchiudendo delicatamente la porta don Costantino Arthabella, il padre di Maria.
Stese la mano a Stefano, che s'alzò premuroso e serio, e facendogli cenno di sedersi pregò:
«Sta comodo, sta!». Poi si chinò verso don Piane.
Don Costantino aveva il portamento disinvolto e il passo lieve di Maria; era un bell'uomo sulla cinquantina, alto e scarno, col volto fresco e roseo e con una lunga barba bianchissima divisa in due: sembrava un gentiluomo antico, dalla cui dolce e serena fisionomia spirasse tutta la nobiltà di una stirpe, d'una razza leale e incontaminata. Vestiva signorilmente, ma intorno al colletto rivoltato della camicia non inamidata, invece della cravatta portava un fazzoletto di seta nera, avvolto e annodato secondo la moda del Primo Impero. Appena entrato lui, sparve l'imbarazzo; Stefano lasciò la sua infantile allegria e donna Maurizia si fece un po' conciliante.
Un tempo don Piane e Kantine, come sua moglie lo chiamava, erano stati amici; ed ora, sebbene non si parlassero da circa tre anni, mercé la delicatezza di Arthebella parve che si fossero lasciati da pochi giorni.
«Come la va, Piane Arca?»
«Siamo andati lontani stasera; questi ragazzi mi han fatto trottare come un puledro!», disse il vecchietto, passando la mano sulla schiena di Mimìa, che dopo le prime riluttanze gli graffiava e mordeva i bottoncini splendenti del corpetto.
«Ti farà bene.»
«E chi lo sa? Non ne posso più, sai, non ne posso più!» E dall'accento si capì che accennava alla stanchezza di tutta la vita. Poi cambiò tono: «Nella vigna di Pietro Farina c'erano ancora i pampani: bene; li han tagliati e buttati sulla strada invece di farli brucare dalle pecore».
«Sai, li ho veduti anch'io stamattina, passando lassù. Ed ho domandato: "Pietro, perché non hai fatto entrare le pecore nella vigna?". Mi rispose che un continentale lo ha consigliato di non lasciar mai entrare alcun bestiame tra le viti.»
«Macché continentali d'Egitto!», esclamò don Piane, e fermava la zampetta di Mimìa che, non più contenta dei bottoni, voleva graffiargli il mento. «Cosa fa la pecora alle viti! La pecora entra nelle vigne e bruca i pampini con tanta delicatezza che... che infine non s'è mai inteso che le vigne, dopo la vendemmia, non debbano esser spogliate dalle pecore.»
«Ma va e predica agli sciocchi!», disse don Costantino con rassegnazione. «Moda nuova sciocco l'adotta!»
Stefano diceva a donna Maurizia:
«Suo marito sembra più giovane di me: non invecchia mai; un giorno, sarà un mese, lo vidi a cavallo guardar il fiume ch'era torbido e gonfio. Io, lo confesso, avevo paura: egli nulla; sprona il cavallo, e tuf! in due passi è all'altra riva. Io invece!»
Maria vide finalmente sorrider sua madre, di cui Stefano trovava senza dubbio la via del cuore, come ella, Maria, indovinava i puerili gusti di don Piane.
La conclusione di tutto fu l'adempimento del segreto desiderio di Stefano, poiché suo padre e donna Maurizia si divisero completamente riconciliati, e Maria non poté rifiutare al suocero il piacere di accompagnarlo a casa.
Dopo cena il giovane guardò acutamente la cognata; ma sulle labbra le rivide la solita linea di rassegnato e gelido dolore. Tanta stanchezza le scorse sulla fronte, che si turbò, e gli parve impossibile quanto sino allora gli era sembrato facile e naturale.
Guardò l'orologio; attraverso il cristallo scintillante la lancetta camminava palpitando, verso le nove.
«Ancora un quarto: alle nove precise», pensò rimettendo l'orologio nel taschino. Ma fissando nuovamente Maria le notò tra le fini sopracciglia una piccola ruga, e sentì più acuta una sensazione di freddo, di timore, un'oppressione ansiosa che quasi gli toglieva il respiro. Per liberarsene e poter parlare francamente, dovette muoversi.
«Raggiungimi nel mio salotto; devo parlarti», disse alzandosi e respingendo la sedia. E uscì rapido, temendo ch'ella gli rispondesse no.
Salito nel suo salotto l'attese sul balcone, stringendo fra i denti una sigaretta egiziana appena accesa. Dal vuoto del balcone, nella notte chiara e fresca, si scorgeva il cielo d'un azzurro cinereo e trasparente, segnato sul confine occidentale da una striscia ancora lucida e bianca.
Dal Sud veniva la via lattea, chiara e diafana come una lunga e tenue nuvola argentea; e le stelle brillavano vividissime, con bagliori di perle azzurre. Null'altro si scorgeva, null'altro che il cielo e gli astri; e nulla s'udiva; ma Stefano sentiva il cammino eguale e incessante dei secondi battuti dalla lancetta del suo orologio, e per un momento gli sembrò che quello fosse il palpito delle stesse che segnavano nello spazio il corso infinito del tempo.
E Maria non veniva.
Dopo un tempo indefinito si spense la sigaretta, e questo semplice incidente richiamò Stefano nella realtà. Voltosi, vide Maria, e allora gli sembrò ch'ella fosse venuta troppo presto, prima che egli avesse preparato le parole da rivolgerle.
«Vieni qui», disse.
Maria avanzò.
«Siediti». Ella sedette, muta e rassegnata. Egli evitò di guardarla per non essere nuovamente colto da timore, e rimase ritto, dando le spalle alle tende del balcone, sul cui sfondo bianco arabescato il suo viso, contro la luce del lume, appariva più smorto del solito.
«Veramente», cominciò con fine sorriso, guardando la sigaretta, «la tua ciera non m'incoraggia molto, ma non fa nulla; ti parlerò francamente lo stesso. Non rispondermi però; se è possibile, non aprir bocca, perché, se tu rispondi, stanotte sento che sono un uomo perduto. Bisogna che tu mediti bene prima di rispondermi, bisogna che tu, savia e accorta e prudente» (Maria, non meravigliata dello strano preambolo, si degnò di sorridere, ma ironicamente), «consideri ogni cosa sotto aspetto umano. Senza dubbio hai indovinato perché mi è venuto il desiderio d'andar stasera alla vigna. Lo hai indovinato?»
«Tu vuoi ch'io non risponda!», diss'ella.
«A quello che ti dirò in fine.»
«A questo dunque sì? Ma vuoi che ti risponda proprio sinceramente?»
«Credo che tu non possa farlo altrimenti.»
«Grazie. Dunque», e senza sollevar il volto un po' chino, alzò gli occhi guardandolo con malizia, «tu avevi voglia di passeggiare quanto ne avevo io; ma hai voluto uscire per trarti dietro tuo padre e me... affinché ci vedessero tutti e tre insieme.»
«Questo è un motivo.»
«Questo è un motivo, sì, lasciami dire. L'altro era quello di condurre tuo padre in casa mia, o non è vero? affinché si riconciliasse co' miei.»
«Con tua madre...»
«Sì, con mamma e con babbo.»
«Con tua madre», ripeté egli, e stette un momento silenzioso, troncando in due la sigaretta. Poi proruppe: «E il motivo di tutto?».
«Quello non lo indovino», disse lei; ma lo indovinava benissimo, perché riprese l'aria oscura e fredda di prima. E siccome Stefano taceva, ella riprese freddamente, come per toglierlo d'imbarazzo: «Se è per farmi rimaner qui, te lo dissi, è inutile; non posso assolutamente, ora che sei guarito. Cosa ci faccio? Con quelle due vespe che ci sono, specialmente! E non sai tu le infamie che hanno già cominciato a sparger per il paese?».
«Che hanno detto?», gridò egli sdegnandosi. Guardandola la vide rossa in volto. «Voglio saperlo subito, Subito, capisci?»
«Lo saprai più tardi, invece! Intanto...»
«Intanto, senti, o Maria, ritorniamo al principio!», esclamò egli risoluto. «Come ti dicevo, tu sei prudente e capisci ogni cosa. Permettimi un esempio. Se tu, quando morì Carlo» (ella chinò il volto fin quasi sui ginocchi, con un atto doloroso e pio), «se tu ti fossi trovata qui non saresti rimasta?»
«Forse. Ma ora tutto è diverso. Io non posso restare appunto perché allora non mi avete voluta...», e la triste frase morì in un accoramento di voce dolente e fiera. Ma ciò bastò perché la passione di Stefano, si animasse e prorompesse ardente e riparatrice in poche parole:
«Ma ora ti vogliamo!... Ora ti voglio io, ti voglio io!...».
Ella diventò pallidissima; egli se ne avvide, e ripeté supplichevole:
«Ti voglio, Maria, e se tu pure mi vorrai, ti darò tutto me stesso in riparazione di quanto ti facemmo soffrire. Non rispondermi ora, non rispondermi! È questo che volevo dirti: cioè di non rispondermi finché tu non abbia pensato settanta volte sette! Un po' troppo? Non offenderti intanto se ti ho indotto ad ascoltarmi qui e se ti ho detto che sarebbe una riparazione... Sarà una riparazione anche, sì, perché saprò renderti tanto felice che scorderai ogni cosa, ogni dolore passato; ma non credere che io ti voglia solo per ciò. Ti voglio perché ti amo, come ti avrei amata conoscendoti prima».
«E credi...», cominciò Maria; ma egli la interruppe:
«Non credo nulla, non rispondermi. So tutto quello che vorresti dirmi, ma so anche che tu sei giovane, tanto giovane... quanti anni hai?».
«Ventisei.»
«Bene, ventisei. Fra due o tre anni sarai ancora giovanissima e avrai dimenticato. Non dirmi di no, Maria; io conosco la vita meglio di te. Se vuoi, non ne riparleremo fino ad allora, ma pensaci bene. Se tuo marito risorgesse per un momento, io credo che ti consiglierebbe di cogliere quella felicità che egli non poté darti. Se veramente ti amava...»
«Lasciamo in pace i morti!», diss'ella, gelida e severa.
«Io amai mio fratello anche più di mio padre», credé allora bene di spiegar Stefano, avvicinandosi e posando una mano aperta sul tavolino. «Ma credi, Maria, neppur per sogno m'è passata l'idea di offenderlo con l'amar te e proporti la felicità. Anzi, s'egli veramente t'amava, se veramente sussiste lo spirito nostro dopo la morte, egli, al di là, vorrà saperti felice e serena. O non ha ragione? Quindi io credo d'onorar la sua memoria, di seguire un suo vivo desiderio dicendoti: Maria, sei giovane e dimenticherai e amerai ancora: lascia che sia io colui che deve renderti felice. E di questo argomento, non parliamone più.»
«Non parliamone più», ripeté ella alzandosi. «Hai altro da dirmi?»
Se aveva altro da dirle? La guardò a lungo, e mai, come in quel momento che gli sfuggiva, gli parve più bella e delicata. Avrebbe voluto ancora dirle tutto il desiderio straziante e ineffabile che sentiva, non più delle sue mani soltanto, ma delle sue labbra, del suo viso, di tutta la sua anima; avrebbe voluto dirle tutto ciò, ma senza parlare, chiudendola fra le braccia desiose e portandola sul verone, sotto la bianca luce della via lattea e dei grandi astri azzurri della notte autunnale.
Ma ella gli sfuggiva, e fra loro s'ergeva l'insuperabile fantasma del morto che a lei gelava il sangue, e che l'avrebbe fatta gridare di orrore se in quel momento la mano del vivo avesse osato sfiorarla. Egli lo sentiva bene; tacque e non si mosse.
«Giacché vuoi che ora non risponda nulla, me ne vado», disse ella. «Ora va e riposati, ché sei stanco, e la veglia potrà nuocerti. Buona notte.»
S'allontanò, ed egli rimase con la mano sempre aperta sul tavolino, e gli occhi splendenti.
«Ci rivedremo domani mattina, prima che me ne vada. Buona notte», ella ripeté, uscendo senza voltarsi.
«Buona notte.»
Stefano accese un'altra sigaretta e tornò sul balcone. Non sperava più, e sentiva una profonda impressione di vuoto, un disgusto di se stesso e di tutto, una sensazione simile a quella provata nelle tristi e tediose sere della sua prima convalescenza. Lo irritava dolorosamente la freddezza di Maria; egli aveva sperato di vederla almeno commuoversi nel sentirsi nuovamente e grandemente amata; ed invece ella s'era quasi offesa e sdegnata; non aveva pronunziato, ma fatto capire ancor più che a parole, un freddo e inesorabile rifiuto. Non era ella forse simile alle altre donne del paese, ignorante e schiava di falsi pregiudizi, ipocrita e piccola? Ed egli s'era chinato, ed egli, credendola diversa, buona e fine, s'era invaghito per l'apparente delicatezza di lei. Invece!
Pose le mani sul ferro del balcone, e al freddo contatto sentì che per orgoglio calunniava Maria, e ch'ella aveva rifiutato appunto per delicatezza.
"Sono io il piccolo! Non mi sono spiegato bene!", pensò, e si strinse la fronte fra le mani, ripreso da un profondo disgusto di se stesso.
Rientrò assai tardi e guardò l'orologio. Segnava le nove: s'era fermato nel momento preciso in cui Maria aveva ascoltato la nuova parola di amore, ed ora Stefano, preso da un bizzarro pensiero, lo pose in un angolo, condannandolo a non più palpitare finché egli non avesse vinto la cominciata battaglia.
L'indomani mattina Maria uscì nell'orto al levarsi del sole: era un limpido e colorato mattino d'autunno; la terra e i muri umidi di rugiada vaporavano lentamente; sul noce brillavano lunghi fili di bianche perle, di cui talune, scivolando sulle foglie, cadevano al suolo in gocciole luminose. Stagnava in lontananza un basso lago di nebbia diafana e azzurra; e una fila di vecchi mandorli protendeva su quel delicato sfondo vaporoso i suoi rami dritti e oscuri, coronati da pennacchi di foglie d'un bel giallo-rosso sfumato.
Più in qua un pesco secco e giallo, sotto l'obliqua irradiazione del sole pareva un trasparente albero d'oro, cosparso di smeraldi e rubini.
Più in qua ancora, dietro il noce, un piccolo ciliegio dalle grandi e rade foglie rosse, tremava come un albero di corallo, sanguinante.
E da per tutto, su gli alberi colorati, sui muri fumanti, sull'erba rinascente negli angoli umidi dell'orto, la rugiada e i sottilissimi fili violetti dei ragni brillavano iridati.
Maria prese il piccolo viale di mezzo, qua e là fiancheggiato di rosai e di gialle viti e cosparso di secche foglie umide, e andò dritta alla vasca. I salici stillavano acqua; dietro il muro assiepato cantava sempre la cingallegra, e il cielo s'ergeva azzurro e fresco.
Alta e limpida l'acqua della vasca rifletteva nella sua verde trasparenza le striscie di sole che attraversavano i salici.
Maria aveva una forte simpatia per quel dolce angolo dell'orto, che ogni mattina veniva a salutare: nei brividi dell'acqua e nel gorgheggio della cingallegra trovava un'eco dei versi del morto, una struggente dolcezza di memorie unita a una indistinta, triste e delicata gioia di vivere, di sperare, di amare ancora.
Ella avea ventisei anni e aveva tanto e sempre sofferto: l'ultimo suo grande e rassegnato dolore era il rimpianto dei pochi giorni felici goduti come in sogno; ma sempre, nei silenzi melanconici della vecchia casa, al ritmico rumore della spola, o davanti al corso delle foglie naviganti sul ruscello, un misterioso sentimento di speranza l'aveva sorretta, parlandole sommessamente dal fondo dell'anima. Era forse la voce del Signore che parlava dalle pagine della Imitazione di Cristo, promettendo una lontana felicità oltre terrena, o la voce della giovinezza che presentiva e vaticinava un lieto e vicino evento, l'amore di un uomo giovane e forte?
Ora, in quel luminoso mattino d'autunno, dopo una notte di proponimenti rigidi, gelati, quasi sdegnosi, ella sollevò il viso al sole, alla luce, alla rugiada stillante dai salici, e sentì nell'alito puro e inebbriante dell'aria tutta la nobile e refrigerante passione di Stefano Arca: questo, senza dubbio, era l'evento annunziatole dalla dolcezza della rassegnazione, nelle ore più profonde del suo dolore.
Stefano aveva negli occhi tutta l'espressione degli occhi del morto: non era forse qualcosa dell'anima trapassata, che riviveva e riamava?
Maria guardò la verde acqua, e ancor le parve che il canto della cingallegra gorgheggiasse nella muscosa profondità della vasca, ripetendo i dolci versi:

Ama, riamata: quando s'ama molto,
La vita è come un delicato fiore,
Che profuma col suo più dolce odore
Il vento che i suoi petali strappò!

"Ella invece", si domandò, "doveva trascorrere una vita sterile e inutile, consumandosi in un egoistico dolore?"
In quel momento Stefano apriva il suo balcone; vedendola, scese nell'orto e la raggiunse presso la vasca: anche su lui l'azzurra e lieta trasparenza del mattino operava una vaga malìa di vita e di speranza.
«Buon giorno», salutò, avanzandosi senza far rumore.
«Buon giorno!», rispose ella, voltandosi, lievemente imbarazzata.
«Che bella giornata!», esclamò egli, chinandosi per raccogliere una fronda di salice inargentata di rugiada.
«Una bella giornata!», ella ripeté, seguendo con gli occhi il movimento della persona di lui. Com'egli s'inchinò, il sole gli rifulse sui capelli irti, sulla nuca forte e sul fiero volto; e nel risollevarsi, Maria gli notò negli occhi la stessa limpida e verdognola trasparenza dell'acqua, quella trasparenza così pura e profonda ch'ella tanto aveva amato in due chiari occhi spenti.
Ed ebbe paura di se stessa.
«E tuo padre?», chiese, timorosa che Stefano le rivolgesse domanda sull'argomento della sera innanzi.
«Ho sentito che chiamava Serafina per aiutarlo a vestirsi.»
E la pericolosa domanda venne.
«Resterai, Maria?»
«Non posso.»
«Non puoi, o non vuoi?»
Intanto s'era avanzato fino al parapetto, e con la fronda tracciava qualche linea nell'acqua, che s'apriva rabbrividendo e scintillando.
Maria credé di scorgere un M in quelle linee vanescenti, ed ebbe desiderio di piangere e ridere nello stesso tempo.
La cingallegra cantava:

Se tu un giorno verrai sotto i paterni
Salici, guarda: forse l'amoroso
Sguardo de l'acque nel misterioso
Seno un pio nome ancora leggerà...

«Ti ho offeso, Maria?», domandò Stefano, sollevando la fronda, che gocciolò stille di argento. «Che hai?»
«Nulla! Mi dispiace solo la tua insistenza. Dici d'amarmi e intanto vorresti farmi del male: non mi offendi, ma mi addolori...»
«Senti, Maria», diss'egli dopo un istante: «è mio destino farmi sempre fraintendere. Perché? Non so; ma forse, sì, è meglio che tu te ne vada, perché mi sembra che da lontano ci comprenderemo di più. Se non altro, resteremo buoni amici, e tu verrai qualche volta a trovarci, a rallegrare la piccola vecchiaia di nostro padre. Verrai?».
«Verrò», diss'ella, e provava un dolore crescente, un dolore sottile e pauroso.
Rimasero nuovamente silenziosi, imbarazzati come due ragazzini.
«Tu mi fai diventare bambino», disse, con voce che sembrava naturale, mentre era forzata, «e non mi permetti di spiegarmi come vorrei. Ti scriverò.»
«Mai più!», esclamò ella spaventata.
«E perché? Sei strana... eppure...»
Gli venne in mente che Carlo le scriveva ed ella gli rispondeva: ma non osò dirglielo: solo espresse un ricordo venutogli per concatenazione d'idee.
«Di', a proposito: tu devi aver dei versi che parlano di questa vasca.»
«Sì. Li hai tu pure?», rispose ella, dopo qualche esitazione.
«Sì, li ho anch'io.»
Maria credé di salvarsi volgendo il breve discorso su questa pagina del passato che li separava; invece si trovò impigliata in una rete ancor più pericolosa, perché Stefano ricordò con voce grave e sommessa i versi che rievocavano l'infanzia affettuosamente trascorsa col fratello. Poi parve di rammentarsi qualche particolare commovente, ebbe un rapido splendore negli occhi, e rivolgendosi tutto a lei, col viso lumeggiato dai riflessi splendidi dell'acqua, disse:
«Senti, me lo ricordo come se fosse ieri: eravamo qui, intagliavamo due tubetti, tagliati da un ramo di sambuco, per formarne due tiranti: c'era il sole, come oggi, e la cingallegra, che cercavamo sempre invano lassù tra i rovi, cantava. Non so se era proprio questa, ma forse era la madre. Eravamo qui, avevamo io dieci, lui dodici anni: io pensavo di ammogliarmi, già, d'ammogliarmi, ed anche lui ci pensava.,. forse perché in quel tempo si parlava del matrimonio di Grazia, nostra sorella, morta poco dopo, tu lo sai. Basta, pensavamo d'ammogliarci; ma ci amavamo tanto che avremmo voluto prender la stessa sposa per entrambi: forse la cingallegra... E mi ricordo una cosa; che volevamo una sola sposa perché, nel caso morisse uno di noi due, l'altro le restasse... Vedi se volevamo bene alla nostra futura...»
«E se fosse morta lei prima?», domandò Maria, e pretendeva scherzare; ma il pallido sorriso le morì rapidamente sulle labbra all'intenso e penetrante sguardo che Stefano le rivolse.
«Ma ella non è morta...»
«È come lo fosse!», sospirò lei, e, come sentendo un pericolo vicino, si mosse, facendo forza a se stessa per vincere il senso di dolce e insidiosa malìa che da qualche momento la tratteneva là, davanti all'acqua trasparente, nel magico cerchio di quei riflessi d'oro, di quel canto appassionato di cingallegra, di quegli occhi limpidi e profondi come un abisso equoreo, di quel cielo autunnale che invitava ad amare e godere prima del vicino, imminente tramonto.
Ritornò per il viale fiancheggiato di rosai e di viti dalle rade foglie gialle. Stefano la seguì, e sorridendo le disse:
«Ella non è morta: ha semplicemente dimenticato la vita. Perché, poi, non so: forse perché è un po' egoista».
«Chi? la vita?»
«No, ella. Mi ricordo quei versi:

Ama, riamata: quando s'ama molto,
La vita è come un delicato fiore,
Che profuma col suo più dolce odore
Il vento che i suoi petali strappò...»

Ella si turbò maggiormente sentendogli ripetere i versi, ma camminava avanti ed egli non s'avvide.
«Tu, invece, Maria cara, non solo neghi il tuo profumo a chi ti fa del male, e sei tu stessa che ti fai del male, ma anche a chi vorrebbe irrorare e baciare i tuoi petali...»
Ella non rispose, non protestò contro l'ardito linguaggio poetico, ma affrettò la sua partenza perché soffriva; soffriva molto, ma d'un dolore a cui era frammischiata una strana paura di ignoti pericoli...


IV.

Davanti al piccolo convento di Silvestra Arca si stendeva un cortiletto cinto da altissimi muri, al di sopra dei quali si scorgeva solo un quadrato di cielo. Occhio umano non penetrava laggiù: durante l'estate solo le rondini riposavano i voli spensierati tra il verde luccichìo dei frammenti di vetro tempestati sulla cresta del muro; e i piccoli occhi rotondi guardavano curiosamente in fondo, le testoline piumate si dondolavano irrequiete; le sottili code s'aprivano a ventaglio, i grigi petti fremevano con metallici splendori; ma le rondini non cantavano, e volavano via con stridi acuti e vibranti che parevano di disapprovazione, proiettando le loro rapide ombre sul selciato del cortile.
Solo i corvi, il cui triangolo nero navigava lentamente nell'aria alta e fumigante, nelle tristi giornate autunnali, guardavano in fondo al piccolo cortile, mentre il loro crà crà prolungato e stridente si fondeva con la grigia e melanconica pace dei silenziosi vapori di novembre.
Nella voce dei corvi era tutta la tristezza di lontane pianure solitarie, e Silvestra, ascoltandola, si credeva rinchiusa in un chiostro perduto nelle vaste e desolate solitudini dell'altipiano sovrastante al paese.
Due volte al giorno la giovane e strana monaca ritirava dalla ruota, comunicante con uno stanzino attiguo al salotto da pranzo degli Arca, la colazione, il desinare, il caffè, la biancheria, e infine tutto ciò che abbisognava. Nessun'altra comunicazione ella aveva con la famiglia; solo in caso estremo di malattia avrebbe suonato un campanello che dava sullo stanzino, e i suoi sarebbero entrati per una porticina rossa praticata a fianco della ruota, che si doveva aprire solo in tali urgenti casi e per lasciar passare il vecchio zio prete, confessore di Silvestra.
Per ottenere da Roma il privilegio di questa strana monacazione, assai comune del resto in certi paesi sardi, gli Arca avevano faticato e speso assai, mettendo in moto molte persone influenti nelle alte sfere religiose.
Silvestra aveva i capelli rasi e indossava un costume monacale, non privo però d'una certa eleganza; e passava le giornate pregando e lavorando per i poveri.
Alle finestre delle quattro scialbe cellette di quel chiostro in miniatura non mancavano le inferriate verso il melanconico cortiletto. Silvestra viveva per lo più al pian terreno, fra la cameretta ove dormiva e lavorava, - arredata di un semplice lettuccio, d'un tavolino, di due sedie e un paniere d'asfodelo; col camino di pietra e il pavimento di mattoni rossi, su cui per qualche ora del mattino l'inferriata gettava gli scacchi del sole, - e la attigua stanzetta accomodata ad uso di cappella.
La vôlta e le pareti di questo strano oratorio erano tinte di granato cupo, vellutato, con ramificazioni di sottilissime palme d'oro che, assumendo l'illusione d'antica e preziosa tappezzeria, davano all'ambiente una fisionomia calma e severa, di salotto e di chiesa.
Occupava tutta la parete di fondo un altarino di marmo sormontato da una nicchia, entro cui si ergeva, immobile e lilialmente diafana, una Madonnina d'alabastro, artistico lavoro del secolo XVII, memoria di famiglia, dalla quale don Piane si era separato piangendo. E sull'elegante vôlta della nicchia sorretta da due colonnine toscane di marmo grigio, la cui oleosa opacità faceva meglio risaltare la trasparenza alabastrina della statuetta, posava un piccolo sarcofago di marmo bianco che pareva un'urna di gesso, e che sosteneva un fiammeggiante cuore di pietra rossa. Giacché Silvestra si era dedicata al Sacro Cuor di Maria.
Adornavano l'altare due candelabri d'argento con mazzi di pallide rose carnicine; tristi rose di seta diafana, aperte, languide, dai petali rivoltati, che parevano pronti a cadere; e vi era anche una lampada d'argento e di cristallo granato, entro cui la fiammella sempre accesa sembrava un tremolante rubino. Sotto la grave luce dell'alta finestruola semicircolare, dai vetri smerigliati, l'inginocchiatoio di noce, lucido e duro, in una continua immobilità di preghiera e di sogno, sembrava una persona eternamente inginocchiata e resa rigida da profonde suggestioni ascetiche.
In quel chiarore di fuoco mistico che s'accendeva porpureo col sole, e al cader della sera moriva in una prolungata agonia d'ombre silenziose, le ramificazioni delle pareti scintillavano tenuemente, quasi un riflesso di luna smuovesse davvero le palme d'oro; e riposavano le vanescenti figure di antichi quadri ad olio, appesi un po' bassi con cordoni di seta granata.
Queste tele, dalle cornici nere e rozze, erano pur esse vecchie memorie di famiglia: due erano dipinti chiaro-scuri, appannati da una patina grigiastra e alquanto screpolati; una si diceva copia del Guercino, e rappresentava un Cristo incoronato di spine, al cui volto giovanile, solcato da grosse lagrime sanguigne, la corta e riccioluta barba rossastra dava una grazia nordica assai delicata. Un altro quadro, meglio tenuto, chiaro ancora e luminoso, squisitissima opera d'arte di gran valore, da cui Stefano a sua volta si era separato con grande rimpianto, per tradizione famigliare lo si assicurava un Carpaccio autentico, e, certo, se non al Maestro, apparteneva alla sua scuola; era forse una vaga imitazione del famoso Sogno di Sant'Orsola.
La tela degli Arca, larga un metro e venti ed alta quasi due metri, non aveva titolo e solo una data: Venetia, 1503, e due iniziali: V. C.; ma probabilmente era un'Annunziazione.
Vi s'osservava un dappiedi da letto a baldacchino, lumeggiato da una bifora, sul cui davanzale si ergeva un vasetto di metallo contenente una lunga e rigida pianticella fiorita di rose. Prostrata su un inginocchiatoio gotico, a sinistra, pregava e aspettava, presa da estasi e da arcano timore, una giovinetta il cui peplo oscuro lasciava intravedere forme modellate, snelle ed esili, sì, ma non rigide e diafane come nelle vergini preraffaellite degli altri due antichi quadri.
Una viva luminosità di sole, fulgida e dorata, invadeva tutto il piano sinistro della tela, lumeggiando vivissimamente l'angolo del soffitto di legno, piovendo sui piccoli mobili, che quasi svanivano sullo sfondo della camera e nella irradiazione della luce. Donde veniva lo splendore? Da una finestra invisibile o dall'Angelo che s'avvicinava?
Silvestra restava ore ed ore inginocchiata davanti a questo quadro, e fra lei e la figura dipinta esisteva una vaga rassomiglianza, specialmente nel bianco scorcio del volto e nella tinta castana dei capelli che le crescevano di nuovo a ciocche folte e morbide dalle finissime punte dorate.
Ma nessuna luce, tranne quella del passato, ardente e melanconica come il rosso chiarore del piccolo oratorio, irradiava il viso smorto e i freddi, limpidi occhi verdognoli della giovane monaca di casa. Ella non aspettava nulla, e non aveva estasi, non ardori divini; solo talvolta, per semplice autosuggestione, s'infervorava nella preghiera, e per qualche istante le sembrava di esser sommersa in un'onda di viva luce, vicina a Dio ed alla Grazia; ma più che estasi era questa una sensazione di benessere fisico, nella cui momentanea dolcezza la mente obliava il passato e il cuore perdonava e si sentiva egoisticamente tranquillo per l'avvenire. Infatti provava questi momenti spirituali, non nell'oratorio, davanti alla Vergine del Carpaccio e sotto la porpurea luce del Sacro Cuore, ma quando stava a letto o lavorava quietamente al sole del cortile, nella luce azzurra de' bei giorni sereni.
Nel mangiare, nel dormire, nel vestire, e infine in tutta la sua esistenza materiale, ella non s'imponeva né sacrifizio né penitenza convinta che per guadagnarsi il cielo bastasse la volontaria solitudine, la continua preghiera ed il lavoro per i poveri.
Durante l'inverno l'indifferenza e il suo distacco dal mondo parvero aumentare; anche la luce melanconica dei ricordi svaniva nel biancore fosco e continuo dell'aria gelata.
Nel cortiletto s'ammucchiava la neve cristallizzata dal gelo; in alto incombeva un quadrato di cielo basso e bianco, e a quel freddo riflesso nivale anche l'aria e la luce dell'oratorio impallidavano freddamente.
L'anima di Silvestra gelò e parve cristallizzarsi come la neve; eppure nella cella, ove il caminetto restava acceso notte e giorno, spirava un tepore intimo e grato; nessun rumore giungeva, e solo le voci sonore dei venti raccontavano nella notte strane storie, e avevano gridi lontani e richiami misteriosi.
Diceva il vento:
"Silvestra, Silvestra, è possibile mai che tu dimentichi, che l'anima tua dorma, che dorma il tuo pensiero, che dorma il tuo cuore e dormano i tuoi occhi?
L'altipiano è tutto coperto di neve: spuntano appena gli olivastri, i cespugli, le siepi dei muri; e il cielo è grigio e bianco e su questo smorto sfondo dilagano nuvole e vapori fumosi che vanno, che vanno, che vanno, come vado io. Sai tu chi sono io? Non ti ricordi di me? Io mi ricordo di te attraversando la bianca desolazione dell'alta pianura; e al vento che mi schiaffeggia violentemente e mi toglie il respiro e rende violette le labbra che t'hanno baciato, al vento gitto la mia voce. E nel vento è la mia voce che ti parla. È dunque possibile che tu mi dimentichi nella serenità del tuo piccolo chiostro, se io ti ricordo fra i pericoli e le minaccie del tempo, degli uomini e della natura?
Silvestra, Silvestra Arca, è mai possibile che tu dorma, che tu riposi? Che mistero è nell'anima tua, se non ti scuote la mia voce incarnata nella violenta sonorità dei venti? È il mistero felino della tua razza? È la superbia di tuo fratello, è la sciocca crudeltà di tuo padre che mi perseguitano perché osai amarti?".
E così dicendo gemeva larghi singulti sonori il vento marino, che veniva dalla costa portando seco tutto il gelo delle nevi azzurrognole di Monte Bardia e di Monte Pizzinnu; e il vento di tramontana, che gettava sull'altipiano nevoso la livida desolazione di Monte Albo, piangeva con sibili acuti che svanivano lentamente nella notte; e tutte le voci, i gridi, i gemiti e le sonore melodie selvaggie dei venti raccontavano ognuna qualche cosa, implorando, ricordando e insistendo.
Silvestra ascoltava e sentiva, sì, ma nel tepore del piccolo letto bianco, nel benessere del dormiveglia la sua anima non rispondeva alle rumorose voci della notte: solo, e raramente, pregava per la pace dello spirito errante il cui grido veniva col soffio dei venti marini e col sibilo dei venti del Nord.
Nel caminetto di pietra ardeva una sottile lingua violetta orlata di alluminio, e le brage si velavano di pallidi merletti cenerini; la lampada granata dell'oratorio oscillava silenziosamente, e la luminosità irradiante la Vergine del Carpaccio si colorava di sprazzi scarlatti, quasi al riflesso d'un freddo ma rosso tramonto autunnale.
In alto, nel cinereo pallore della nicchia, la Madonnina svaporava assumendo una trasparenza incorporea; più in alto, sul sarcofago di neve opaca, il cuore non aveva più raggi d'amore e di carità, e le fiammelle si restringevano spegnendosi. Il pensiero s'elevava a Dio, ringraziando per l'indifferenza e l'oblio sonnolento che l'inverno stendeva sulle cose e sulle anime; e il cuore dimenticava e taceva.
Ma venne la primavera. Sul cielo ancora freddo, ma alto e nitidissimo, riapparve qualche rapido volo di rondine e il sole scese nel cortiletto, indugiandosi negli angoli umidi, verdognoli di museo, ove era rimasto qualche rimasuglio di neve ghiacciata; sulle creste dei muri luccicarono verdi e lavati i frantumi di vetro; i davanzali di granito resi bruni dall'umido riprendevano la prima tinta chiara; e sulle grigie cime del noce dell'orto attiguo gli estremi rami sottili si squarciarono per lasciar uscire le gemme.
Di mattina, all'aurora, la brezza ancora fredda portava sottili fragranze di mandorli fioriti, di siepi rinverdite lungo i margini del fiume, di sambuchi galleggianti sulle acque, e di grani nascenti; nei tiepidi meriggi giungevano timidi gorgheggi di cingallegre, lontane grida di bimbi in cerca di nidi; nella notte i venti non parlavano più, ma nell'indicibile silenzio dei cieli cristallini le stelle doppie oscillavano con rapidi splendori d'acqua marina e viola iridata, di giallo-oro e di perla turchina; la luna calava in nitide spiagge d'argento fuso, e le cose dormienti, ma rinate alla vita, parlavano in sogno e la loro voce silenziosa si imponeva più dei sonori gridi del vento.
Silvestra non dormiva più tanto profondamente; i silenzi delle notti di marzo le narravano cose sottili e arcane, filtrandosi nel sangue come spille di cristallo; l'aurora nitidamente violacea batteva sui vetri, svegliandola, con improvvisi riflessi di nuova luce; e lungo le tiepide giornate, quando i soffusi e lattei ondeggiamenti delle prime nuvole primaverili passando sul cielo come immense gregge attraverso cerulee pianure, proiettavano la dolcezza della stagione rinascente, ella provava un'inquietudine, un non confessato desiderio d'aria e di vita. E indistinte le tornavano alla mente le memorie dei paterni ovili, le brevi residenze primaverili nelle case coloniche delle tancas dagli alti pascoli aromatici, le feste pastorali, le selvagge canzoni antiche dei pastori, che, tosando le pecore legate e stese sui paleggi fioriti, inneggiavano al verde 'eranu (5) sardo.
Una sera, ai primi d'aprile, le fu introdotto sul vassoio del caffè un foglietto del calendario, su cui a lapis rosso, era segnato il giorno sette, Pasqua di resurrezione. Capì che doveva prepararsi per il precetto pasquale, e provò un insolito sentimento di piacere al pensiero di rivedere lo zio prete, che, ad ogni modo, avrebbe portato qualche cosa del di fuori, qualche pallido riflesso della vita esterna. Poi, accorgendosi di questa sensazione profana, si rattristò e cercò di rimediarvi colla mistica gioia della vicina Comunione. Entrò subito nell'oratorio, s'inginocchiò per terra, rivolta all'altare, e prima di cominciare l'esame pregò.
Fuori cadeva la sera, e l'aria era leggermente velata; i vetri, un po' sbiaditi dalle piogge, lasciavano penetrare una rosea e delicata luce, la lampada oscillava sempre, le smorte rose sembravano languire per stanchezza; e al di sopra della diafana Madonnina, il cuore risplendeva nuovamente, ma d'un fuoco ancora pallido, che gettava tutta la rosea luminosità delle sue fiamme trasparenti di sole rinascente sulla Vergine del Carpaccio.
Per tutta la piccola cappella sembrava salisse la delicata luce di una mistica aurora; ma Silvestra era inenarrabilmente triste, e s'incurvava muovendo le belle labbra scarlatte e battendosi ritmicamente sul petto la palma della mano destra. Si sentiva in peccato. Aveva dato ascolto alle voci della natura, che le parlava con gli astri e le notturne fragranze. Aveva desiderato notizie del mondo. Aveva trascurato la preghiera ed il lavoro.
Si era forse pentita dei suoi voti?
"Questo no!", gridò fra sé, sollevando la testa. Ma aveva sentito rancore per coloro che indirettamente l'avevano costretta a pronunziare il voto. E coloro erano i suoi parenti. Aveva rimpianto vagamente la sua vita passata. Aveva segretamente pianto la morte della sua vita. Desiderava dunque il passato?
"No; ma non posso certe volte allontanarne i ricordi. La tentazione è più forte di me, la tentazione mi vince. Aiutatemi voi, o sacro Cuore di Maria, ridonatemi la pace, illuminatemi..."
Reclinò la testa e chiuse gli occhi. Quando cessò di pregare e d'esaminarsi era quasi buio; s'alzò e, sentendosi stanca, s'appoggiò un momento all'inginocchiatoio. E nella nuova posizione, fra l'oscurità crescente, provò un gelido e calmo senso di sollievo. L'ultimo roseo raggio del sacro Cuore, trasfondendosi nell'oscillante luce della lampada, le parlò:
"Che credi tu di ritrovare nel triste mondo ove desideri ritornare? Non c'è nulla per te: il tuo amore è morto, la tua casa è triste: ti aspetta il dolore e il barbaro lutto sardo per la vicina morte di tuo padre; t'aspetta l'indifferenza, forse l'odio di tuo fratello, che non desidera rivederti, t'aspetta la derisione del prossimo. La vita è breve, e il mondo che desideri è più indicibilmente triste di come lo lasciasti".
E si trovò nuovamente forte contro la tentazione e la stoltezza dei profani desiderî, e una gran serenità la invase. Fece alcuni passi e, curvatasi dietro l'altare, prese una fiala, del cui limpido olio giallo rifornì la lampada.
Alla luce della fiammella, che tosto si ravvivò, il suo viso spiccava illuminato sul fondo già oscuro della parete. Era un volto infantile, dalle guance brevi e piene, con la bocca rossa sporgente e le sopracciglia e le ciglia lunghe e bionde. La persona piuttosto piccola, ma sottile, dal collo lungo, il busto svelto e i fianchi eleganti, apparve alta nella lunga veste nera e nel rossastro chiaroscuro dell'oratorio.
Rimessa la fiala, Silvestra uscì, inchinandosi prima di chiuder la porta.
Dalla ruota saliva un leggero vapore odoroso di selvaggina, accomodata con aceto e rosmarino.
"Stefano è stato a caccia!", pensò.
Nell'altro piatto era una piccola e sottile torta di pasta e formaggio fresco ingiallito con lo zafferano.
"Hanno già fatto i dolci per Pasqua", osservò, e il pensiero tornò con insidiosa dolcezza ai ricordi.
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