  | Qual dagli antri marini 
l'astro più caro a Venere 
co' rugiadosi crini 
fra le fuggenti tenebre 
appare, e il suo viaggio 
orna col lume dell'eterno raggio, 
sorgon così tue dive 
membra dall'egro talamo 
e in te beltà rivive, 
l'aurea beltate ond'ebbero 
ristoro unico a' mali 
le nate a vaneggiar menti mortali. 
Fiorir sul caro viso 
veggo la rosa, tornano 
i grandi occhi al sorriso 
insidiando; e vegliano 
per te in novelli pianti 
trepide madri, e sospettose amanti. 
Le Ore che dianzi meste 
ministre eran de' farmachi, 
oggi l'indica veste, 
e i monili cui gemmano 
effigiati Dei 
inclito studio di scalpelli achei, 
e i candidi coturni 
e gli amuleti recano 
onde a' cori notturni 
te, Dea, mirando obbliano 
i garzoni le danze, 
te principio d'affanni e di speranze. 
O quando l'arpa adorni 
e co' novelli numeri 
e co' molli contorni 
delle forme che facile 
bisso seconda, e intanto 
fra il basso sospirar vola il tuo canto 
più periglioso; o quando 
balli disegni, e l'agile 
corpo all'aure fidando 
ignoti vezzi sfuggono 
dai manti, e dal negletto 
velo scomposto sul sommosso petto. 
All'agitarti, lente 
cascan le trecce, nitide 
per ambrosia recente, 
mal fide all'aureo pettine 
e alla rosea ghirlanda 
che or con l'alma salute april ti manda. 
Così ancelle d'Amore 
a te d'intorno volano 
invidiate l'Ore, 
meste le Grazie mirino 
chi la beltà fugace 
ti membra, e il giorno dell'eterna pace. 
Mortale guidatrice 
d'oceanine vergini 
la Parrasia pendice 
tenea la casta Artemide 
e fea terror di cervi 
lungi fischiar d'arco cidonio i nervi. 
Lei predicò la fama 
olimpia prole; pavido 
diva il mondo la chiama, 
e le sacrò l'Elisio 
soglio, ed il certo telo, 
e i monti, e il carro della luna in cielo. 
Are così a Bellona 
un tempo invitta amazzone, 
die' il vocale Elicona; 
ella il cimiero e l'egida 
or contro l'Anglia avara 
e le cavalle ed il furor prepara. 
E quella a cui di sacro 
mirto te veggo cingere 
devota il simolacro, 
che presiede marmoreo 
agli arcani tuoi lari 
ove a me sol sacerdotessa appari 
regina fu, Citera 
e Cipro ove perpetua 
odora primavera 
regnò beata, e l'isole 
che col selvoso dorso 
rompono agli euri e al grande Ionio il corso. 
Ebbi in quel mar la culla, 
ivi erra ignudo spirito 
di Faon la fanciulla, 
e se il notturno zeffiro 
blando sui flutti spira 
suonano i liti un lamentar di lira: 
ond'io, pien del nativo 
aer sacro, su l'Itala 
grave cetra derivo 
per te le corde eolie, 
e avrai divina i voti 
fra gl'inni miei delle insubri nepoti. 
 
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