  | All'ombra de' cipressi e dentro l'urne 
confortate di pianto è forse il sonno 
della morte men duro? Ove piú il Sole 
per me alla terra non fecondi questa 
bella d'erbe famiglia e d'animali, 
e quando vaghe di lusinghe innanzi 
a me non danzeran l'ore future, 
né da te, dolce amico, udrò piú il verso 
e la mesta armonia che lo governa, 
né piú nel cor mi parlerà lo spirto 
delle vergini Muse e dell'amore, 
unico spirto a mia vita raminga, 
qual fia ristoro a' dí perduti un sasso 
che distingua le mie dalle infinite 
ossa che in terra e in mar semina morte? 
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, 
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve 
tutte cose l'obblío nella sua notte; 
e una forza operosa le affatica 
di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe 
e l'estreme sembianze e le reliquie 
della terra e del ciel traveste il tempo. 
Ma perché pria del tempo a sé il mortale 
invidierà l'illusîon che spento 
pur lo sofferma al limitar di Dite? 
Non vive ei forse anche sotterra, quando 
gli sarà muta l'armonia del giorno, 
se può destarla con soavi cure 
nella mente de' suoi? Celeste è questa 
corrispondenza d'amorosi sensi, 
celeste dote è negli umani; e spesso 
per lei si vive con l'amico estinto 
e l'estinto con noi, se pia la terra 
che lo raccolse infante e lo nutriva, 
nel suo grembo materno ultimo asilo 
porgendo, sacre le reliquie renda 
dall'insultar de' nembi e dal profano 
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, 
e di fiori odorata arbore amica 
le ceneri di molli ombre consoli. 
Sol chi non lascia eredità d'affetti 
poca gioia ha dell'urna; e se pur mira 
dopo l'esequie, errar vede il suo spirto 
fra 'l compianto de' templi acherontei, 
o ricovrarsi sotto le grandi ale 
del perdono d'lddio: ma la sua polve 
lascia alle ortiche di deserta gleba 
ove né donna innamorata preghi, 
né passeggier solingo oda il sospiro 
che dal tumulo a noi manda Natura. 
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri 
fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti 
contende. E senza tomba giace il tuo 
sacerdote, o Talia, che a te cantando 
nel suo povero tetto educò un lauro 
con lungo amore, e t'appendea corone; 
e tu gli ornavi del tuo riso i canti 
che il lombardo pungean Sardanapalo, 
cui solo è dolce il muggito de' buoi 
che dagli antri abdüani e dal Ticino 
lo fan d'ozi beato e di vivande. 
O bella Musa, ove sei tu? Non sento 
spirar l'ambrosia, indizio del tuo nume, 
fra queste piante ov'io siedo e sospiro 
il mio tetto materno. E tu venivi 
e sorridevi a lui sotto quel tiglio 
ch'or con dimesse frondi va fremendo 
perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio 
cui già di calma era cortese e d'ombre. 
Forse tu fra plebei tumuli guardi 
vagolando, ove dorma il sacro capo 
del tuo Parini? A lui non ombre pose 
tra le sue mura la citta, lasciva 
d'evirati cantori allettatrice, 
non pietra, non parola; e forse l'ossa 
col mozzo capo gl'insanguina il ladro 
chc lasciò sul patibolo i delitti. 
Senti raspar fra le macerie e i bronchi 
la derelitta cagna ramingando 
su le fosse e famelica ululando; 
e uscir del teschio, ove fuggia la luna, 
l'úpupa, e svolazzar su per le croci 
sparse per la funerêa campagna 
e l'immonda accusar col luttüoso 
singulto i rai di che son pie le stelle 
alle obblîate sepolture. Indarno 
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade 
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti 
non sorge fiore, ove non sia d'umane 
lodi onorato e d'amoroso pianto. 
Dal dí che nozze e tribunali ed are 
diero alle umane belve esser pietose 
di se stesse e d'altrui, toglieano i vivi 
all'etere maligno ed alle fere 
i miserandi avanzi che Natura 
con veci eterne a sensi altri destina. 
Testimonianza a' fasti eran le tombe, 
ed are a' figli; e uscían quindi i responsi 
de' domestici Lari, e fu temuto 
su la polve degli avi il giuramento: 
religîon che con diversi riti 
le virtú patrie e la pietà congiunta 
tradussero per lungo ordine d'anni. 
Non sempre i sassi sepolcrali a' templi 
fean pavimento; né agl'incensi avvolto 
de' cadaveri il lezzo i supplicanti 
contaminò; né le città fur meste 
d'effigîati scheletri: le madri 
balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono 
nude le braccia su l'amato capo 
del lor caro lattante onde nol desti 
il gemer lungo di persona morta 
chiedente la venal prece agli eredi 
dal santuario. Ma cipressi e cedri 
di puri effluvi i zefiri impregnando 
perenne verde protendean su l'urne 
per memoria perenne, e prezîosi 
vasi accogliean le lagrime votive. 
Rapían gli amici una favilla al Sole 
a illuminar la sotterranea notte, 
perché gli occhi dell'uom cercan morendo 
il Sole; e tutti l'ultimo sospiro 
mandano i petti alla fuggente luce. 
Le fontane versando acque lustrali 
amaranti educavano e vîole 
su la funebre zolla; e chi sedea 
a libar latte o a raccontar sue pene 
ai cari estinti, una fragranza intorno 
sentía qual d'aura de' beati Elisi. 
Pietosa insania che fa cari gli orti 
de' suburbani avelli alle britanne 
vergini, dove le conduce amore 
della perduta madre, ove clementi 
pregaro i Geni del ritorno al prode 
cne tronca fe' la trîonfata nave 
del maggior pino, e si scavò la bara. 
Ma ove dorme il furor d'inclite gesta 
e sien ministri al vivere civile 
l'opulenza e il tremore, inutil pompa 
e inaugurate immagini dell'Orco 
sorgon cippi e marmorei monumenti. 
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo, 
decoro e mente al bello italo regno, 
nelle adulate reggie ha sepoltura 
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi 
morte apparecchi riposato albergo, 
ove una volta la fortuna cessi 
dalle vendette, e l'amistà raccolga 
non di tesori eredità, ma caldi 
sensi e di liberal carme l'esempio. 
A egregie cose il forte animo accendono 
l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella 
e santa fanno al peregrin la terra 
che le ricetta. Io quando il monumento 
vidi ove posa il corpo di quel grande 
che temprando lo scettro a' regnatori 
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela 
di che lagrime grondi e di che sangue; 
e l'arca di colui che nuovo Olimpo 
alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide 
sotto l'etereo padiglion rotarsi 
piú mondi, e il Sole irradîarli immoto, 
onde all'Anglo che tanta ala vi stese 
sgombrò primo le vie del firmamento: 
- Te beata, gridai, per le felici 
aure pregne di vita, e pe' lavacri 
che da' suoi gioghi a te versa Apennino! 
Lieta dell'aer tuo veste la Luna 
di luce limpidissima i tuoi colli 
per vendemmia festanti, e le convalli 
popolate di case e d'oliveti 
mille di fiori al ciel mandano incensi: 
e tu prima, Firenze, udivi il carme 
che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco, 
e tu i cari parenti e l'idîoma 
désti a quel dolce di Calliope labbro 
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma 
d'un velo candidissimo adornando, 
rendea nel grembo a Venere Celeste; 
ma piú beata che in un tempio accolte 
serbi l'itale glorie, uniche forse 
da che le mal vietate Alpi e l'alterna 
onnipotenza delle umane sorti 
armi e sostanze t' invadeano ed are 
e patria e, tranne la memoria, tutto. 
Che ove speme di gloria agli animosi 
intelletti rifulga ed all'Italia, 
quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi 
venne spesso Vittorio ad ispirarsi. 
Irato a' patrii Numi, errava muto 
ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo 
desîoso mirando; e poi che nullo 
vivente aspetto gli molcea la cura, 
qui posava l'austero; e avea sul volto 
il pallor della morte e la speranza. 
Con questi grandi abita eterno: e l'ossa 
fremono amor di patria. Ah sí! da quella 
religîosa pace un Nume parla: 
e nutria contro a' Persi in Maratona 
ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi, 
la virtú greca e l'ira. Il navigante 
che veleggiò quel mar sotto l'Eubea, 
vedea per l'ampia oscurità scintille 
balenar d'elmi e di cozzanti brandi, 
fumar le pire igneo vapor, corrusche 
d'armi ferree vedea larve guerriere 
cercar la pugna; e all'orror de' notturni 
silenzi si spandea lungo ne' campi 
di falangi un tumulto e un suon di tube 
e un incalzar di cavalli accorrenti 
scalpitanti su gli elmi a' moribondi, 
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto. 
Felice te che il regno ampio de' venti, 
Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi! 
E se il piloto ti drizzò l'antenna 
oltre l'isole egèe, d'antichi fatti 
certo udisti suonar dell'Ellesponto 
i liti, e la marea mugghiar portando 
alle prode retèe l'armi d'Achille 
sovra l'ossa d'Ajace: a' generosi 
giusta di glorie dispensiera è morte; 
né senno astuto né favor di regi 
all'Itaco le spoglie ardue serbava, 
ché alla poppa raminga le ritolse 
l'onda incitata dagl'inferni Dei. 
E me che i tempi ed il desio d'onore 
fan per diversa gente ir fuggitivo, 
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse 
del mortale pensiero animatrici. 
Siedon custodi de' sepolcri, e quando 
il tempo con sue fredde ale vi spazza 
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti 
di lor canto i deserti, e l'armonia 
vince di mille secoli il silenzio. 
Ed oggi nella Troade inseminata 
eterno splende a' peregrini un loco, 
eterno per la Ninfa a cui fu sposo 
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio, 
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta 
talami e il regno della giulia gente. 
Però che quando Elettra udí la Parca 
che lei dalle vitali aure del giorno 
chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove 
mandò il voto supremo: - E se, diceva, 
a te fur care le mie chiome e il viso 
e le dolci vigilie, e non mi assente 
premio miglior la volontà de' fati, 
la morta amica almen guarda dal cielo 
onde d'Elettra tua resti la fama. - 
Cosí orando moriva. E ne gemea 
l'Olimpio: e l'immortal capo accennando 
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa, 
e fe' sacro quel corpo e la sua tomba. 
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto 
cenere d'Ilo; ivi l'iliache donne 
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando 
da' lor mariti l'imminente fato; 
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto 
le fea parlar di Troia il dí mortale, 
venne; e all'ombre cantò carme amoroso, 
e guidava i nepoti, e l'amoroso 
apprendeva lamento a' giovinetti. 
E dicea sospiranda: - Oh se mai d'Argo, 
ove al Tidíde e di Läerte al figlio 
pascerete i cavalli, a voi permetta 
ritorno il cielo, invan la patria vostra 
cercherete! Le mura, opra di Febo, 
sotto le lor reliquie fumeranno. 
Ma i Penati di Troia avranno stanza 
in queste tombe; ché de' Numi è dono 
servar nelle miserie altero nome. 
E voi, palme e cipressi che le nuore 
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto 
di vedovili lagrime innaffiati, 
proteggete i miei padri: e chi la scure 
asterrà pio dalle devote frondi 
men si dorrà di consanguinei lutti, 
e santamente toccherà l'altare. 
Proteggete i miei padri. Un dí vedrete 
mendico un cieco errar sotto le vostre 
antichissime ombre, e brancolando 
penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne, 
e interrogarle. Gemeranno gli antri 
secreti, e tutta narrerà la tomba 
Ilio raso due volte e due risorto 
splendidamente su le mute vie 
per far piú bello l'ultimo trofeo 
ai fatati Pelídi. Il sacro vate, 
placando quelle afflitte alme col canto, 
i prenci argivi eternerà per quante 
abbraccia terre il gran padre Oceàno. 
E tu onore di pianti, Ettore, avrai, 
ove fia santo e lagrimato il sangue 
per la patria versato, e finché il Sole 
risplenderà su le sciagure umane. 
 
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