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Info sull'Opera
Autore:
Antonio Fogazzaro
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

MALOMBRA (II Parte ) Il ventaglio rosso e nero - 1

di Antonio Fogazzaro

1. Notizie di Nassau

Il 6 settembre grande aspettazione al Palazzo. I radi, timidi fili d'erba che bucavano la ghiaia bianca e rosea del cortile, eran tutti scomparsi. Una pompa nuova di vasi schierati vi ostentava fiori e fogliami signorili; parevano dignitari e dame in attesa di un corteo reale. Il popolo delle passiflore, dei gelsomini, delle altre piante arrampicate a' muri, guardava, dall'alto, con mille occhi.
Per ora il solo Steinegge, tutto azzimato, passeggiava gravemente tra questa curiosità rispettosa, fermandosi a guardar su per la scalinata se comparisse qualcheduno a parlare, attraverso le inferriate della cucina sepolta per metà nel suolo, con il «signor Paolo» che si vedeva passare e ripassare da un fornello all'altro dietro le sbarre come un orso bianco.
Guardò l'orologio. Erano le una e mezzo. Il conte aveva detto che sarebbe stato di ritorno dalla stazione, con i Salvador, presso a poco a quell'ora. Steinegge s'incamminò facendo un viso ossequioso su per la scalinata.
Ecco gente lassù. Ecco il gran cappello del conte che copre quasi anche il suo domestico. E la contessa Fosca? E il conte Nepo?
Nessuno era disceso dal treno di Milano. Il conte Cesare, arrabbiatissimo colla cugina, col cugino, con tutti i cugini screanzati dell'universo, trovò modo di tempestare col cuoco, fece disfare i letti apparecchiati, andò in bestia con Steinegge perché gli era venuto incontro e con Marina perché non era venuta. Durante le sue diatribe Saetta brillava al sole da lontano e non s'affrettava punto. Gli giovò di sfogarsi a questo modo. Mezz'ora dopo rianimò con una parola gentile lo sbalordito Steinegge e disdisse gli ordini dati ab irato a Giovanna. Con Marina le cose procedettero diversamente. Cinque giorni eran passati dopo la partenza improvvisa di Silla; il conte e sua nipote non avevano ancora scambiato parola. Egli era stato in procinto di partire per Milano; poi, mutato pensiero, forse per il prossimo arrivo dei Salvador, aveva scritto a Silla. Di questo arrivo s'era occupato moltissimo. Aveva persino fatto il miracolo di andare alla stazione. La Giovanna pensò che quei signori di Venezia dovevano essere qualche cosa più del re; e gli altri domestici dissero al giardiniere che poteva far a meno d'annaffiare, perché sarebbe infallibilmente piovuto prima di sera.
Marina, nei primi quattro giorni dopo la partenza di Silla non si lasciò vedere, neppure a pranzo. Fanny disse al conte che la sua marchesina aveva l'emicrania; agli altri disse che era una luna tremenda, che non ci capiva niente e che a momenti anche lei non ne poteva più.
Quel giorno Marina uscì con Saetta e comparve poi a pranzo mentre il conte e Steinegge parlavano dell'opera di Gneist sul Self-government, di cui Steinegge stava facendo un sunto. Il conte seguitò a discorrere senza volger il capo né gli occhi, come se il suo interlocutore non si fosse alzato in piedi e non avesse fatto un profondo inchino verso la porta. Solo quando, finito il pranzo, si alzò, egli le disse con insolita freddezza e tranquillità:
«Favorite di passare da me fra un'ora.»
Marina lo guardò come sorpresa; poi disse con un leggero scatto d'ironia sulla prima sillaba:
«Favorirò.»
Aspettò quasi un'ora e mezzo; poi mandò Fanny a vedere se il conte fosse in biblioteca. La risposta fu che ve l'aspettava da mezz'ora.
Ella entrò nella biblioteca a passo lento, con l'aria di chi pensa al mondo della luna, fece un largo giro verso la porta che mette nel giardino e venne a lasciarsi cadere sopra una sedia a bracciuoli, di fronte al nemico.
«Vi avverto prima di tutto» cominciò il conte «che coloro i quali mi fanno l'onore di abitare in casa mia, mi debbono di essere civili. Non è una pigione troppo forte e da oggi in poi me la pagherete, perché io ho la debolezza di esigere, presto o tardi, i miei crediti. Se non conoscete le monete potrò darvi qualche piccola lezione.»
Gli occhi di Marina scintillarono, le sue labbra si apersero.
«Non rispondete» tuonò il conte.
Ella balzò in piedi. Voleva ribellarsi, parlare, e non poteva. Forse troppe parole le facevan ressa alla gola; forse nel momento di prorompere temé tradire il segreto di cui sentiva confusamente che doveva riserbarsi per un giorno premeditato, per un'ora invariabile, prefissa dalla sua volontà e dal destino.
«Non rispondete» ripeté il conte. «Voi odiate me e la mia casa, ma non vi tornerebbe comodo, io credo, essere pregata di partire subito. Non rispondete.»
Marina ricadde a sedere in silenzio.
«Non potete supporre che io ignori l'oltraggio fatto da voi al mio amico Silla, il quale è andato via per causa vostra, e non potete supporre che, conoscendolo, io vi sia rimasto indifferente. Non so se la parola umana possa esprimere tutto quello che il vostro atto m'ispira. Bene, io non ricercherò i motivi molto oscuri della condotta che voi tenete. Certo non conviene né a voi né a me di convivere a lungo. V'è una frase enormemente stupida: i legami del sangue. Io non credo che il vostro sangue abbia due globuli simili ai miei. Ad ogni modo, non è indispensabile appiccarsi con questi legami. Meglio tagliarli. Oggi non vi siete curata di trovarvi a casa quando dovevano arrivare i miei cugini Salvador. Vi avverto che mio cugino ha un gran nome, una bella sostanza e pensa a prender moglie.»
«Ah!» disse Marina e sorrise guardandosi la piccola mano bianca che tormentava il braccio della poltrona.
«Non fate esclamazioni drammatiche. Non andate a pensare che vi si vogliano far violenze. Io non so se il colore dei vostri occhi piacerà a mio cugino e non posso neanche sapere se la sua voce vi toccherà il cuore. È utile, io credo, nel vostro caso conoscere le disposizioni di mio cugino. Potete approfittarne o no, come vi piacerà meglio.»
«Grazie. E se il signor cugino non mi va, quando debbo partire?»
Marina aveva parlato pian piano, guardandosi gli anelli, a mano spiegata, l'uno dopo l'altro; poi serrò il pugno, se l'accostò al viso, quasi per numerarvi le vene azzurrognole; lo lasciò finalmente cadere e alzò sul conte due grandi occhi ingenui.
«Ma» disse il conte «quando debbo! Mi pare siate in fatto voi, col vostro contegno, che mostrate desiderio di andar via. Sarebbe forse più leale e più sincero dire: Quando posso?».
«No, lo posso sempre. Sono maggiorenne e possiedo abbastanza per mantenere me e una vecchia dama di compagnia che mi lasci sola. Quando debbo? Io non desidero andar via.»
Il conte la guardò attonito. Quei grand'occhi limpidi non dicevano nulla, proprio nulla. Aspettavano una risposta.
«Non desiderate andar via? Desiderate dunque che me ne vada io? Eh? Quello vi farebbe comodo? Ma per Dio santo, parlate chiaro. Se non desiderate andar via, che diavolo desiderate? Perché vi comportate con me come se io fossi un carceriere? Che vi ho fatto io?»
«Lei? Niente.»
«Chi dunque? Steinegge? Che vi ha fatto Steinegge?»
«Paura.»
«Come, paura?»
«È tanto brutto!»
Il conte si rizzò sul suo seggiolone e, impugnandone con violenza i bracciuoli, porse verso sua nipote la fronte corrugata e gli occhi fiammeggianti.
«Oh» diss'egli «se credete farvi gioco di me, la sbagliate: se avete voglia di scherzare, scegliete male il vostro momento. Quando ho la compiacenza di domandarvi cosa vi offende in casa mia, non bisogna mica rispondermi come una cingallegra parigina; bisogna parlare sul serio!»
«A che serve se Ella ha risoluto che io parta?»
«Chi ha detto questo? Io ho detto che non siamo fatti per vivere assieme e vi ho indicato una possibile occasione di mutar soggiorno e compagnia. E prima di tutto ho dichiarato che dovrete in avvenire essere civile con me e con i miei ospiti onde non costringermi a un pronto provvedimento.»
Marina non aveva ancora risposto, quando entrò la Giovanna, tutta commossa.
«Signor padrone, quei signori sono qui!»
«Diavolo» esclamò il conte alzandosi, e uscì in fretta.
Marina andò a gittarsi sul seggiolone rimasto vuoto, vi si dondolò con le braccia incrociate, il capo appoggiato alla spalliera, le gambe accavalciate e la punta brillante d'uno stivalettino nero slanciata in aria come una sfida.
Si udivano parecchie voci al piano terreno, o meglio una voce sola, a getto continuo, sonora, colorita, con accompagnamento di altre voci note e ignote, di risa brevi, rispettose.
«Oh che viaggio» diceva quella voce «oh che paesi, oh che gente! Hai la mia borsa, Momolo? Vi racconterò, creature. Chi sei tu, bellezza? La sua cameriera? Brava, cara. E dov'è questo benedetto Cesare? Sta sulle tegole a quest'ora? Dimmi, tesoro, cos'hai nome? Fanny? Senti, Fanny, quel palo bianco là è un frate o un cuoco? Ma che ci prepari un brodo, benedetto da Dio. Nepo, sei languido, fio? Oh Dio, Cesare, che vecchio, che brutto!»
Con quest'ultime parole gridate nelle palme delle mani di cui s'era coperta il viso, la contessa Fosca Salvador salutò il conte Cesare che le veniva incontro frettoloso con una faccia che voleva e non poteva essere allegra. Peggio fu quando la contessa volle fargli un bacio e lo affogò in un diluvio di chiacchiere. Egli ne perdette quasi la testa. Continuava a rispondere sì sì sì col suo vocione più grosso, stringeva la mano a Nepo e stava per fare lo stesso col vecchio domestico della contessa, malgrado i suoi grandi inchini e il suo ripetere: «Eccellenza, Eccellenza».
«Ciò» gridò la contessa «sta a vedere che mi bacia Momolo. C'è di meglio se volete baciare: ma voi già siete un orso.»
Il conte Cesare stava sulle brage. Avrebbe volentieri mandato al diavolo tutta la compagnia. I discorsi della contessa gli mettevano rabbia. Momolo e le due donne che stavano silenziosi dietro Sua Eccellenza ebbero pure da lui uno sguardo poco benevolo. Se avesse poi veduto nel cortile, tra le macchie di fiori, la nuova macchia nera di bauli, casse e borse accatastate!
«È una invasione, caro conte, una invasione» ripeteva Nepo girando per il vestibolo quasi a tentoni perché ci si vedeva poco, e frugandone ogni angolo col naso per trovar posto al suo bastone, al soprabito, al cappello.
«L'ho proprio detto alla mamma ch'era un abusare...»
«Sì, me l'ha detto e io gli ho risposto: Abusiamo, benedetto. Cosa sarà? Mio cugino non ha egli un cuor di Cesare? Oh se avessi mai saputo che bisognava fare questo dio di strada, vi dico in fede, non avrei abusato. Caro il mio caro pampano, non dite niente che si doveva venir stamattina? Non sapete?»
«Sì, sì, mi racconterete quello» disse il conte che non ne poteva più. «Intanto venite di sopra.»
«Vengo, anima mia, se posso. Vi raccomando il mio Momolo e la mia Catte. Son vecchietti, povere creature, credo che saranno mezzi morti. Tiratemeli su. A proposito, Catte, dov'è quella ragazza? Non ha veduto, signor orso, che cocola le ho condotto?»
Non era dunque una seconda cameriera la giovinetta vestita di nero che stava dietro la vecchia Catte? No, ell'aspettava che la prima tempesta dell'incontro si chetasse. Si fece avanti e disse al conte Cesare parlando in buon italiano, ma con un forte accento straniero:
«La prego, signore, di volermi dire se il signor capitano Andrea Steinegge abita qui.»
«Sicuramente, signorina» rispose il conte, meravigliato. «Il mio buon amico Steinegge sta qui. Egli non usa veramente di farsi chiamare capitano, ma...»
«Era capitano, signore. Capitano austriaco, agli usseri di Liechtenstein.»
«Oh, non ne dubito, signorina. Credo anzi che una volta il signor Steinegge mi ha raccontato quello. E Lei desidera vederlo?»
La voce ferma della giovinetta parve mancare. Si udì appena un bisbiglio.
«Eh?» ripete il conte con accento benevolo.
«Sì, signore.»
«Ora è fuori, ma verrà presto. La prego di salire ad aspettarlo.»
«Grazie, signore. Rientrerà egli da questa parte?»
«Da questa parte.»
«Allora se permette, resto qui.»
Il conte s'inchinò, ordinò di portare un lume per la signorina e si avviò di sopra con gli ospiti. La contessa Fosca gli raccontò che quella ignota signorina era discesa con loro dal treno, e aveva chiesto, com'essi, una vettura per il Palazzo; che vedendola, pover'anima, sola soletta (e alla stazione non c'era mezzo asino da farsi trascinar via) le aveva offerto di venire, se voleva, con loro, posto che in paese si fossero trovate vetture, come infatti a grande stento se ne trovarono. «Chi sia e cosa voglia» aggiunse la contessa «non l'ho inteso. Già ha detto pochissime parole; e, volete che ve la dica? Mio fio sostiene che parlò italiano e io ho sempre creduto che parlasse tedesco. Estenuata poi! Questo sì l'ho capito. Grazie tante: un viaggio di questa sorte!»
Il conte non fiatò. «Che duro, la mia anima» mormorò Sua Eccellenza tra sé. «E Marina! Dov'è questa briccona di Marina? È a cena forse? Perché dico...»
In quella entrò Marina. Ella abbracciò la contessa, strinse la mano al cugino con grazia disinvolta e si lasciò dire dalla prima un mondo di dolcezze, di complimenti, sulla sua bellezza, con dei risolini pazienti, delle strette a quattro mani, dei brevi: «Cara! Che cara!». Sua Eccellenza Nepo parlava intanto con il conte Cesare. Sua Eccellenza era un giovanotto sui trent'anni, bianchissimo di carnagione, con un gran naso aquilino male appoggiato a sottili baffetti neri, con un paio di occhioni neri a fior di testa, il tutto incorniciato da una ricciuta zazzera nera e da un collare di barba nera che pareva posticcia su quella pelle di latte e rose. Aveva le mani assai piccole e bianche. Parlando sorrideva sempre. Il suo passo breve, ondulato, i gomiti quasi sempre stretti alla vita, il parlare stridulo, frettoloso, mettevano intorno a lui un'aura femminile che feriva subito chi lo incontrava la prima volta. A Venezia lo chiamavano il conte Piavola. Non mancava però d'ingegno, né di coltura, né di ambizione. Aveva emigrato nel 1860 ed era venuto in Torino per educarsi alla politica. Colà studiava economia e diritto costituzionale, frequentava le sale dei pochi ministri che tenevano società, le Camere e le tote dei baracconi di piazza Castello. Gli era venuta l'idea di entrare in diplomazia, ma non aveva ancor preso gli esami: si teneva sicuro che, liberato il Veneto, un collegio, dove era grande proprietario, lo avrebbe inviato alla Camera.
Ed ora, mentre la vena inesauribile della contessa Fosca gittava chiacchiere sul capo di Marina, egli, dal canto suo, torturava già il conte Cesare con la propria biografia, con la relazione de' suoi studi, delle sue speranze. Il conte, che sapeva poco dissimulare, stava lì ad ascoltarlo, quasi sdraiato sulla seggiola, col mento sul petto, le mani in tasca e le gambe sgangherate; e alzava il capo a ogni tanto per dargli una occhiata fra l'attonito e l'infastidito.
Quando Dio volle un domestico annunciò che la cena per i signori era pronta. La contessa Fosca volle a forza il braccio di suo cugino. Nepo s'affrettò di offrire il suo a Marina, che l'accettò con un leggero cenno del capo, guardando la contessa e continuando a parlare con lei. S'era fatto un braccio aereo; non toccava quasi quello di Nepo; appena entrata nella sala da pranzo, se ne sciolse.
Intanto la giovinetta vestita di nero aspettava seduta nel vestibolo. Essa non pareva udire le voci né i passi sopra il suo capo, non pareva avvedersi dei servi che andavano e venivano chiamandosi, ridendo, gittandole occhiate curiose, diffidenti. Si era tratta accanto la sua borsa da viaggio e guardava la porta.
S'udì un passo di fuori, sulla ghiaia; Steinegge si affacciò alla porta. Ella levossi in piedi.
Steinegge la guardò un momento, meravigliato, e passò oltre. La giovine signora fece un passo e disse a mezza voce:
«Ich bitte.»
Il povero vecchio tedesco, colto così all'impensata, si sentì dar un tuffo nel sangue da quelle due semplici parole pronunciate con l'accento di Nassau. Non seppe dire altro che «O mein Fräulein» e le porse ambe le mani.
«È Lei» rispose la giovinetta con voce tremante e sempre in tedesco «è Lei il signor capitano Andrea Steinegge di Nassau?»
«Sì, sì.»
«Credo ch'Ell'abbia laggiù una famiglia.»
«Sì, sì.»
«Io ho notizie...»
«Ha notizie? Notizie della mia bambina? Oh, signorina!» Giunse le mani come davanti a un santo. I suoi occhi brillavano, le labbra eran convulse, tutta la persona esprimeva un desiderio solo, angoscioso. Lo aveva ben detto la contessa Fosca che la povera signorina era estenuata. Diventò pallida pallida, e mormorò a Steinegge che, ansando, le aveva cinta la vita con un braccio:
«Niente, un poco d'aria.»
Egli la portò più che non l'accompagnasse fuori, l'adagiò sopra un sedile di ferro, e, divorato da mille angoscie, immaginando dover udire da lei tutte le sciagure possibili, forse la più grande, le prese ambedue le mani, parlò con voce carezzevole, dolce, a quella ignota fanciulla del suo paese, così sola in terra straniera. Ritrovò nella memoria tenere espressioni del tempo andato, sante parole paterne, taciute per anni e anni, colorate ora di soavità religiosa dal rispettoso Lei che le accompagnava. Intese ella, rinfrancandosi, il rispettoso Lei o intese solamente dirsi mein Kind, «fanciulla mia?». Perdette la memoria delle prime parole scambiate o la voce affettuosa le fece credere che tutto il suo segreto fosse stato detto? Gittò le braccia al collo di Steinegge e si sciolse in lacrime.
Pare incredibile; Steinegge a prima giunta non capì. Egli portava sempre viva nel cuore l'immagine di sua figlia quale l'aveva lasciata bambina di otto anni, piccina piccina, con due occhi grandi e dei lunghi capelli biondi. L'atto, le lacrime della giovinetta gli dicevano «è lei», ma egli comprendeva e non comprendeva nel tempo stesso, non poteva così rapidamente immaginare una trasformazione simile. «Oh, papà!» diss'ella fra la tenerezza e il rimprovero. Allora solo il suo cuore e la sua mente s'illuminarono insieme. Con parole rotte, incoerenti, si buttò ginocchioni a' piedi di sua figlia, le afferrò una mano, se la strinse alle labbra. Con la infinita gioia che gli faceva veramente male a tutto il petto, alla gola, sentiva pure una gratitudine umile senza confine.
«Edith, cara, cara Edith, bambina mia» diss'egli con voce soffocata. «Ma è Lei proprio Edith? Ma come puoi esser tu?»
È carità pel povero Steinegge non ripetere le parole assurde che gli uscirono di bocca in quei momenti deliziosi. La improvvisa gioia intorbida il pensiero, come certi liquori forti e soavi intorbidano l'acqua pura.
Edith taceva, rispondeva a suo padre serrandogli la grossa mano tra le sue, nervose, appassionate.
Un lume brillò sulla porta del palazzo e vi rimase fermo.
«Papà» disse subito Edith «mi presenti.»
Steinegge si levò a malincuore. Non aveva badato a quel lume impertinente: sarebbe rimasto lì tutta la notte solo con lei e non capiva tanta fretta d'essere introdotta. Non pensò né l'anima sua leale poteva immaginare quali false, perfide parole fossero state sussurrate a sua figlia contro di lui. Edith non le aveva volute credere, ma qualche dubbio angoscioso n'era ben rimasto in lei, ella temeva, almeno, che anche lì in quella casa sconosciuta si potesse pensar male di suo padre. Essa conosceva già il mondo assai meglio di lui che ne aveva veduto tanto.
Entrarono, la figlia a braccio del padre. Era la curiosa Fanny, che stava sulla soglia con una candela in mano.
«Buona sera» disse Edith.
Fanny, che non teneva in gran stima «lo straccione» Steinegge, arrischiava un risolino beffardo quando Edith passò davanti a lei salutandola. Il risolino le morì sulle labbra ed ella s'inchinò graziosamente senza salutare.
«In qual modo» pensava «il vecchio zuruch può avere dimestichezza con una damigella così?»
Aveva visto una bellezza delicata e seria, una persona elegante; aveva notato il passo, l'atto di saluto, la voce dolce e bassa, la semplicità severa dell'abito; e con la sua esperienza delle vere signore, aveva giudicato assai bene di Edith.
«Fateci lume» disse Steinegge.
Fanny lo guardò, meravigliata. Dove aveva egli preso tanta audacia? Di solito osava appena pregare i domestici. Davvero pareva cresciuto di un palmo e camminava impettito come un soldato che dia il braccio a una regina. Fanny obbedì.
Steinegge presentò sua figlia senza la umiltà ossequiosa ch'è debito di chi presenta una parente ai propri superiori. Il conte Nepo e donna Marina si mostrarono freddissimi. Il conte Cesare fu cordiale. Si alzò in piedi, prese con sincera compiacenza la mano della giovinetta e le parlò col suo vocione benevolo della stima e dell'amicizia che aveva per suo padre. La contessa Fosca chiedeva spiegazioni all'uno e all'altro e non arrivava mai a capire. Quando ci arrivò «Oh che caso, oh che caso!» non rifiniva più dal fare esclamazioni di meraviglia, congratulazioni e domande di ogni genere.
«Perché va a sedere così lontano, benedetta?» diss'ella a Edith. «Di contentezza non si cena, sa; e dopo cena, La ci vorrà bene più di prima al papà. Venga qua, cara da Dio, venga qua.»
Edith si scusò con garbo. Il conte, indovinando che padre e figlia desideravano rimaner soli, osservò che forse la viaggiatrice abbisognava sopra tutto di riposo e invitò Steinegge ad accordarsi con Giovanna per la stanza di madamigella Edith, la quale avrebbe potuto farsi recar da cena colà più tardi, se lo desiderasse.
Giovanna condusse Edith in una stanza attigua a quella di suo padre. Questi camminava intanto su e giù pel corridoio, entrava e usciva dalla sua camera, parlando forte alle pareti, al pavimento e sovra tutto al soffitto, fermandosi ad ascoltare i passi e le voci delle due donne nella camera vicina, con lo sguardo torbido e il viso ansioso, come se temesse di non udire più nulla, di trovar che il vero non era più vero. Finalmente Giovanna uscì e discese le scale.
Poco dopo quell'uscio si schiuse da capo e una voce disse piano:
«Papà.»
Steinegge entrò e abbracciò sua figlia. Non potevano parlare, si guardavano. Ella sorrideva fra le lagrime silenziose; egli si mordeva il labbro inferiore, mostrava negli occhi un dolore pungente, uno spasmo in ogni muscolo del viso. Edith comprese, gli appoggiò la testa sul petto e mormorò:
«Ella è contenta, papà.»
Il povero Steinegge tremava come una foglia, faceva sforzi incredibili per frenare la commozione. Edith si trasse dal seno un piccolo medaglione, l'aperse e lo diede al padre. Questi non lo volle guardare e glielo restituì subito dicendo «Sì, sì» battendosi una mano sul cuore. Stette muto per qualche minuto ancora, poi andò risolutamente a spegnere il lume.
«Adesso racconta» diss'egli. «Perdonami se faccio così. Voglio solo udire la tua voce e figurarmi che non sono passati tanti anni. Ti rincresce?»
No, non le rincresceva. La immagine che aveva serbata di suo padre nella memoria era venuta lentamente trasformandosi col tempo, s'era elevata e abbellita; proprio all'opposto del pover'uomo. Anche per Edith v'era adesso qualche cosa di straniero nell'aspetto di lui; anch'essa aveva bisogno di abituarvisi prima di potergli parlare a cuore aperto. Nelle tenebre, invece, la voce di cui tante volte, lassù a Nassau, aveva cercato di ricordare il timbro esatto, la cara voce paterna le correva dentro per tutti i nervi, le riempiva il petto, le riportava impetuosamente nel cuore i più minuti ricordi dell'infanzia. Anche a lei piaceva parlare così, all'oscuro.
E raccontò quei dodici anni passati con il nonno materno, due zii e le loro famiglie. Il nonno, morto da pochi mesi, era stato assai buono per lei, ma non aveva permesso mai che in casa si pronunciasse neppure il nome del proscritto. Edith ne parlò con delicata pietà e temperanza, dissimulando, scusando, per quanto era possibile, gli odii tenaci del vecchio, imbevuto di pregiudizi che nessuno della famiglia si era mai curato di combattere. Steinegge non la interruppe mai; era ansioso di udire l'ultima parte del racconto, di sapere come Edith, che aveva lasciate senza risposta tutte le sue lettere, si fosse poi decisa di abbandonare patria e parenti per venire in traccia di lui. Quest'ultima parte fu la più difficile e amara per la narratrice. Fino alla morte del nonno essa non aveva ricevuto alcuna lettera di suo padre. Morto il nonno, ne aveva trovata per caso una direttale da Torino e aveva saputo in pari tempo che fino a due anni prima moltissime altre lettere erano arrivate per lei da vari paesi e che tutte erano state trattenute e distrutte.
Qui il racconto fu interrotto da un'espansione di Steinegge contro quei maledetti bigotti ipocriti furfanti vili che son capaci di queste azioni da assassini. Tempestò sbuffando per la camera buia e non si fermò se non quando ebbe rovesciate due sedie. Allora udì un passo leggero venire a lui, si sentì una mano sulla bocca. Tutta la sua ira cadde. Egli baciò quella mano e la tolse con ambo le sue.
«Hai ragione» disse «ma è orribile!»
«Oh no, è basso, basso, molto più basso di noi, papà.» Ella continuò narrando come quella lettera vecchia di due anni e mezzo, l'avesse quasi fatta impazzire. La sapeva a memoria. Ripeté le preghiere appassionate fatte agli zii onde ricuperare qualche altra lettera. Ma erano tutte scomparse e neppure una ne poté tornare in luce. Si spezzarono invece i fragili legami che tenevano unita Edith alla famiglia materna dopo la morte del nonno. Ella ebbe la sua parte dell'eredità, modicissima perché gli eredi erano parecchi e la famiglia, non molto ricca, aveva sempre vissuto signorilmente. Chiese di poterne disporre subito e l'ottenne a condizioni inique che ella accettò senza discutere. Partì subito per l'Italia, sola, con la sua piccola eredità, seimila talleri, e una lettera per un impiegato della Legazione di Prussia a Torino, che prestava i suoi buoni uffici anche ai cittadini del Nassau. Si recò difilata a Torino; quel signore si adoperò molto per lei e fu presto in grado di farle sapere dove avrebbe potuto trovare suo padre. Edith terminò con dire come si fosse accompagnata ai Salvador.
Steinegge osservò allora ch'era forse suo dovere scendere nel salotto prima che gli ospiti del conte si ritirassero. Accese il lume per Edith e la pregò di attenderlo, si sarebbe sbrigato in pochi minuti. Escì in fretta e scese la scala senza badare che la lampada sospesa sul pianerottolo del primo piano era spenta e che nessuna voce si sentiva tranne quella dell'orologio. Scoccò da questo, mentre passava Steinegge, un tocco sonoro. Pareva dicesse: «Ferma!». Quegli si fermò, accese uno zolfanello. Le undici e mezzo! Lo zolfanello si spense e Steinegge rimase immobile con la mano distesa in aria. Possibile? Avrebbe creduto che fossero le nove e mezzo. Risalì la scala in punta di piedi e spinse pian piano l'uscio della camera di Edith.
Ella era ritta davanti alla finestra aperta, teneva stretta alla persona con le mani giunte la spalliera d'una seggiola e curva sul petto la testa.
Steinegge si fermò; gli si era stretto il respiro. Sentiva forse gelosia dell'Invisibile cui saliva allora, oltre le stelle, il pensiero di sua figlia? Non lo sapeva bene neppur lui, che sentisse. Era un freddo, un'ombra fra Edith e sé. Egli non aveva mai nella sua mente distinto Iddio dai preti, dei quali parlava sempre con disprezzo, benché fosse incapace di usare la menoma scortesia al più zotico e bigotto chierico della cristianità. Aveva spesso pensato con dolore che sua figlia sarebbe stata educata dai preti, e ora, solo per averla veduta pregare, gli pareva che lo avrebbe amato meno, si sgomentava del futuro.
Edith s'avvide di lui, depose la seggiola e disse:
«Avanti, papà.»
«Ti disturbo?»
Ella si meravigliò del tono sommesso e triste della domanda e rispose con un no attonito, levando le sopracciglia come per dire: «Perché mi domandi così?». Lo volle accanto a sé, alla finestra.
Era una notte senza luna, quieta. Il lago non si distingueva dalle montagne. Appena si vedeva a piedi dell'alta finestra una striscia biancastra, il viale di fronte all'arancera, lungo il lago. Tutto il resto era un'ombra che cingeva da ogni parte il cielo grigio, e dentro a quell'ombra si udiva di tratto in tratto il breve e dolce mormorar dell'acque chete, che, rotte dal guizzo d'un pesce, si dolevano e si riaddormentavano.
Edith e suo padre conversarono ancora lungamente a voce bassa, per un inconscio rispetto alla silenziosa maestà della notte. Ella gli domandava mille cose della vita passata, dalla separazione in poi; faceva domande disparatissime, perché ne aveva preparato un tesoro da lunga pezza e ora le venivano sulla bocca alla rinfusa, alcune gravi come questa: se avesse mai sofferto di nostalgia, alcune puerili come quest'altra: se ricordasse il colore della tappezzeria del salottino dov'ella aveva dormito e sognato di lui per dodici anni. Al povero Steinegge si spandeva nel petto una dolcezza ricreante, un calore d'orgoglio. Raccontando ad una ad una le sue tribolazioni alla giovinetta che ne palpitava e ne piangeva, quel che aveva sofferto gli pareva niente a fronte della consolazione presente.
Un suono di campane passò sul Palazzo, andò a echeggiare nelle valli, a perdersi nei fianchi selvosi dei monti. V'era l'indomani una sagra in Val...
«Perché suonano, papà?»
«Non lo so, cara» rispose Steinegge. «Die Pfaffen wissen es, il pretume lo sa.» Appena pronunciate queste parole, sentì di aver detto male e tacque. Tacque anche Edith.
Il silenzio durò qualche minuto.
«Edith» disse finalmente Steinegge «sarai stanca non è vero?»
«Un poco, papà.»
Era sempre tenera quella cara voce argentina; Steinegge si consolò.
Era sempre tenera quella voce, ma vi suonava dentro stavolta una nuova corda delicatissima, mesta, appena sensibile. Poi che Steinegge si fu congedato con un bacio, Edith tornò alla finestra e parve parlare a lungo con Qualcuno al di là delle nubi. Intanto suo padre non poteva trovar posa. Tornò cinque o sei volte a picchiar all'uscio per chiederle se aveva acqua, se aveva zolfanelli, a che ora voleva essere svegliata, se le dovevano portare il caffè, se desiderava questo, se desiderava quello. Fu tentato di coricarsi lì all'uscio, come un cane fedele; finalmente, poco prima dell'alba, andò a coricarsi bell'e vestito sul suo letto.


2. I Salvador

«El xe largo e longo, Ecelenza» disse alla contessa Fosca la sua fedele Catte, versandole il caffè in una tazza larghissima, mentre la contessa, alzando la testa dal cuscino e facendosi puntello de' gomiti, considerava con occhi diffidenti il vassoio, la tazza, la sottocoppa, la zuccheriera, il bricco levato in aria e il filo arcuato del caffè cadente.
«Benedetta Venezia!» diss'ella.
«Eh, Eccellenza, benedetta Venezia!»
«La xe aqua, ciò» disse la contessa con una smorfia deponendo la tazza sul vassoio dopo avervi appena posate le labbra.
«Acqua schietta, Eccellenza. Ce l'ho detto io a quella vecchia. Questa è la secchia (Catte accennò alla tazza) e questo è il pozzo (Catte accennò il bricco). Oh che casa, Eccellenza! La vecchia ha fatto il muso per le lenzuola e io le ho cantato che Sua Eccellenza non può dormire se non è nelle sue lenzuola.»
«Questo ci hai detto?»
«Sì, Eccellenza.»
«Hai fatto bene, sa. Le ho tolte per l'albergo, ma già che vi sono... Vestimi, che presto sarà ora di Messa.»
«Come La comanda, Eccellenza. La cameriera giovane, quella della marchesina Marina, mi ha dato ragione, se non fallo, perché tanto l'una che l'altra parlano peggio dei levantini. Sa, Eccellenza, cosa si capisce? Che qui padroni e servitori, con buon rispetto parlando, son tutti cani e gatti.»
«Dimmi, dimmi. Quest'altra calza, siora sempia! Dimmi dimmi. Non c'è male queste gambe, ancora, ah?»
«Eh, Eccellenza, quante sposine vorrebbero...!»
«Sì, dimmi, vecia, conta su. Cani e gatti, ah?»
«Eh cani e gatti, Eccellenza. Il signor conte e la signora marchesina non si possono vedere. La si appoggi a me. Piano, Eccellenza, piano, che il letto è alto. Quando si guardano pare che si vogliano mangiare. Così ci ha detto il cuoco a Momolo, perché pare che il cuoco non tenga né dall'uno né dall'altra. Ne contano di belle.»
«Conta su.»
«Ma non so, Eccellenza, se posso, perché c'entra il signor conte...»
«Eh, stupida, quando vi dico di contar su, il vostro dovere è di contar su.»
«Come La comanda, Eccellenza. Ecco, si vuole che il signor conte, tempo fa, volesse prendere la signora marchesina e che la signora marchesina si disperasse perché, ohe poveretta, giovane la è, anima mia...»
«Contate su senza tante anime.»
«Come La comanda, Eccellenza. Dunque la signora marchesina si ammalò e andava a torzio colla testa; da quel tempo non ha più potuto vedere il conte; e il signor conte ha dovuto metterla via; ma anche lui è diventato rabbioso con lei. Dopo è nato un altro pettegolezzo d'un giovane...»
«D'un giovane?»
«Per servirla, Eccellenza.»
«Che giovane?»
Sua Eccellenza era inquieta.
«Qua vien lo sporchetto, Eccellenza. Il suo nome di questo giovane non è il suo nome. Pare che ci sia un pasticcio... non so se mi spiego.»
«Eh, insensata, fra me e te, abbiamo duecento anni, e pigli tutti questi giri?»
«Come La comanda, Eccellenza. Questo giovane ha un altro nome, ma è figlio del signor conte. Eccola tonda.»
Sua Eccellenza si slacciò la cuffia da notte e rimase un momento immobile, a bocca aperta, guardando Catte. Poi si strinse nelle spalle.
«Sciocchezze, insulsaggini» diss'ella «bugie. E dunque?»
«Adesso vien l'imbroglio. Non ho capito se ci fosse del tenero fra costui e la signora marchesina o se abbiano trovato da ridire fra di loro, e che lui, voglio dire, che lei ne abbia dette quattro a lui, o se il conte volesse che lei lo togliesse, questo giovine, e che a lui non le piacesse, o che la si fosse messa in pensiero, si sa, per la roba, ciò, e che lui...»
Sua Eccellenza buttò via la cuffia.
«Uff, che caldo che mi fai! Cosa vuoi che capisca? Dammi quell'affare! Quell'affare, sì, quell'affare! Non capisci? Vai alla Sensa?»
Catte andò a pigliar la parrucca di Sua Eccellenza e si dispose a mettergliela.
«E poi?» disse la contessa.
«E poi... La permetta, Eccellenza, che siamo un poco storti. Ecco così. No, ancora un pochetto.»
Sua Eccellenza soffiava come una macchina a vapore.
«La senta, Eccellenza. Chi è adesso che ha da dire che la è parrucca? Dopo tutto, la porta anche la Madonna. La compatisca, Eccellenza. Dunque un bel dì non so come, è nato un bordelo, grida tu che grido anch'io, non so se si siano anche pettinati, l'amico senza dire "cani vi saluto" infilò la calle e chi s'è visto s'è visto. Cose di sei giorni sono. E quel tedesco, Eccellenza, che macia! Stamattina è venuto giù lui a prendere il caffè da portare alla sua tedeschetta. C'era abbasso anche il signor conte, perché quello è proprio el massariol, lo si trova dappertutto, pare che vi comparisca di sotto terra.»
«Tacete, pettegola» interruppe la contessa Fosca. «Ho tanto di testa. Cosa volete che me ne faccia di tanti pettegolezzi? Fate presto. Specchio. Brava, gioia. La Madonna porta ella quell'affare sul naso? Questo si acquista con darvi libertà, che non fate più attenzione a niente. Presto. Sua Eccellenza è alzato?»
«Credo di sì. Ho visto Momolo portargli gli abiti.»
«Bene, andate a dirgli di venire da me. Presto!»
«Subito, Eccellenza.» «Per diana, tu puzzi ancora di baccalà, ciò» soggiunse Catte fra i denti, chiudendo l'uscio dietro di sé.
Non era colpa della contessa Fosca se suo padre, dopo essere stato sbrodegher, aveva venduto ai veneziani e alla terraferma uno sterminio di baccalà. Quando il conte Alvise VI Salvador si degnò di sposarla, i suoi concittadini le inflissero il nomignolo di contessa Baccalà. Ella sapea tuttavia liberarsene presto per la sua bonarietà disinvolta, per la franchezza con la quale parlava della propria origine, per la sua schietta e allegra ignoranza. Con l'andar del tempo si fece voler bene persino dalle gran dame più schizzinose; il tanfo dei negozi paterni andò perdendosi; ci voleano le nari maligne di Catte per coglierlo ancora.
In vent'anni di matrimonio il fu conte Alvise VI, buttando via quattrini a destra e a manca con l'aiuto dell'allegra signora, aveva cominciato a rivedere qua e là il fondo della cornucopia, su per giù come prima del suo matrimonio. Alla sua morte la contessa Fosca si trovò in possesso di latifondi sterminati, di debiti colossali, e di un ragazzetto mingherlino, ammirato in casa e fuori di casa, come un grande ingegno. La contessa volle sapere a puntino in quali acque navigasse; si spaventò, si raccomandò alla Madonna dei Miracoli, ad avvocati, a santi, a uomini d'affari; ebbe la fortuna di trovare una valente e proba persona, l'avvocato Mirovich, che accettò di mettersi a pope e promise condur la barca a salvamento. Si introdussero grandi economie nella famiglia, si mise Nepo in collegio, si vendettero due tenute in Friuli; e certe anticaglie polverose, degne agli occhi della contessa d'esser buttate in rio, uscirono dal granaio del Palazzo per finire al Museo Britannico.
Mentre le guaste fortune di casa Salvador si andavano racconciando, Sua Eccellenza Nepo assodava la sua riputazione in collegio. Aveva memoria prodigiosa, parola assai facile; non era sfornito d'ingegno, se ne attribuiva con l'aiuto dei maestri e di compagni adulatori, moltissimo. Escito di collegio, studiò leggi a Padova.
Nell'Università il suo nome non si levò sugli altri. Con il grosso degli studenti, scapestrati aperti, democratici intus et in cute, egli, delicato e molle, non poteva accordarsi. Non ebbe adulatori; fu addetto a una chiesuola timida di eleganti, motteggiata, satireggiata dagli altri. Trovava modo di sdrucciolare spesso a Venezia e d'indugiarvisi. Si occupava di economia politica e sapeva fare l'elegante, comparir signore, applicando segretamente la legge del minimo mezzo.
I suoi primi passi nella società furono fortunatissimi. Egli era una speranza bianca e rosea di mamme e di figliuole, una speranza di quei patrioti che desideravano alta la illustre nobiltà veneziana. Quando si annoveravano nei crocchi i giovani più valenti di Venezia, qualcuno cominciava a dire «c'è Salvador». Gli bastava per questo, a lui patrizio, conoscere il tedesco, l'inglese, essere abbonato all'Économiste e al Journal des Économistes, andare a qualche seduta dell'Istituto, spiegare da Florian cosa avessero fatto di tanto noioso i pionieri di Rochdale per seccare l'universo. In pari tempo svolazzava intorno alle gran dame e alle belle dame senza bruciarsi le ali e nemmanco il cordoncino dell'occhialetto; scherzava impunemente con loro, le consigliava nelle più gravi minuzie, acquistandone a poco a poco certa stima sui generis, per cui esse non potevano parlar di Nepo Salvador senza farne gran lodi e sorridere. Il suo nome illustre e la buona opinione che molti avevano di lui, piuttosto per desiderio e per fede che per conoscenza dell'uomo, prevalsero un pezzo su questi equivoci sorrisi e sui giudizi che poche persone, a quattr'occhi, facevano di lui. Finalmente i sussurri si propagarono, diventarono mormorii, bisbigli, voci; il credito di Nepo si sdrucì rapidamente da ogni parte; il suo perpetuo occhialetto, le fogge esagerate degli abiti, il portamento effeminato, la vanità ridicola, gli stomeghezzi, le taccagnerie male nascoste, furono liberamente derise; i suoi amici si confidarono il gran dubbio che sapesse pochino pochino, e quando uno diceva «talento, però» un altro rispondeva «ehu, memoria». Nepo Salvador diventò il conte Piavola.
Nel 1860 due o tre valentuomini, amici di casa Salvador e teneri, per l'onor di Venezia, del nome patrizio, accordatisi fra loro, si misero attorno a Nepo onde persuaderlo a emigrare. Bisognava prepararsi all'avvenire, come facevano tanti altri delle migliori famiglie, con la esperienza della libertà, con l'amicizia dei pezzi grossi di Torino. Nepo era ambizioso, cominciava a sentire un freddo intorno a sé; abbracciò subito l'idea. La contessa Fosca odiava religiosamente col suo grosso patriottismo, i tedeschi, ma non poteva comprendere che diavolo fosse questa libertà cui bisognava prepararsi tanto tempo prima, né quale onore fruttasse l'essere deputato, cioè, com'ella concluse dopo infinite spiegazioni, l'essere mandato in tanta malora dal calegher, dal forner, dal frao, ecc. A una amica che le domandò se partiva lei pure, rispose stizzita: «Io? Cosa volete che vada a fare? Il deputato?». Non partì, ma faceva di tratto in tratto delle visite a suo figlio. S'incontravano a Milano per abbreviare il viaggio e perché Nepo amava far conoscere sua madre a' suoi amici. Colà videro spesso i Crusnelli di Malombra, loro cugini per parte della madre di Marina. Fra i d'Ormengo e i Salvador v'era stata alleanza fin dal 1613, quando Emanuele d'Ormengo, inviato di Carlo Emanuele I a Venezia, s'invaghì di Marina Salvador e la sposò. Nel 1797 Ermagora Salvador, esule da Venezia, trovò a Ginevra i d'Ormengo, fuggiaschi dal Piemonte, e, un anno dopo, condusse in moglie Alessandrina Felicita, zia del conte Cesare e madre, in seguito, di Alvise VI. Il lusso tutto moderno del marchese Filippo abbagliò Fosca, benché nel suo palazzo di Venezia vi fossero da secoli ricchezze dieci volte maggiori. Ella pensò subito ad un matrimonio e ne parlò a Nepo, il quale arricciò il naso e rispose in tono cattedratico che un giovanotto non può legarsi senza una gran passione, e che quando si ha l'amicizia delle più belle e colte signorine di Venezia e di Torino non è facile innamorarsi a prima vista di altre persone; che, al postutto, lo sfarzo dei Malombra gli piaceva e non gli piaceva. Un oracolo! pensò sua madre, quando improvvisamente casa di Malombra si sfasciò. Ella si compiacque assai che Marina fosse stata raccolta dallo zio Cesare. Lo aveva conosciuto a Venezia un trent'anni addietro; lo sapeva ricchissimo e senz'altri eredi che questa nipote. Non osò tuttavia riparlare a Nepo di matrimonio, dopo la teoria dei giovinotti dalle belle amiche. Fu Nepo che un paio d'anni dopo la catastrofe, trovandosi con lei a Milano, escì a parlarle della povera Marina, delle sue disgrazie, dei suoi begli occhi; le disse che certe idee respinte una volta, al tempo della prosperità di Marina, adesso gli si riaffacciavano, gli entravano meglio di prima nel cuore intenerito. «Taso, ma no la bevo, vissere» disse tra sé la contessa Fosca. Nepo osservò pure che correva loro obbligo, essendo in Lombardia, di visitare il conte Cesare, parente dei più stretti che avessero. La contessa, prima di avventurarsi in paese sconosciuto, volle informazioni e consigli da donna Costanza R..., una vecchia dama milanese di sua conoscenza. Le informazioni sul cugino furono scarse: strano, misantropo, ricchissimo, senza eredi più prossimi di Marina. Di costei donna Costanza seppe solamente dire che la credeva un follettino, ma buona e pia. La vedeva sempre, quand'era a Milano, all'ultima messa di San Giovanni. «Casa Malombra, già, non se ne parla, principii buonissimi. Anche il povero Filippo, testa un po' fêlée, ma buonissimo, neh! Proprio buono, ecco, povero Filippo! E poi, cara, gran seigneur!» Donna Costanza concluse che bisognava scrivere prima, e poi, secondo la risposta, regolarsi.
La contessa Fosca scrisse un capolavoro diplomatico. V'erano intarsiati non pochi errorucci di ortografia e di grammatica; ma nessuno si sarebbe atteso dalla contessa uno scritto così artificioso. V'era espresso il desiderio di rivedere il conte dopo tanti anni, di stringere con l'amicizia i legami del sangue. Non era egli, dopo tante disgrazie, il più prossimo dei parenti superstiti del povero Alvise? Tali erano pure i sentimenti di Nepo. Ella avrebbe voluto intrattenersi con lui dell'avvenire di questo suo figlio; e qui grandi elogi al medesimo. Lo vedeva disposto ad accasarsi. Ove cadrebbe la sua scelta? Certo sopra una famiglia degna, una fanciulla virtuosa; ma ella, come madre, doveva pur pensare a quello che i benedetti giovani non curano mai. Qui veniva un quadro né troppo scuro né troppo chiaro delle finanze Salvador. Insomma ell'aveva bisogno di amici autorevoli e prudenti. Verrebbe volentieri al Palazzo con Nepo, se però il tempo, se la salute, se questo se quello permettesse. Desiderava pure tanto abbracciare la cara Marina di cui si ricordava sempre con tenerezza. Aggiungeva uno speciale bigliettino affettuoso, sulle generali, per essa.
Il conte Cesare rispose brevemente che si compiaceva delle buone qualità di Nepo, e approvava, riguardo al matrimonio, le idee della cugina; che avrebbe gradito assai la visita e sperava riuscirebbe gradita anche a sua nipote. Questa mandò due righe di fredda cortesia irreprensibile, che diedero un po' da pensare alla contessa Fosca, perché gittavano un'ombra sulla lettera dello zio, la quale poteva interpretarsi per un assenso anticipato con la solita clausola «se piace». Ma donna Costanza le fece riflettere che, nel caso di Marina, un gran riserbo era della più stretta convenienza. Così Sua Eccellenza s'imbarcò e fluttuava in alto mare, quando dopo le chiacchiere e le inattese rivelazioni di Catte, comparve Nepo.
Sua madre lo accolse con una faccia sepolcrale, lo fece sedere e dopo un solenne «Fio, qui nasce questo» gli spifferò d'un fiato tutta la storia di Catte, tenendo indietro il più grosso, smorzando e rallentando la voce sempre più. Finì col metter fuori la supposta paternità del conte e ripeté in forma di epilogo, con voce sommessa ma solenne:
«Un fio!»
Nepo rimase imperterrito. Disse ch'era ormai interamente sicuro di piacere a Marina, poiché ella si trovava male in casa dello zio. Quanto al figlio, non valeva la pena di occuparsene. La contessa non voleva credere a' propri occhi e se lo fece ripetere due volte. «Eh, so quello che dico!» esclamò Nepo impazientito. «Se sposerò mia cugina non sarà per i denari. Sciocchezze, cara mamma, queste.» Fosca andò sulle furie, sempre sottovoce. Nepo si stringeva nelle spalle e taceva; ma quando sua madre dichiarò che sarebbe partita la sera stessa, egli, giuocando furiosamente, prima delle sopracciglia e del naso, poi del capo, scosse via l'occhialino, assalì la contessa a rimproveri, a sarcasmi e affermò che non sarebbe partito quand'anche si fossero dati la posta al Palazzo tutti i Silla dell'universo.
«Che Silla?» interruppe Sua Eccellenza. «Chi è questo Silla? È quell'amico?»
Nepo si morse le labbra.
«Ma rispondi! È questo il fio?»
«Non c'è figli.»
«To', to', to'» disse Fosca appuntando l'indice a Nepo che le voltava le spalle, tutto ingrugnato. «Tu lo sapevi, tu? Come diavolo hai fatto? Tu lo sapevi, eh? Come lo hai saputo?»
Nepo fece un atto d'impazienza e uscì brontolando dalla camera.
Sua Eccellenza gli guardò dietro, alzò le sopracciglia, porse il labbro inferiore e sussurrò:
«Xelo!»


3. Ascetica

Le campane di R... suonavano, un'ora dopo, a distesa, e l'allegro suono cadeva sui tetti del paesello, si spandeva giù per i prati, cercava per le colline, per le montagne, ogni casupola dispersa. Una riga di fazzoletti oscuri si vide salir lentamente la via tortuosa della chiesa, scivolar nella gran porta nera come formiche nel formicaio; poi vennero frotte rapide di gai fazzoletti rossi e gialli, qualche tardo ombrellino pretensioso, altre frotte di cappelli a cencio che si aggrupparono nel sagrato.
Steinegge passò anche lui fra quei gruppi con Edith, l'accompagnò in chiesa e ne uscì un momento dopo. Prese il sentiero che s'inerpica su pel monte imminente alla chiesa e salì fino a certi sassi imboscati d'allori; là uscì dal sentiero e si gittò a sedere.
Ecco la contessa Fosca, tutta trafelata, benché sia venuta in barca fino a R...; dietro a lei Giovanna e Catte; poi, a rispettosa distanza, Momolo guarda trasognato come se fosse nel mondo della luna. Sua Eccellenza è scandolezzata del cugino che non viene a Messa e della cuginetta che ha scelto quel momento per farsi accompagnare a spasso da Nepo. Sua Eccellenza si propone di pregare fervorosamente per sé e per suo figlio che non è in colpa se perde Messa per certi riguardi che il Signore capirà. Essa vede Edith e va a sederle vicino con grande scompiglio delle contadine che per far largo alla grossa signora s'inginocchiano a terra fuori del banco. Ed ecco suona il campanello, escono i chierici in cotta bianca, esce il prete affondato nel piviale, l'organista pianta mani e piedi sull'organo, gli uomini entrano in chiesa. Dopo cinque minuti, per la porta laterale, compare Marina seguita da Nepo. Passando tra le file degli uomini fa cenno al suo cavaliere di pigliarvi posto ed entra in una cappella. Nepo, elegantissimo, capita fra due colossi puzzolenti, si fa piccino piccino e volta il viso immelensito a guardar giù per la chiesa, cercando Marina. Trova Catte inginocchiata presso alla Giovanna, trova Momolo ritto presso alla porta; trova un pezzo di cielo puro e di verde lucente con certe frondi mosse dal vento, che gli ridono in faccia, trova gli occhi attoniti di sua madre, ma non la crudele che s'è pigliato il gusto di fargli rinnegar la Messa a parole per poi condurvelo e piantarlo lì fra quel tanfo di plebe.
Ella non pensava punto a lui. Il prete aveva intonato Credo in unum Deum, e il popolo, fra i suoni dell'organo, seguiva: Patrem omnipotentem. Un lampo illuminò nel cuore di Marina la via percorsa; la scoperta del manoscritto, le promesse arcane a Cecilia, l'amore intravveduto negli occhi di Silla, la stretta delle sue braccia veementi, il nome sussurrato da lui quella notte, la probabilità ch'egli fosse il suo corrispondente anonimo portato a lei da un destino, e la passione, sì, la benedetta passione sorda, muta, lenta, prepotente, che dopo tanto desiderio, tanti barlumi dileguati, dopo tanto fastidio di sciocchi corteggiatori, veniva. Ella ebbe uno slancio di fede e di gratitudine verso un Dio ignoto, certo diverso da quello che si adorava lì presso a lei: non così freddo, non così lontano: benefico e terribile come il sole, ispiratore di tutti gli ardori onde splende la vita. E si sentiva come presa in mano da questo Iddio, portata dal suo favore onnipotente. Teneva il viso tra le palme, si ascoltava il cuore batter forte, gustava le sensazioni acute, quasi dolorose, che le si destavano per tutto il corpo, pensando all'infallibile compiersi delle promesse divine, all'amore fatale che l'avrebbe esaltata tutta, anima e sensi, oltre alla torbida natura umana. Di questo non le entrava neppure un dubbio. Ripensava tutte le difficoltà da doversi superare per toccar la meta, le smarrite tracce di Silla, lo sdegno di lui, fors'anche l'oblio; la sepoltura del Palazzo dove il caso non poteva aiutare; la inimicizia dello zio, quel ridicolo Nepo. Provava un piacere acre e forte rappresentandosi questi ostacoli; tutti vani contro Dio, Patrem omnipotentem.
A Lui, a Lui si abbandonava. Curva sul banco la flessuosa persona, pareva una Tentazione penitente. La contessa Fosca le dava delle occhiate oblique, lavorando a più potere di ventaglio e battendo via con le labbra frettolose un chiacchierio muto di preghiere interminabili. Si compiaceva di vederle quell'attitudine pia. Immaginava gl'inchini che il vecchio nonzolo di S. Maria Formosa avrebbe fatto a sua nuora. Nepo era alla tortura; si portava e riportava al naso il fazzoletto profumato, guardava sottecchi i suoi vicini colossali e, quando si buttavano ginocchioni con tutti gli altri fedeli, egli non osava stare ritto, calava adagio adagio, pieno di angoscia pei suoi calzoni color tortora. Che differenze dall'ultima Messa di S. Filippo, da quel giardino di tote e di madame eleganti, da quell'ambiente di cristianesimo depurato! Si consolava pensando alla cugina. «Natura aristocratica» diceva tra sé. «Debbo essere il suo ideale, il suo Messia. Non vuole che me ne accorga troppo, è naturale.»
Suonò il campanello dell'elevazione. Nepo, in ginocchio, col capo devotamente chino, pensava: «Milleduecento ettari in Lomellina, ottocento nel Novarese, palazzo a Torino, palazzo a Firenze.»
Invece Edith non abbassò il viso. Era pallidissima, guardava davanti a sé con occhio grave e tranquillo. Solo un tremito delle mani tradiva il fervore dell'accorata preghiera che passava su tutte le teste chine, moveva diritto a Dio, gli diceva in faccia: «Signore, Signore, tu che sai quanto l'hanno offeso, non sarai pietoso con lui?». Il suo viso pensoso non esprimeva la rassegnazione ascetica, ma una volontà ferma e intelligente, velata di tristezza.
E lui intanto, il nostro onesto amico Steinegge, ascoltava Messa in excelsis, seduto fra gli allori, abbracciandosi le ginocchia. Egli era proprio uscito di chiesa perché il pavimento gli scottava. Da quanti anni non aveva posto piede nelle prigioni, come diceva lui, di Domeneddio! Non aveva osato lasciar sua figlia sull'entrata della chiesa; ma, appena oltrepassata la soglia, quando Edith si avviò a pigliar posto nei banchi riservati alle donne, egli si pentì di aver male presunto delle sue forze. Non erano tanto i suoi odii fieri quanto un sentimento d'onore che lo spingeva indietro. Il buon vecchio lupo uscì dal gregge.
Accovacciato lassù come un lupo malinconico, non curava affatto la deliziosa scena di monti, di acque, di prati che rideva davanti a lui; né udiva i blandimenti delle frondi che gli sussurravano intorno. Guardava giù il tetto della chiesa e ascoltava il suono confuso di canti e d'organo che ne saliva tratto tratto. Aveva un pensiero solo e lo lavorava per tutti i versi:
«Agli occhi suoi sono un reprobo.»
Pensiero amaro. Aver tanto combattuto, tanto sofferto, custodito l'onore contro la fame atroce, contro tutte le violente voglie del corpo estenuato, tutte le viltà della stanchezza; averlo così custodito quasi più per lei che per sé, amarla come l'amava, ed esserne giudicato un reprobo! Dovrebbe egli dunque umiliarsi davanti ai preti che l'avevano fatto maledire dai parenti suoi e da sua moglie ed erano in colpa degli stenti, della morte di lei? «Finirò così» pensò «mi avvilirò, purché Edith mi voglia bene.» Gli venne un'idea. «Se dicessi una parola a questo Dio, posto che ci sia?!» Si alzò in piedi e si mise a parlare in tedesco, a voce alta: «Signor Dio, ascoltatemi un poco. Non siamo amici? Sia. Io ho detto molto male dei preti, di Voi, né a Voi non ho mai parlato. Se tuttavia Voi volete trattarmi da nemico, io Vi prego di fare i conti. Dicono che siete giusto, e lo credo, signor Dio. Guardate nel vostro libro la partita Andrea Steinegge fu Federico di Nassau; guardate se non ho pagato abbastanza. Voi siete molto grande; io molto piccolo; Voi sempre giovane, io sono vecchio e stanco. Cosa volete prendermi ancora? L'amore di mia figlia Edith! Non ho altro, signor Dio. Guardate se potete lasciarmelo. Se non potete, spazzatemi via, per Dio, e finiamola».
Al suono della propria voce Steinegge si commoveva e s'inteneriva sempre più. Mise un ginocchio a terra.
«Vi conosco poco, signor Dio, ma la mia Edith Vi vuol bene e io posso adorarvi, se volete. Vedete, m'inginocchio; ma intendiamoci noi e lasciamo da banda i preti. Forse posso darvi qualche altra cosa. Io ho la mia salute ch'è di bronzo. Pigliate questa. Fatemi morire a poco a poco, ma non mettetevi fra Edith e me. Io non posso inginocchiarmi davanti ai preti e mentire. Sono leale, sono soldato.»
«Signor Dio» qui Steinegge posò a terra anche l'altro ginocchio e abbassò la voce. «Io ho paura d'aver molto peccato nella mia giovinezza. Ho amato il giuoco e le donne peggiori. Tre volte, sulle dodici che mi son battuto in duello, ho provocato io, ho ferito l'altro e avevo torto. Credo che questi siano stati tre peccati; li ho sempre avuti nel cuore. Signor Dio della mia Edith, Vi domando perdono.»
Non disse altro e tornò a sedere, commosso, ma contento di sé. Gli pareva d'aver fatto un gran passo. Parlando a Dio, la sua scarsa fede si era tanto accresciuta ch'egli ora ne aspettava qualche risposta. Provava almeno la soddisfazione dell'uomo povero che ha necessità di parlare a un potente di cui teme lo sdegno, e, per non essere ribattuto dai servi, lo affronta sulla via, gli dice le sue ragioni con la brusca brevità che il tempo richiede, n'è ascoltato in silenzio e pensa quel silenzio copra un principio di combattuta pietà. Accese un sigaro per vincere la commozione che gli stringeva la gola. Il capitano Steinegge non doveva piangere. Fumò con furia, con rabbia. Appena chetato l'animo, guardando a terra con il sigaro fra l'indice e il medio della destra, gli parve che i fili d'erba tra sasso e sasso uscissero a dir qualche cosa di solenne o di incomprensibile e che rispondesse loro il mormorar dei cespugli. Ed egli, benché tedesco, non aveva mai compreso il linguaggio della natura, non era mai stato sentimentale! Il sigaro gli si spense in mano. Che voleva dir questo? Si scosse, si alzò in piedi e discese verso la chiesa.
La gente ne usciva; prima gli uomini che si fermavano sul sagrato in capannelli, poi le donne. Steinegge ristette sul sentiero a guardare la corrente variopinta che sboccava dalla porta maggiore; aspettava il cappellino nero di Edith. La corrente si venne rallentando e diradando. Quando cessò il pericolo di urtarsi a gomiti villani, comparvero la contessa Fosca e Marina, seguite da Nepo; poi tre o quattro vecchierelle: poi più nessuno. Anche i capannelli si sciolsero, il sagrato si votò. Steinegge, inquieto, venne a dare un'occhiata in chiesa. Non v'erano più che due persone, il curato inginocchiato sul primo banco presso l'altar maggiore e, otto o dieci banchi più indietro, Edith.
Steinegge si ritirò adagio adagio e sedette sul muricciolo del sagrato. Gli batteva il cuore. Qual viso gli farebbe Edith! Ella uscì subito, frettolosa e sorridente; gli disse che s'era accorta di lui senza vederlo, perché aveva già imparato a conoscere il passo suo, e gli domandò scusa d'averlo fatto attendere. Nella fretta d'uscire aveva dimenticato l'ombrellino. «Signor papà» diss'ella scherzando «Le rincrescerebbe?». Il signor papà corse in chiesa e, prima di giungere al banco dov'era stata Edith, incontrò il curato che gli veniva incontro porgendogli l'ombrellino e gli fece due o tre inchini.
«È Suo?» disse il curato.
«È di mia figlia.»
«Se volesse vedere il coro, la sagrestia... Abbiamo un Luino, un Caravaggio... dico, se crede...»
«Oh grazie, grazie» disse Steinegge che all'udire Luino e Caravaggio era rimasto a bocca aperta.
«Allora, se vuol dirlo alla Sua signora figlia...»
Steinegge s'inchinò, uscì a fare l'ambasciata e ritornò subito con Edith.
Il curato si fece loro incontro con certa cordialità impacciata, strofinandosi le mani e suggendo l'aria con le labbra strette, come chi ha messo un dito nell'acqua troppo calda. Mostrava presso a sessant'anni. Aveva fronte alta, sguardo vivace e ingenuo, il viso, la voce, il passo della sincerità. Da tutta la sua persona spirava non so quale energia temperata di timidezza. Mostrò a Steinegge e a Edith i due quadri, che portavano alla meglio i loro nomi pomposi. Il Caravaggio del coro era un Martirio di S. Lorenzo, barocco nel disegno e nei lumi, ma pieno di vita. Steinegge non capiva niente di pittura e ne fece grandi elogi. Edith tacque. Il Luino della sagrestia era una bionda testa della Vergine, luinesca senza dubbio, soave. Edith ne fu commossa. Disse al curato con la sua voce quieta, ch'era straniera e che sentiva allora per la prima volta la dolcezza dell'Italia. Come mai quella povera chiesa di campagna poteva possedere un tesoro tale? Il curato divenne rosso e rispose che veramente il quadro era stato suo, un ricordo di famiglia; che gli era parso ispirato da Dio e degno perciò di un luogo santo; e che nella sua chiesa tanto povera e umile Maria ci stava opportunamente. Poi chiese permesso alla signorina, con accento d'ingenuo desiderio, di farle vedere la biancheria più fine e i paramenti più ricchi. Tutto era distribuito col massimo ordine nel grande cassettone della sagrestia, dai purificatori candidi e odorati di lavanda sino al piviale delle maggiori solennità appena giunto da Novara. Il curato spiegava e ripiegava ogni cosa con garbo femminile.
«Vedo bene, signore» diss'egli a Steinegge «vedo bene, che Ella vorrebbe dirmi: Ad quid perditio haec? Un vecchio prete non deve avere i gusti di una giovane signora. Che vuole? Questa povera gente ha piacere così. Intendono di onorar Dio, e Dio vede il cuore.» Non disse quanto avesse aiutato il voto dei parocchiani con le proprie economie pertinaci e dure; perché egli, nato da famiglia signorile, aveva abbandonata ai molti fratelli la sua parte dell'eredità paterna. I fratelli, che lo conoscevano bene e lo amavano, gli avevan regalato, poco tempo prima della visita degli Steinegge, un bell'organo di Serassi. Al primo Dominus vobiscum della prima Messa solenne celebrata con l'o
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