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Info sull'Opera
Autore:
Rassegna Stampa
Tipo:
Poesia
 
Notizie Presenti:
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Intervista ad Ilaria Tessier, che presenta ai lettori il libro "Anima"

di Rassegna Stampa

✔️Intervista ad Ilaria Tessier, che presenta ai lettori il libro "Anima"

Domanda - Partiamo proprio dal titolo, come mai “Anima”. Quali sono gli argomenti ricorrenti, o per lei fondamentali, che tratta in questo volume?
Risposta - Il termine “anima” è un termine importante, esso rimanda chiunque lo legga alla propria interiorità. È un termine che può suonare imbarazzante e rivoluzionario in un mondo sempre più attento all’esteriorità, perché attiva gli occhi della mente e suscita una visione di sé alternativa a quella di un corpo dotato di nome e cognome e di un ruolo nel qui e ora.
La consapevolezza o almeno il dubbio di essere un’entità biologica impregnata di un’entità immateriale, che sconfina dai limiti che definiscono ogni individuo, ci rende solidali non solo con i più simili, ma anche con ciò che appare dissimile senza esserlo, ovvero con la Natura.
La sola riflessione sulla parola “anima” porta con sé la risonanza con un quid, immanente in ogni essere, un principio unificante e vivificante, presente in ogni singola manifestazione del mondo, anche delle cose che consideriamo “morte”, solo perché non abbiamo strumenti adeguati per vederne la vita celata.
L’anima è il luogo impalpabile del nostro centro, ciò che misteriosamente ci rende riconoscibili a noi stessi e agli altri, nonostante i cambiamenti che subiamo attraverso l’esperienza temporale.
L’anima è il fattore di coerenza dei nostri mutamenti ed è forse ciò che resta di noi dopo il viaggio dell’esistenza.
Spinta da un senso di necessità scrivo per dare voce a pensieri ed emozioni presenti in ciascuno, che ciascuno può riconoscere come propri. Perciò le mie liriche non sono in realtà più mie già nel momento in cui vengono fuori, perché sono tutte improntate a dare valore ad ogni piccolo momento, in ogni sua accezione, interiore ed esteriore, perciò appartengono a tutti. Nulla può essere tralasciato come poco importante, quando si parla di vita, né può essere davvero scisso in un dentro e un fuori di noi.

Domanda - Quanto la realtà ha inciso nella scrittura?
Risposta - La parola “realtà” è carica di significato e ambiguità, perché può esprimere concetti opposti.
Da un lato, troviamo il significato più comune, ovvero quello che per realtà intende la sequela di fenomeni e avvenimenti che ci coinvolgono più o meno direttamente nell’arco temporale tra la nascita e la morte.
Dall’altro lato, troviamo il significato utilizzato in filosofia e in religione per intendere ciò che è sotteso al molteplice e non è soggetto al tempo cronologico.
Questi due significati, nella visione panteistica che ho del mondo, non si escludono e dettano il senso di tutto ciò che scrivo e che scriverò.

Domanda - La scrittura come valore testimoniale, cosa ha voluto salvare e custodire dall’oblio del tempo con questo suo libro?
Risposta - E’ essenziale ricordare a noi stessi che siamo una delle innumerevoli e ugualmente necessarie manifestazioni finite di una sola anima infinita, che informa la pasta del mondo.
Non dimenticare chi siamo, questo è il messaggio essenziale, che deve essere salvato dall’oblio di una vita distratta e di corsa.
Grazie all’impegno costante, che ciascuno può e deve esercitare secondo le proprie capacità in ogni momento dell’esistenza, la nostra anima potrà rimanere in sintonia con lo spirito vitale di cui partecipa.
Il senso del mio scrivere in forma lirica è dunque quello di tentare di comunicare questo messaggio intimo di amore e consapevolezza, accedendo, tramite la potenza evocativa delle parole, alla memoria, alla fantasia e al sentimento, che sono i portali della conoscenza intuitiva presente in ognuno.
La poesia è un eterno presente di qualche istante di noi, che potrà sopravvivere fondendosi ancora e ancora nei presenti eterni dei lettori di ogni tempo.
Un testo scritto, e più ancora un testo poetico, è uno strumento di realtà virtuale formidabile, che per funzionare ha solo bisogno di energia mentale. Il testo poetico vibra come colore e musica e, solo seguendo - senza ragionamenti - il ritmo e il suono delle parole, persino di lingue sconosciute, ci catapulta dentro emozioni e pensieri da altri già vissuti, come se fossimo noi, lì in quel preciso momento di quella esatta coordinata spazio-tempo e accade così che la nostra anima misteriosamente partecipa della loro peculiare felicità, della loro specifica tristezza, del loro preciso coraggio, della loro particolare paura...

Domanda - A conclusione di questa esperienza formativa che ha partorito “ANIMA”, se dovesse isolare degli episodi che ricorda con particolare favore come li descriverebbe?
Risposta - La poesia è in ciascuno di noi, ce ne accorgiamo quando ci guardiamo dentro.
Nei casi fortunati, ma rari, l'introspezione deriva da avvenimenti di gioia incontenibile come portare in grembo un figlio, innamorarsi, sentire di aver fatto la cosa giusta.
Più spesso questo atto di introspezione lo realizziamo invece nelle difficoltà, o peggio, quando la morte si manifesta a noi.
Allora, quando qualunque aiuto esterno fallisce, ci raggomitoliamo per cercare una risorsa interiore ed è in questi momenti che ci salviamo e ci scopriamo #poeti, finalmente capaci di vedere ciò che è sempre stato sotto i nostri occhi: la sacralità del Tutto, nel bello e nel brutto.

Domanda - Quali sono le sue fonti di ispirazione: altri autori che ritiene fondamentali nella sua formazione culturale e sentimentale?
Risposta - Difficile rispondere a questa domanda senza far torto a qualcuno, solo per l’incapacià di rammentare tutti in un sol fiato.
Riguardo alla letteratura, i primi che mi sovvengono sono gli autori italiani del Secolo Breve, i quali ai tempi del liceo mi incantarono durante le luminose, lunghissime, giornate estive, in cui vivevo molte vite avvolta in una bolla senza tempo. Come non citare Eugenio Montale con le sue rime inattese e musicali e il suo amico Camillo Sbarbaro, che rimase umile in tanta grandezza di poeta e botanico (la botanica è anche una mia passione), e Giorgio Caproni dal lessico semplice e dal messaggio ricercato, Cesare Pavese con i suoi temi ricorrenti di solitudine e incomunicabilità e di ritorni traditi dalla perdita irrimediabile di un mondo passato che non tornerà.
A lenire l’angoscia esistenziale della incomunicabilità, che in adolescenza si manifesta a tutti, è stato di aiuto riflettere su Umberto Saba, dal quale ho appreso che scrivere, specie in forma lirica, prima di essere un atto di comunicazione con gli altri, è un modo per aprire un canale di comunicazione con sé stessi, attraverso l’introspezione, spinti dal sano istinto a conoscersi.
Ricordo bene poi la prima volta che mi sono imbattuta nella inquietante visione del mondo di Dino Buzzati, un mondo come luogo di brutte sorprese, in cui, chi vede oltre la superficie, vive costantemente in stato di allerta. Questa visione di un mondo fantastico, ma angosciante è stata presto compensata dal mondo imprevedibile, ma molto più rassicurante che emerge dai testi di Italo Calvino.
Dalla sensibilità femminile di Ada Negri ho tratto la natura non elitaria della poesia e l’importanza politica e sociale di narrare, in forma di lirica breve e intima, la realtà tribolata vissuta da molti.
Dalla poetica di quella ragazza milanese, che era Antonia Pozzi, così tanto piena di vita, da morire assai giovane suicida, quarant’anni prima che le fosse riconosciuto il suo valore letterario e che venissero rese pubbliche le sue carte, ho imparato la tensione a conservare la freschezza e la bontà d’animo anche nei periodi più cupi. Anche Alda Merini è stata un esempio per me essenziale su come si realizza la fusione tra scrittura e psicoterapia, per resistere agli attacchi della vita e rimanere interi.
La profondità vertiginosa di Salvatore Quasimodo l’ho percepita prima di tutto leggendo testo a fronte al ginnasio le sue traduzioni dei lirici greci, nelle quali egli, essendo un grande poeta, per rimanere fedele al senso del testo originale, non temeva di tradirne la sinonimia, per creare una poesia in tutto aderente alla antica, ma moderna. Poi, in terzo liceo studiai le sue opere ermetiche, delle quali è impossibile non cadere innamorati.
Da Giuseppe Ungaretti ricevetti il dono di un pugno stretto dentro al petto, quando leggendo fui sbalzata senza preavviso accanto al cadavere digrignante del suo compagno di trincea, fin dentro la più pervicace volontà del poeta di continuare a vivere e a partecipare dell’Universo a tutti i costi.
Anche da Mario Soldati - artista a tutto tondo in letteratura, cinema e televisione - ho assorbito la voglia di vivere, ma attraverso una lente più rosa, che vede sì anche la tragicità degli accadimenti, ma con serenità, portando gentilmente l’attenzione del lettore sulla importanza di godersi la vita, come si gode un buon vino, finché c’è.
Tra gli autori italiani dei secoli precedenti al ’900 l’intensità di Giacomo Leopardi, come la passionalità di Giosuè Carducci, non mancano mai di commuovermi, e l’acutezza di Alessandro Manzoni suscita in me ammirazione e, a tratti, un sorriso.
Sempre a scuola studiai volentieri la ricchissima storia e la eccezionale letteratura italiana del Basso Medio Evo, con Dante all’epoca dei Comuni e Petrarca e Boccaccio all’epoca delle Signorie e dei Principati.
Sebbene fossero letterati e poeti assai dotti, ebbero una sensibilità tanto moderna, da scrivere in italiano volgare, piuttosto che in latino, affinché tutti avessero accesso alla massima bellezza espressiva, almeno sui temi di interesse universale come l’Amore, la Bellezza, il Coraggio, la Forza, la Bontà, la Morte..., temi trattati con la ricercata semplicità, che all’inizio del ‘300 si fa strada nella poesia a partire dal “canone” indicato da Dante nel Canto XXIV del Purgatorio con la famosa risposta a Bonagiunta Orbicciani “i’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo che ditta dentro vo significando”.
L’attenzione per l’aderenza al sentire individuale e alla realtà quotidiana tipica di Boccaccio, mi ha insegnato che c’è un modo migliore di altri per esercitare lo spirito critico: meglio accompagnarlo all’umiltà, perché solo l’occhio benevolo di un fratello può prendersi gioco della stupidità dei suoi amati simili. Infatti di una cosa mi sono precocemente convinta: solo chi ama ha il diritto di criticare, perché lo fa a fin di bene, come stimolo al miglioramento, mai come detrimento della persona; d’altro canto, solo chi si sente amato accetta volentieri la critica, perché essa arriva accompagnata dal calore dell’affetto di un fratello altrettanto imperfetto.
Ora, con un gran balzo indietro nel tempo, arrivo certo al IX-VIII secolo a.C. per ricordare le opere di Omero come riferimento fondamentale per me e per chiunque in Occidente si sia messo a scrivere qualcosa dopo di lui.
Infatti, persino chi in Occidente dovesse non averne mai letto i sublimi versi non potrebbe comunque considerarsi non influenzato, dato che la letteratura occidentale contiene in sé, consapevolmente o no, tutto lo spirito più arcaico e violento dell’Iliade, così come quello più moderno e sfaccettato dell’Odissea.
Ammetto che dell’Iliade e dell’Odissea studiai da adolescente testo a fronte le poetiche traduzioni classicheggianti di Vincenzo Monti e Ippolito Pindemonte, concentrandomi sulla traduzione solo di specifici brani scelti dal docente a scopo didattico ora per le scelte lessicali, ora per quelle grammaticali, ora per i diversi stilismi. Questo modo di procedere, necessario per imparare un poco di greco antico, porta però l’attenzione su dettagli che smorzano la bellezza degli esametri, di cui si gode maggiormente con una lettura senza pause, lasciandosi condurre fino alla fine di ogni capitolo dal ritmo incalzante dei versi. Ecco perché sono qui a ricordare con gratitudine il bel libro intitolato “Omero, Iliade” di Alessandro Baricco, che molti anni dopo il liceo mi capitò tra le mani un’estate; era attraente per dimensioni e foggia, ma soprattutto per la proposta che offriva al lettore di spezzare il continuum temporale originale, smontando e rimontando una selezione di scene tratte dal poema, tutte rigorosamente senza dèi, con l’intento di ricostruire l’intera storia da prospettive nuove più umane, utilizzando gli stessi “pezzi” originali. Quel tardo pomeriggio rimasi incollata a leggere ad alta voce, anche mentre cenavo, e piansi senza vergogna sul pianto di Ulisse, mentre ascoltava l’aedo Demodoco cantare l’ultimo giorno della città di Troia, per intrattenere a cena il re dei Feaci. Che quantità di emozioni mi fece vivere in sole tre ore l’ibrido letterario di Baricco!
Tra gli autori stranieri del ‘900 ho subìto presto il fascino della poesia intellettuale di Jorge Luis Borges - in secondo liceo ricopiai a mano la raccolta “La cifra” - e ancora lo subisco.
In adolescenza leggevo i poeti francesi che trovavo tra gli scaffali delle numerose librerie di casa. L’immagine degli innamorati avvinghiati che “non ci sono per nessuno” della poesia forse più famosa di Jaques Prevert (I ragazzi che si amano) sono stati nel mio immaginario ben presenti oltre il tempo della adolescenza, sempre lì a guidarmi nelle scelte verso la libertà dei sentimenti.
Anche Paul Valery è molto nelle mie corde, perché sento l’effetto benefico del suo approccio empatico verso ogni uomo, del suo caparbio ottimismo e dell’urgenza di vivere, senza temere l’imprevisto, con il cuore sereno di chi si impegna a fare il suo meglio, per il gusto di tentare di dare il massimo, senza aspettarsi per questo un premio. Tutto espresso con efficacia nell’ultima strofa di “Le Cimetière marin” dai versi “Le vent se lève! ...Il faut tenter de vivre”; versi ricordati dalla fantasia felice del regista buddista Hayao Miyazaki, nel suo anime “Si alza il vento”, in cui il personaggio principale della storia, Jirô, con rara dedizione e purezza d’animo, rimane aderente alla sua etica del lavoro e dell’amore e al progetto di vita, a lui chiaro fin da bambino. Questa coerenza è possibile se rimaniamo capaci di assorbire il Bene sparpagliato nel mondo in ugual dose assieme al Male. Il Bene è l’amore, l’amicizia, la gioia di un lavoro ben fatto, la curiosità verso ogni dettaglio intorno a noi - la curva perfetta della lisca di pesce per Jirô – per diventare ogni giorno un po’ migliori, più abili ad attraversare le avversità, perché la vita è fatta di momenti da non perdere.
A quest’ultimo riguardo devo ricordare l’influenza su di me della poetica di William Butler Yeats, con le sue descrizioni delle situazioni umane catturate nel loro tempo cairologico, che è l’unico tempo che riesco a riconoscere, quel tempo speciale, sospeso, determinante, in cui accade qualcosa che cambia la nostra storia personale, perché è in quel tempo che si realizza l’incontro tra l’azione che vogliamo e quella che diviene concreta tra le infinite possibilità.
Tra gli autori stranieri precedenti al ‘900 sento molto vicine Emily Dickinson, con quel suo modo di scrivere conciso, introspettivo e musicale, e Katherine Masfield, la quale pure ha messo su carta il bisogno esistenziale di una condotta che abbia come faro la bellezza del vivere.
A quest’ultimo proposito devo ricordare la mia passione per la riduzione del linguaggio ai minimi termini che la scrittrice contemporanea giapponese Banana Yoshimoto ha mantenuto come cifra costante del suo stile. Tra i venti e i trent’anni stavo al passo con le uscite dei suoi libri brevi, nei quali personaggi atipici si muovevano in situazioni scomode e comuni allo stesso tempo. I dialoghi ridotti a poche frasi di sopravvivenza in quei piccoli libri facevano risaltare le azioni pure di sopravvivenza come respirare, abbracciarsi, cucinare, fare l’amore. I libri di Banana erano una pomata lenitiva per le ustioni di un’anima che iniziava a forgiarsi nei primi fuochi della vita, perciò non solo li leggevo, ma li regalavo.
La poetica tormentata, romantico-gotica delle sorelle Brontë è stata parte della mia educazione scolastica e mi ha reso orgogliosa di queste tre sorelle, che si sono fatte spazio come letterate, in un tempo molto ostile a tollerare donne che non si limitassero al ruolo di mogli e madri. “Life is a struggle, may we all be enabled to fight it well!” scriveva, infatti, Charlotte, la più travagliata delle tre.
Andando a ritroso nel tempo fino al ‘700, sento di aver ricevuto molto dalle composizioni scritte e pittoriche del giapponese Kobayashi Issa, il quale con delicatezza declina, con innumerevoli variazioni, i temi buddisti di impermanenza e non attaccamento, come unica via per eliminare la sofferenza, ammettendo a sé stesso nel famoso hayku “Un mondo di rugiada”, scritto dopo la morte di una figlia, che conoscere la strada per il non attaccamento non ci pone al riparo dal sordo dolore di una tale perdita.
In Cina, esattamente mille anni prima, anche Li Bai delineava delicati ritratti della Natura come una grande metafora di libertà, intesa come diritto-dovere di conoscere e rispettare la propria dimensione all’interno del Tutto e di ricercare la propria strada nel gran cielo azzurro della Vita, così vasto da confonderci spesso, “perché bisogna pur godere, è Primavera!”.

Domanda -Ci sono altre discipline artistiche, o artisti, che hanno in qualche modo influenzato la sua scrittura?
Risposta - Sì, negli anni molte esperienze e conoscenze si sono affastellate in me senza particolare sistematicità, ma con una certa regolarità.
Tra i 6 e i 13 anni ho avuto una formazione musicale a casa e a scuola. Nei tre anni delle scuole medie col prof. G. Ragusa, tenore del Teatro dell’Opera di Roma, ogni mese si studiava vita e opere di un musicista, si faceva solfeggio cantato in classe, con me al piano contro la mia volontà (ora sorrido di me, ma allora avrei voluto sprofondare) e si imparava a cantare i brani più salienti dell’opera che il Prof. sceglieva di andare a vedere nel mese, non in un solitario matinèè, ma all’affollato debutto nello splendido teatro di Piazza Beniamino Gigli.
Trovavo eccitante il ritmo serrato e le pause sapienti che risuonavano più delle note in “Guerra, guerra! Le galliche selve...” Atto II – Coro della Norma di Vincenzo Bellini.
Ricordo la sensazione di benessere quando in classe cantavamo, con lo spartito davanti e sotto la direzione del maestro Ragusa il brano del coro “Va pensiero” della Parte Terza del Nabucco. Registrata in me più intensamente ancora è l’emozione delle prove in classe per imparare il coro “Tace il vento, è quieta l’onda....” dell’Atto II , Scena I de “I due Foscari” di Giuseppe Verdi.
Ma anche la canzone di “Fra Diavolo” di Auber, testo a tinte fosche e musica anche qui piena di pause espressive, come mi piaceva, almeno quanto l’ironica leggera aria per mezzosoprano “Voi che sapete...”, posta all’inizio del Secondo Atto de “Le nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart.
A casa suonavo un piano verticale, impiallacciato di mogano, che era già negli anni Settanta un pezzo d’antiquariato tedesco, sempre in manutenzione, ma aveva un bel suono caldo e delle linee morbide e la sontuosità di quattro candelabri mobili di rame, che mi suggestionavano da farmi fingere di essere Beth di “Piccole donne”. Mi ricordo con piacere la percezione di coerenza e libertà nelle sonate per pianoforte di Haydn, tutte con stili differenti nell’articolazione del fraseggio, con il puntato, le legature, i trilli, ma coerenti per l’orecchiabilità del ritmo.
Quando tornavo dalle vacanze, correvo a suonare appena entrata, così com’ero, per salutarlo, il mio amico e confidente migliore.
Mi permettevano raramente di uscire di casa, perciò avevo poche amiche al di fuori delle compagne di classe.
C’era Silvia S. esuberante, fisicamente forte e d’umore allegro, ottima lettrice già a dodici anni, leggeva “Il Clandestino” di Mario Tobino e “La Storia” di Elsa Morante. Con lei ho condiviso il piacere di leggere, l’empatia e l’affetto incondizionato verso gli animali. Ricordo come mi dispiacque la sua partenza da Roma, per via del lavoro del padre, che doveva allevare cavalli ad Amatrice.
Ricordo un episodio di quando mi permisero di andarla a trovare nella nuova casa in campagna; quel giorno imparai per sempre che la realtà in cui siamo immersi ha vita autonoma da noi e non possiamo mai avere la certezza di nulla: eravamo ferme in un prato a chiacchierare sedute in tranquillità su due cavalli, mi ritrovai in un attimo al galoppo attaccata alla criniera del mio, perché un cane, intrufolatosi tra le zampe dello splendido quadrupede, lo aveva spaventato.
L’altra amica di nome Gioia T. suonava violino e piano e frequentava la classe inferiore alla mia. Ci conoscemmo in una settimana bianca organizzata dalla scuola. Gioia era affasciante per la sua ecletticità: parlava correntemente inglese con ogni sfumatura di accento per via delle sue nannies e praticava tutti gli sport. Fu lei che un pomeriggio a casa sua, dopo avermi fatto ascoltare per la prima volta il Requiem di Mozart, mi propose con disinvoltura di cantare “Love of the common people” di Paul Young e in quel momento compresi bene che chi studia l’armonia e la bellezza, riesce ad esercitare meglio anche la libertà di giudizio e può costruire il suo gusto personale senza complessi.
Di questo mio studio precoce di musica, presto abbandonato, mi è rimasto solamente un senso di piacere diffuso e il gusto di un ascolto attivo, senza pregiudizi, che applico in generale, non solo alla musica.
In quegli stessi anni di fine infanzia e inizio adolescenza, fino a 12 anni, durante i tre mesi estivi di vacanza che trascorrevo con mia nonna paterna e a volte anche con quella materna nella casa nel bosco di castagni sotto Montecompatri, in quegli anni esercitai un altro tipo di ascolto, quello dei suoni della Natura. La noia durò poco, l’osservazione degli insetti, delle piante era qualcosa di così interessante che l’ora di pranzo e l’ora di cena arrivavano sempre troppo presto.
Il mio amore per i nomi delle piante e per l’utilizzo di esse si radicò in me in questi anni.
Crescendo, scalpitavo per una maggiore libertà di movimento, allora per distrarmi le nonne mi portavano con sé a cercare piante alimurgiche ed io imparai che spesso camminiamo su ottimo cibo.
A volte prendevo la bicicletta per girare da sola per le strade bianche che delimitavano i vigneti intorno ai castagneti e respiravo forte l’aria profumata d’uva matura, pedalando in salita.
Poi per un incidente mi ustionai tutta la parte anteriore del corpo e al centro ustionati del Sant’Eugenio prescrissero estati senza solleone, né mare, perciò a 13 anni iniziai a partire per Scozia, Irlanda, dintorni di Londra, il Grande parco americano di Yosemite. E così un episodio doloroso si trasformò in una grande occasione di conoscenza di me stessa attraverso la lente di luoghi e persone nuovi.
Arrivata a sedici anni ci fu il cambio di casa in un altro quartiere. Il nuovo liceo classico era nella splendida cornice dell’EUR. La bicicletta era un buon mezzo per esplorare i dintorni, ma iniziai ad essere attratta dai vicoli di Roma antica e allora il sabato e la domenica mi preparavo lo zaino per star fuori l’intera giornata con la sola compagnia del libro di papà “Le statue di Roma. Soria, aneddoti, curiosità” di Giuliano Malizia e della Guida di Roma del Touring Club Italiano rilegata in tessuto rosso e lettere dorate. Certe volte fingevo di essere straniera, parlando inglese e ricordo come apprezzavo le chiese quando il caldo di mezzogiorno mi mordeva la pelle. L’amore per l’arte, per le soluzioni architettoniche ed urbanistiche antiche e moderne mi nacque dentro in quei giorni d’estate e mi è rimasto addosso.
A scuola amavo la filosofia, più di tutti sentivo mio il Panteismo di Baruch Spinoza, secondo il quale parlare di mondo naturale è uguale a parlare di Dio, ma non di un Dio Creatore, perché il mondo naturale è Sostanza infinita, declinata in infiniti modi e tutto è connesso con tutto, e tutto esiste perciò nello stesso istante, escludendo un concetto di creazione, che implica un prima e un poi. Coerentemente la gnoseologia di Spinoza poggia sul concetto di teoremi coeterni alla definizione matematico-geometrica che implicitamente li contiene, con la straordinaria conseguenza che ciò che è possibile derivare da un principio matematico senza cadere in contraddizione, automaticamente esiste, anche quando la nostra intelligenza non è pronta a coglierlo. Ed ecco il miracolo di un mondo meccanicistico spinoziano che è governato dalla Necessità, senza ombra di tempo cronologico, secondo una causalità che ricalca l’identità matematica, nel senso che una delle tante dimostrazoni derivabili da un Principio è reale quanto il Principio e coesiste con esso, così come una manifestazione qualunque della Sostanza è reale quanto la Sostanza e coesiste con essa, perchè non ne è conseguenza esterna, ma interna. La conoscenza perfetta della Sostanza non può essere perciò mediata dalla logica, che procede secondo un prima e un poi, bensì è immediata e intuitiva.
Seguendo questo filo, mi ritrovai a riflettere sullo Spiritualismo di Henri Bergson, apparentemente distante dal meccanicismo panteistico di Spinoza, eppure molto simile proprio per il suo concetto di èlan vital e di intuizione sintetica.
Dopo la Maturità non presi subito la patente, perché muovermi con i mezzi pubblici mi permetteva di guardarmi intorno, osservare le persone, i fenomeni, lavorare di immaginazione. Gli spostamenti diventavano delle bolle temporali in cui non ero più dove ero e non ero ancora arrivata dove mi attendevano, e senza alcun sentimento di fretta, nè attesa, e senza la preoccupazione di guidare, mi facevo condurre dal mezzo pubblico, rumoroso e affollato, eppure per me silenzioso luogo di pace interiore come solo un non-luogo può essere.
Quando finalmente, attorno ai ventun anni, mi motorizzai anch’io, iniziai a seguire con regolarità la “Mostra annuale dei minerali, pietre preziose, fossili e conchiglie” all’Hotel Ergife a Roma e da qualche anno ho ripreso ad interessarmene.
In quel periodo ho iniziato ad interessarmi dei vinili di mio padre. Tra i tanti mi piacque lo stile delicato ed ibrido tra il folk e lo psichedelico dello scozzese conosciuto come Donovan, del quale ascoltavo soprattutto “Hardy Gurdy Man”.
Tra i venti e i quaranta anni ho letto di tutto - prendendo spunto dal bellissimo “Orfeo. Il tesoro della lirica universale, Ed. Sansoni”, un libro ricevuto in regalo per i diciotto anni, ho ascoltato molti generi diversi e viaggiato in decine di luoghi, tutto sempre in compagnia di mio marito e di nostra figlia.
Certamente in quegli anni ho anche iniziato a lavorare, per fortuna cambiando spesso drasticamente tipo di lavoro, in modo da imparare il più possibile.
A ventotto anni ero iscritta all’albo degli avvocati, perciò iniziai così.
Ora ho cinquantatré anni, carriera sul lavoro fino ad oggi non ne ho fatta e fortunatamente non credo di avere molte chances in tal senso.
Non dico questo come la volpe all’uva, è solo che alla mia età ho vissuto abbastanza per capire che non voglio più distrarmi dall’unica attività che consiglio a tutti di tenere come priorità: annaffiare, potare, sostenere, ammirare l’unicità del nostro fiore interiore.

Domanda - Oltre a quello trattato nel suo libro, quali altri generi letterari predilige?
Risposta - Fino all’adolescenza leggevo ciò che trovavo tra le mura di casa, ed era davvero molto divertente andare a caccia tra le centinaia di libri accumulati senza ordine da papà, il quale più che l’approccio del bibliofilo collezionista aveva verso il libri l’atteggiamento di un amante visceralmente geloso. Sottrargli un libro, anche per me, non era facile!
A tredici anni fui investita da una macchina e per passare il tempo della convalescenza mi fu regalato un libro che si rivelò per me fondamentale, anche se a prima vista mi apparve come un vero “mattone” e per le prime quaranta pagine continuò ad apparirmi tale. Era “Il nome della Rosa” di Umberto Eco, un genere letterario ibrido tra il romanzo storico e il giallo. Alla narrativa storica mi affezionai più tardi, ai gialli invece subito dopo questa lettura.
Fu così la volta delle storie di Miss Marple e Poirot di Agatha Christie, dei piccoli, innocenti, bugiardi, grigi criminali borghesi di Simenon.
Per una decina d’anni andai al teatro con regolarità, per via di un abbonamento all’Eliseo non mio, ma del quale potevo spesso fruire. Ciò mi affezionò al teatro di via Nazionale e mi spinse a conoscere gli altri teatri di Roma; feci persino qualche trasferta al Piccolo, alla Scala e al Carcano di Milano. Ero una diligente secchiona, per quello che mi pareva, perciò prima di andare a vedere una rappresentazione, prendevo appunti dall’Enciclopedia del Teatro e del Cinema che avevo a casa e così, mi interessai al genere teatrale (Shakespeare, Molière, Goldoni, De Filippo, Pirandello, Brecht).
Quando ebbi una casa mia e un’autonomia economica, iniziai a comprare libri da me e fino a venti anni fa, se non leggevo poesia, leggevo prosa, soprattutto i classici della letteratura mondiale, senza ordine e sempre scegliendo di avere sul comodino generi molto diversi, che potessero accordarsi alle emozioni del momento.
I romanzi che preferivo erano di narrativa storica o realista, come la gran parte della letteratura dell’Ottocento. Manzoni, Nievo, De Roberto, Tolstoj, Dostoevskij, Dickens, Stendhal, Balzac, Maupassant mi permettevano di capire un tempo passato di recente, che era padre del mio presente.
La nascita di mia figlia ha aperto la finestra sul genere che mi fa sentire meglio, quello fantastico e d’avventura di Carroll, Swift, Kipling, Verne, Lewis, Sepulveda, Stevenson, Salgari, Dahl, Lindgren, Oster, Ende, Gaarder, De Mari. Fino a che non è stata in grado di leggere da sola, non c’ stato un giorno in cui non abbiamo letto noi genitori ad alta voce per lei, recitavamo tutti i personaggi ad un ritmo di tre libri alla settimana.
Sempre all’incirca venti anni fa mi sono avvicinata al genere dei saggi e delle pubblicazioni scientifiche divulgative di fisica, chimica, biologia, psicologia, filosofia, arte.
In questo momento mi trovo in viaggio e devo elencare a memoria alcuni libri degli autori che hanno contribuito a costruirmi così come sono diventata oggi.
Molti autori e libri verranno in futuro a migliorarmi e cambierò un altro po’, però è bello cogliere ora l’occasione per rendere grazie ai testi che riesco a richiamare alla memoria: “Le parole sono finestre”, “Comunicazione non violenta” di Marshall Rosenberg, “La psicologia dell’intelligenza” di Jean Piaget, “Il bambino filosofo” di Alison Gopnik, “L’acquisizione del linguaggio” di Kathy Hirsh-Pasek e Roberta Michnick Golinkoff, “Simboli e allegorie” di Matilde Battistini, “Disegnum. Prospettiva, simmetria, curve” di a.a.vari edito Sironi, “La sezione aurea” di Mario Livio, “Il libro illeggibile”, “Cerchio, quadrato e triangolo” di Bruno Munari, il blog “didatticarte.it” di Emanuela Pulvirenti, “Noi siamo il nostro cervello” di Dick Swaab, “Fisica quantistica per poeti” di Leon M. Lederman e Christopher T. Hill, “La fisica dei supereroi” di James Kakalios, “La fisica di Star Trek” di Lawerence Krauss e Stephen Hawking, “L’Universo elegante” di Brian Greene, “La fisica della vita” di Jim Al-Khalili e Johnjoe McFadden, “Il disegno della vita” di Craig Venter, “Il Tao della fisica” di Fritjof Capra, “Discorso sulle erbe” di Stefano Mancuso e Fritjof Capra, “Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà” di Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello, “Cambiare idee”, “Intelligenze multiple e apprendimento” di Howard Gardner, “Tradimenti” di Gabriella Turnaturi, “Cosa vuol dire morire” di Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Vito Mancuso, Giovanni Reale, Aldo Schiavone e Emanuele Severino, “Piramidi di tempo”, “Geometria delle passioni”, “La vita delle cose”, “Paesaggi sublimi” di Remo Bodei, “Modernità liquida”, “Homo consumens”, “Capitalismo parassitario” di Zigmunt Bauman, “Economia all’idrogeno” di Jeremy Rifkin “Fitoterapia”, “La rivoluzione del filo di paglia”, “L’agricoltura del non fare” di Masanobu Fukuoka, “Piante e aromi” di Jean Valnet, “La mia bibbia degli oli essenziali” di Daniéle Fèsty, “Chimica, biochimica e metachimica degli oli essenziali” di Luca Fortuna, “Botanica farmaceutica” di Marcello Nicoletti, “Fondamenti scientifici di meristemoterapia” di Fernando Piterà di Clima e Marcello Nicoletti.

Domanda - Preferisce il libro tradizionale cartaceo o quello digitale?
Risposta - Preferisco il cartaceo, per motivi anagrafici e somatosensoriali; però quando uscirono i lettori digitali a casa ne comprammo subito due per noi tre, perché una valigia di libri in meno in vacanza è sempre un bel risparmio di spazio e fatica muscolare.
Nei lunghi viaggi in macchina, quando nostra figlia era piccola, ci piaceva ascoltare la lettura ad alta voce di romanzi di avventura. Adesso per riposare gli occhi mi ascolto quando sono sola dei racconti brevi, come ad esempio quelli di Raymond Carver, trai quali non mi stanca mai “La cattedrale”, specialmente se a leggerla è Fausto Paravidino.

Domanda - Per terminare, qual è stato il suo rapporto con la scrittura, durante la composizione del libro.
Risposta - Non mi rapporto sempre allo stesso modo con la scrittura.
Risposta - Ci sono dei giorni in cui mente, cuore e mano (scrivo a penna) sono un tutt’uno col messaggio che sento dentro e allora i versi fluiscono a blocchi con facilità, e a me non resta che montare insieme i pezzi.
Vi sono altri giorni in cui, invece, scrivo per atto di volontà, mi guardo intorno, appunto un bel po’ di nomi, verbi, avverbi, che sbucano dalla realtà contingente, parole che mi sembrano importanti o semplicemente belle, anche solo per il suono che producono. Più tardi la rilettura di quegli elenchi di parole diventa una scoperta affascinante, perché i collegamenti tra loro diventano evidenti.

Domanda - Un motivo per cui lei comprerebbe “ANIMA”, se non lo avesse scritto. Per il titolo e anche per la copertina, che non ho scelto io, ma trovo perfetta.
Risposta - Ha in progetto altre opere da scrivere nel prossimo futuro? In caso affermativo, può darcene una anticipazione? Sì, sto scrivendo poesie più sognanti, da dedicare a noi tutti, che siamo minuscole necessarie tessere nel mosaico colorato della vita. Le prossime poesie punteranno lo sguardo sul mondo, sulla Natura, per giungere all’introspezione con occhi bambini, passando per ciò che si trova fuori di noi. Ho anche pensato al titolo “La corolla del soffione” per alludere alla leggenda irlandese secondo la quale la corolla del soffione è la casa delle fate.

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