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Info sull'Opera
Autore:
Francesco Petrarca
Tipo:
Poesia
 
Notizie Presenti:
 -

CCLXIV

di Francesco Petrarca

I’ vo pensando, e nel penser m’assale
una pietà sí forte di me stesso
che mi conduce spesso
ad altro lagrimar ch’i’ non soleva;
ché, vedendo ogni giorno il fin più presso,
mille fiate ho chieste a Dio quell’ale
co le quai del mortale
carcer nostro intelletto al ciel si leva;
ma in fin a qui niente mi releva
prego, o sospiro, o lagrimar ch’io faccia;
e cosí per ragion conven che sia,
ché chi possendo star, cadde tra via,
degno è che mal suo grado a terra giaccia.
Quelle pietose braccia,
in ch’io mi fido, veggio aperte ancóra;
ma temenza m’accora
per gli altrui essempli, e del mio stato tremo;
ch’altri mi sprona, e son forse a l’estremo
L’un pensèr parla co la mente, e dice:
"Che pur agogni? Onde soccorso attendi?
Misera, non intendi
con quanto tuo disnore il tempo passa?
Prendi partito accortamente, prendi;
e del cor tuo divelli ogni radice
del piacer, che felice
no ’l po’ mai fare, e respirar no ’l lassa.
Se già è gran tempo fastidita e lassa
se’ di quel falso dolce fugitivo
che ’l mondo traditor può dare altrui,
a che ripon più la speranza in lui,
che d’ogni pace e di fermezza è privo?
Mentre che ’l corpo è vivo,
hai tu ’l freno in bailía de’ pensèr tuoi.
Deh, stringilo or che pòi,
ché dubbioso è ’l tardar, come tu sai,
e ’l cominciar non fia per tempo omai.
Già sai tu ben quanta dolcezza porse
a gli occhi tuoi la vista di colei
la qual anco vorrei
ch’a nascer fosse per più nostra pace.
Ben ti ricordi, e ricordar ten dèi,
de l’imagine sua, quand’ella corse
al cor, là dove forse
non potea fiamma intrar per altrui face:
ella l’accense; e se l’ardor fallace
durò molt’anni in aspettando un giorno,
che per nostra salute unqua non vène,
or ti solleva a più beata spene,
mirando ’l ciel, che ti solve intorno
immortal et addorno:
ché dove, del mal suo qua giù sí lieta,
vostra vaghezza acqueta
un mover d’occhi, un ragionar, un canto,
quanto fia quel piacer, se questo è tanto?"
Da l’altra parte un pensier dolce et agro,
con faticosa, e dilettevol salma
sedendosi entro l’alma,
preme ’l cor di desío, di speme il pasce;
che sol per fama gloriosa et alma
non sente quand’io agghiaccio, o quand’io flagro,
s’i’ son sí pallido o magro;
e s’io l’occido, più forte rinasce.
Questo d’allor ch’i’ m’addormiva in fasce
venuto è di dí in dí crescendo meco;
e temo ch’un sepolcro ambeduo chiuda.
Poi che fia l’alma da le membra ignuda,
non po’ questo desio più venir seco.
Ma se ’l latino e ’l greco
parlan di me dopo la morte, è un vento;
ond’io, perché pavento
adunar sempre quel ch’un’ora sgombre,
vorre’ ’l ver abbracciar, lassando l’ombre.
Ma quell’altro voler, di ch’i’ son pieno,
quanti press’a lui nascon par ch’adugge;
e parte il tempo fugge,
che scrivendo d’altrui, di me non calme;
e ’l lume de’ begli occhi che mi strugge
soavemente al suo caldo sereno,
mi ritien come un freno
contra cui nullo ingegno o forza valme.
Che giova dunque perché tutta spalme
la mia barchetta, poi che ’n fra li scogli
è ritenuta ancor da ta’ duo nodi?
Tu che da gli altri, che ’n diversi modi legano ’l
mondo, in tutto mi disciogli,
Signor mio, ché non togli
omai dal vólto mio questa vergogna?
Ché ’n guisa d’uom che sogna,
aver la morte inanzi gli occhi parme;
e vorrei far difesa, e non ho l’arme.
Quel ch’i’ fo, veggio, e non m’inganna il vero
mal conosciuto, anzi mi sforza Amore,
che la strada d’onore
mai no ’l lassa languir chi troppo il crede;
e sento ad ora ad or venirmi al core
un leggiadro disdegno, aspro e severo,
ch’ogni occulto pensero
tira in mezzo la fronte, ov’altri ’l vede;
ché mortal cosa amar con tanta fede,
quanta a Dio sol per debito convensi,
più si disdice a chi più pregio brama.
E questo ad alta voce anco richiama
la ragione sviata dietro a i sensi:
ma perch’ell’oda, e pensi
tornare, il mal costume oltre la spigne,
et a gli occhi depigne
quella che sol per farmi morir nacque,
perch’a me troppo, et a se stessa piacque.
Né so che spazio mi si désse il cielo
quando novellamente io venni in terra
a soffrir l’aspra guerra
che ’n contr’a me medesmo seppi ordire,
né posso il giorno che la vita serra
antiveder per lo corporeo velo;
ma varïarsi il pelo
veggio, e dentro cangiarsi ogni desire.
Or ch’i’ mi credo al tempo del partire
esser vicino, o non molto da lunge,
come chi ’l perder face accorto e saggio,
vo ripensando ov’io lassai ’l viaggio
da la man destra, ch’a buon porto aggiunge;
e da l’un lato punge
vergogna e duol, che ’n dietro mi rivolve;
dall’altro non m’assolve
un piacer per usanza in me sí forte
ch’a patteggiar n’ardisce co la morte.
Canzon, qui sono; ed ho ’l cor via più freddo
de la paura che gelata neve,
sentendomi perir senz’alcun dubbio;
ché pur deliberando ho volto al subbio
gran parte omai de la mia tela breve;
né mai peso fu greve
quanto quel ch’i’ sostengo in tale stato;
ché co la morte a lato
cerco del viver mio novo consiglio,
e veggio ’l meglio et al peggior m’appiglio.

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