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Info sull'Opera
Autore:
Antonio Fogazzaro
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

MALOMBRA (IV Parte ) Malombra - 1

di Antonio Fogazzaro

1. Lo so, lo so, egli è qui ancora

Silla arrivò alle dieci e mezzo alla stazione di... Il mattino era caldo e ventoso. Le vette dei grandi abeti che nereggiavano lì presso in un giardino, i nitidi profili de' monti lontani spiccavano nel cielo vitreo. Molti viaggiatori salivano sul treno, aspettati, salutati da' loro conoscenti. In tutti i vagoni si chiacchierava, si rideva, si vociava. Quando la locomotiva ebbe trascinato via quegli strepiti con il soffio leonino, parve a Silla, nel silenzio vôto della strada, esser colto dalla stessa ferrea mano di cui otto mesi prima aveva immaginato, partendo in ferrovia di notte, che chiudesse inesorabilmente gli sportelli dei vagoni e portasse via tanti esseri umani nelle tenebre. Guardò il treno già lontano, bramò per un istante seguirne la fuga disperata.
Fuori della stazione c'era il giovinotto dell'altra volta con la sua cavallina.
«To'» diss'egli quando vide Silla «è il signore di quella sera. Andiamo al Palazzo, non è vero, signore?»
«Sei qui per me, tu?»
«È quello che vorrei sapere anch'io. Era di venire ieri mattina coi bagagli degli sposi, là del Palazzo. Vado a prenderli. Fronte indietro. Non si parte più. E poi, ieri sera, io dormiva pacifico come un "tre lire", mica ubbriaco, vede! È l'acqua che mi mette sonno a me. Basta. Si sente un maledetto "toc-toc", la donna (ce l'ho ancora quell'impiastro) la va ad aprire; cosa l'è, l'è quel Rico, quel figlio del giardiniere del Palazzo con un dispaccio di esser qui stamattina con la cavalla, vuoto, alle 10. Trovarmi vuoto a quest'ora, magari, è una di quelle asinate che io non ne faccio. Sicché...»
«Basta, basta. E il conte come sta?»
«Sta bene.»
«Come! Non è ammalato?»
«L'ho visto io l'altro giorno. Era un po' giù, un po' vecchio, un po' brutto, un po' gobbo, che so io! un po' mezzo andato, ma stava bene. Se però non si è ammalato ieri.»
«Cosa t'hanno detto ieri mattina quando sei andato al Palazzo per i bagagli?»
«M'han detto niente del tutto. C'era il giardiniere al cancello, che quando mi ha visto venire da lontano, si è piantato in mezzo alla strada e ha cominciato a far di no col braccio a questa maniera qui e poi a fare a questa maniera qui che andassi fuori dai piedi: ed io allora ho fatto "piglia!" a quest'altra maniera qui, ho voltato la bestia e sono andato a fermarmi a Lecco. Son venuto poi a casa tardi e sono andato a letto subito.»
Intanto s'eran posti in viaggio e la cavalla trotterellava a capo chino, fiutando la strada, spazzando via con due noncuranti colpi di coda a destra e a sinistra le frustate tra serie e scherzose del padrone. Questi smise di parlare. Passavan gli alberi, le siepi fiorite. Casupole sedute nei campi si venivano alzando su tra i gelsi, guardavano, e poi, adagio adagio, si riacquattavano. I monti giravano, mutando aspetto, intorno alla strada serpeggiante. Le note cime imminenti al lago nascosto si affacciavano a Silla ora da destra ora da sinistra, gli crescevano sugli occhi, come le inquietudini febbrili nelle vene.
Il vetturino non poteva tacere a lungo.
«Ah» diss'egli «l'altra sera era bello trovarsi al Palazzo!»
«Perché?»
«Perché la signora donna Marina si è fatta sposa ieri mattina; non lo sa! Prima anzi la era di sposarsi l'altra sera e poi, lo so io! han come cambiato. Insomma l'altra sera ci fu una casa del diavolo.»
Egli continuò un pezzo a descrivere enfaticamente le luminarie, i fuochi, le musiche; ma Silla non ne ascoltò parola.
Ella era dunque già sposa davvero e gli scriveva in quel modo con quel nome! Ma la parola Cecilia a piè del telegramma aveva pur vita, voce, passione; gridava «ti amo; vieni!». Un giorno dopo le nozze! E il conte era veramente ammalato, o no? Se non era ammalato, perché gli sposi non erano più partiti? La sua fantasia si perdeva; egli trasaliva quando, in mezzo a dubbi d'ogni sorta, gli lampeggiava in mente con una tagliente nettezza di dettagli, la immagine del Palazzo, del giardino, del lago, quali li avrebbe veduti fra due ore, fra un'ora e tre quarti, fra un'ora e mezzo. Ne provava una contrazione nervosa, pensava chi avrebbe veduto prima, quali parole avrebbe udite, come si sarebbe comportato con lei. E se il conte non avesse nulla, se fosse un inganno! Ad ogni svolta della via tutti questi pensieri lo martellavano più forte. Tratto tratto ne balzava fuori, rinnovando il proposito di andar ciecamente, a coscienza muta, là dove lo portassero la occulta violenza delle cose e le passioni sue libere, oh sì, libere finalmente dopo tante stolte lotte inutili che non gli avevano conciliato né gli uomini né Dio. Non era una strada quella striscia bianca, nitida innanzi a lui, fumante di polvere alle sue spalle; era una furiosa corrente che non risale, una corrente da seguire oramai nel piacere e nel dolore sino a qualunque abisso, tanto più avidamente bramato quanto più profondo. Attraverserebbe forse qualche ora splendida come quel magico paese lì, quel verde poema ariostesco di folli colline che dalle montagne saltavano al piano in disordine, portando in collo e sui fianchi ville, torri, giardini, inghirlandate di vigneti, curve intorno a laghetti pieni di cielo. E poi...
«Dica un po' Lei, signore» saltò il vetturino «è vero che lo sposo ha questo gran mucchio di denari?»
«Non lo so.»
«Ma lo conosce, però, Lei?»
«No.»
«Vedo. Io l'ho visto un paio di volte, ma stando al mio poco talento di me, dev'essere un... Che pazzia, un fior di ragazza come quella lì! Segno che i denari son tanti. E io devo esser nato pitocco! Ci promettono sempre il mondo di là, a noi; ma io ci ho una maledetta paura che sia ancor peggiore di questo. Se in paradiso non si hanno a trovare che preti, vecchie, bambini da mammella e straccioni, caro il mio signore, è proprio mica il mio sito. Ih!»
Egli tirò una frustata rabbiosa alla povera bestia che toccava allora una strada selciata fra due file di case, l'ultima borgata sulla via del Palazzo.
Faceva caldo. La cavalla si fermò davanti a un'osteria e il suo padrone gridò che gli portassero il solito «calamaio e inchiostro».
«E così» disse l'ostessa che venne a servirlo «è morto, eh?»
«Chi è morto?».
«To', il signore, là del Palazzo.»
«Chi l'ha detto!» esclamò Silla, pallido.
«L'uomo della Cecchina gobba che è passato adesso, saranno cinque minuti. L'hanno mica incontrato?»
«Andiamo, presto!» disse Silla.
«Andiamo pure» rispose il vetturino rendendo il bicchiere all'ostessa «ma se è andato avanti lui, per me non gli corro dietro.»
«Presto, ti dico!»
L'altro si strinse nelle spalle e frustò la cavalla.
«Morto!» disse tra sé Silla. «E io che non ci pensavo nemmeno, a lui!»
Si rimproverò acerbamente questa dimenticanza di egoista, e gli riempì il cuore una dolorosa tenerezza per l'intemerato amico della madre sua, per il vecchio severo che gli aveva aperto le braccia in nome d'una memoria santa. Egli lo aveva offeso con la sua fuga occulta dal Palazzo; lo sapeva per una lettera ricevutane subito dopo, a Milano. Non ne provava rimorso, parendogli aver operato allora onestamente; ma pure gli era acerbo che il conte fosse sceso nella tomba con questo risentimento. Morto! Mezz'ora ancora e vedrebbe il Palazzo, tetro, solenne, pieno di freddo e di silenzio, circondato dalle austere montagne; come uno a cui la morte portò via qualche persona cara, siede impietrato dal dolore fra gli amici muti. E le proprie avversità incomportabili, come le sentiva ora, nello stupore di quell'annuncio, stranamente attenuate! Una porta segreta gli si era spalancata davanti improvvisamente; non vi si vedeva che ombra; ma ne spirava un'aria fredda, piena di calma. Godere, soffrire, amare, quanto durano? Ove finiscono? E, sovra tutto, cosa ne resta?
Il cuore gli batteva forte forte quando dal colle dell'ultima salita cominciò a discendere verso il lago, che si vedeva luccicare in fondo alla valle tra le frondi dei vecchi castani.
A mezzo il viottolo che dalla strada provinciale mette al giardino c'era il Rico, grave, col berretto in mano.
«Dunque?» disse Silla.
«Sempre lo stesso» rispose il ragazzo.
«Ah, è vivo?»
«Signor sì, signor sì. Adesso ci sono già i signori dottori.»
«Quali dottori?»
«C'è il nostro, quello nuovo, e il signor padre Tosi. È arrivato da Lecco stamattina. Aspetti. Ci ho un biglietto per Lei dalla signora donna Marina. Lei non deve dire a nessuno che ha trovato me, e io ho da dir niente che ho trovato Lei.»
Silla prese il biglietto che non aveva indirizzo. Non poteva venir a capo d'aprirlo, tanto le mani tremavano. Finalmente lo aperse e vi lesse. «Silenzio sul telegramma». Intanto il Rico mise un fischio acutissimo.
«Perché, silenzio?» pensò Silla, «e come è possibile?»
Ripose il biglietto e chiese al ragazzo della malattia del conte. Il conte non si sentiva bene da qualche tempo. La mattina del giorno prima era stato trovato a terra, fra il suo letto e l'uscio, svenuto, con la fisionomia stravolta. Soccorso, si era un po' riavuto. Però la Giovanna diceva che non aveva più ricuperato la parola né l'intelligenza. Era una testimonianza gravissima che colpì Silla. Se il conte non parlava né intendeva, come spiegare il telegramma di Cecilia? Poteva esserci stato un lucido intervallo. Ma se il telegramma era menzognero, si spiegava bene il biglietto.
«Chi c'è adesso nel Palazzo?» diss'egli.
«C'è il signor sposo, la sua signora mamma, la signora Catte, un signore vecchio di Venezia, che è poi uno dei signori compari, e un altro signore che è stato qui ancora quando c'era Lei.»
«Finotti?»
«Signor no.»
«Ferrieri?»
«Signor no.»
«Vezza?»
«Vezza, signor sì, Vezza, che è poi l'altro compare.»
Il cancello del giardino era aperto. Il Rico si cacciò fra gli abeti e scomparve. Silla discese verso la scalinata.
Ed ecco i cipressi, la voce quieta del fonte, ecco laggiù, tra il verde vigneto e il verde lago scintillante di sole, i tetti neri del palazzo. La voce uguale diceva nel gran silenzio del mezzogiorno: «Lo so, lo so, l'ho saputo sempre, egli è qui ancora, non v'è stupore per l'acqua indifferente che passa senza posa. So la sua storia, so il suo destino e quello di Lei e quello dell'uomo che giace nella stanza buia, nell'ombra della morte. Lo so, lo so. So qual mistero hanno nel cuore colui che più non parla e la donna che palpita, sola, con la fronte appoggiata all'ebano freddo, agli avori dello stipo antico. Questo non può turbare la mia pace. Va, va discendi, confondi ad altre parole il suono delle tue, ad altre passioni il rivo torbido di quelle che gitta il tuo cuore finché passino e si dileguino insieme. Tutto questo è simile alla mia sorte. Lo so, lo so, lo so».
Arrivato all'ultimo ripiano della scalinata, vide la Giovanna attraversar la loggia in punta di piedi e a capo chino, dall'ala destra alla sinistra. La vide levare il braccio a un gesto sconsolato in risposta a qualcuno che le era venuto incontro, e tirar via.
Nel cortile non c'era nessuno. Nel vestibolo, neppure. Salendo le scale Silla udì camminare in alto e, a intervalli, una voce maschia che parlava forte. Un domestico venne su, correndo, dietro a lui, lo inquadrò nel passargli a fianco, lo salutò meravigliato, lo accompagnò sino alla porta del salotto da cui usciva la voce forte. Silla si dispose di veder Marina; entrò.
Marina non v'era. V'erano la contessa Fosca, suo figlio, il comm. Vezza, un altro signore attempato vestito di nero e il padre Tosi dei Fatebene-fratelli, che Silla conosceva di vista, un bell'uomo maestoso, sui cinquanta, dalla gran fronte piena d'anima, dal profilo falcato, dagli occhi pregni di volontà veemente e di umorismo bizzarro. Egli diede appena un'occhiata allo sconosciuto che entrava e continuò a parlare col comm. Vezza. Il signore attempato si alzò rispettosamente, la contessa Fosca e Nepo si guardavano attoniti, il Vezza inarcò un momento le sopracciglia e fece un freddo cenno di saluto.
Per fortuna entrò la Giovanna. «Ah, caro Signore!» diss'ella «il signor Silla!» Ella gli andò incontro con gli occhi lagrimosi e le mani giunte sul petto.
«Ah, come ha fatto bene a venire! Dev'essere stata la Provvidenza che gliel'ha posto in cuore. Venga a vederlo! Può venire, signor padre Tosi?...»
«Per carità, cosa vi pensate, Giovanna?» esclamò la contessa. «Bisogna lasciarlo quieto.»
«Lasciarlo quieto, quieto per carità» ripeté Nepo.
Silla si voltò al frate, che guardò un momento la Giovanna con singolar espressione di dolcezza, e disse quindi a Silla bruscamente:
«Lei conosce l'ammalato?»
«Sì, signore.»
«Se le fa piacere di non conoscerlo più e di non esserne conosciuto, vada pure. Per l'ammalato fa lo stesso, finora.»
La Giovanna fece un gesto supplichevole.
«Cara vecchia!» disse il frate. «Conducilo pure, ma non bisogna mica mettere tanto in moto la Provvidenza. Cosa fai?»
Quest'apostrofe era diretta al cameriere che gli disponeva davanti, sulla mensa, un gruppo scintillante di vasellami d'argento e di cristallo.
«Per qual frate mi pigli? Portami un pane e un bicchier di vino.»
«Mi pare un'imprudenza» insistette Nepo vedendo la Giovanna uscir con Silla.
«Se fosse un'imprudenza non l'avrei permessa» rispose il frate.
«Ci farei un bacio» diss'egli al Vezza «ci farei un bacio a quella vecchiettina, povero topolino bello, che trotticchia sempre di qua e di là, con quella cuffiettina a punta, con quella faccetta piena di magon. È una bellezza.»
La contessa lo guardava con tanto d'occhi.
«Che tomo ch'el xe!» diss'ella al signore attempato, mentre il frate si sbrigava rapidamente della parca refezione. «Bisognerebbe anche ridere se si potesse. Non La parte mica subito, padre?»
«Non lo so» rispose asciutto il frate.
«Eh, perché si diceva che La volesse partir subito.»
«Si diceva.»
«Ma non La parte più?»
«Non lo so.»
«De dia!» mormorò la contessa indispettita.
«Signora» disse il frate con forza e solennità «la malattia, l'ho già detto, è semplicissima. Una emiplegia destra. L'ammalato può riaversi o morire di questo primo assalto, come Dio vorrà. La causa della malattia è oscura e io vorrei conoscerla, onde, se l'ammalato guarisce, impedire una ricaduta.»
«Ma, oh Dio, la causa, benedetto...»
Il frate le piantò in viso due occhi sfolgoranti.
«Sì, non serve, caro, che La mi tiri quegli occhi» saltò su la contessa inasprita. «Ella è una cima di professore ma ne ho conosciute anch'io delle cime e ho sempre udito dir loro, che, quanto a cause di malattie, è un brutto discorrere.»
«E poi lo zio non può parlare» disse Nepo.
«Signora» rispose il frate senza badare a costui «il padre Tosi non è una cima e ha fatto due grandi corbellerie; ha voluto esser medico, ha voluto esser frate; ma L'avverto che se si fosse fatto commissario di polizia, sarebbe diventato grande. Ho l'onore.»
Egli si toccò la calotta, si alzò e uscì.
«Bel discorso!» disse la contessa. «Mi pare un bel matto! E quell'altro? Come è capitato qua quell'altro? Non capisco. Vedete» diss'ella, volta al signore attempato «colui è quell'amigo. Vi ricordate, che v'ho raccontato, quel tale che si temeva... sì, mi capite. Vi pare un bel momento di venire qua? Ed era convenienza, domando io, che quella pettegola di quella siora Zanze lo facesse entrare in camera così sui due piedi? Per carità, per amor del cielo, Zorzi, non andate via, non piantatemi qua. Non la può andar lunga, si capisce.»
«Come posso fare, dama?» rispose il vecchio cavaliere giungendo le mani. «A Venezia mi aspettano fra due giorni.»
«Zitto!» disse Nepo accostando l'orecchio alla porta ond'era uscito il frate.
Il signor Zorzi tacque. La contessa Fosca guardava suo figlio, ansiosa, trattenendo il fiato.
«Niente» disse Nepo, scostandosi dall'uscio.
«Cosa c'era?» chiese la contessa.
«Mi pareva udir parlare, ma non è stato vero. Senta, avvocato; come intende Lei quel discorso di quel cialtrone di frate sul commissario di polizia? Che intende dire? Che siamo assassini? Che rubiamo? È una cosa intollerabile.»
«Oh no» rispose il signor Zorzi «si capisce che è uno strambo, che tante volte gli vien da dire una spampanata, e lui, fuori!»
«Commissario di polizia! Bel discorso» ripeteva Nepo camminando a gran passi su e giù per la stanza e facendosi vento.
Un uscio si aperse pian piano, ne spuntò il naso di Catte.
La contessa Fosca e Nepo corsero a lei. Si mosse anche l'avvocato, ma sostò riguardoso qualche passo indietro dagli altri due che scambiarono con Catte poche parole sommesse. Catte si ritirò, l'uscio fu chiuso; madre e figlio si voltarono accigliati all'avvocato che chiese premurosamente:
«Dunque?»
«Niente, fio» rispose la contessa sconsolata. «Non mi vuole.»
«Neppure Lei, contessa?»
«Ma no. Oh Dio, hanno da toccare a me queste storie. Ne capite qualche cosa Voi?»
«In coscienza, contessa, non potrei dir di sì.»
«Ah, qua bisogna finirla, qua bisogna finirla. Nepo mio, bisogna che tu La veda, per amore o per forza; bisogna che tu Le parli, che La si spieghi, che si sappia se La è malata, cosa La pensa, cosa La vuole; sapere, insomma, in nome di Dio, sapere!»
Nepo scosse l'occhialino dal naso. «Tu non capisci niente» diss'egli.
«Zitto!» soggiunse vedendo ch'ella voleva parlare, e continuò col suo fare cattedratico: «Non facciamo sciocchezze. Non c'è da insistere. Non si farebbe che irritare. Io ho abbastanza cuore, cara mamma, per comprendere che bisogna rispettare in questi momenti il dolore di una nipote affettuosa. Vorrà che si ritardi il matrimonio! Sia. Non son mica, avvocato, un ragazzo impaziente. Capisci bene cara mamma, un giovinotto...!»
L'avvocato ebbe negli occhi, guardando la contessa, un lampo d'ironia e di pietà.
Nepo gli si avvicinò, lo pigliò per un bottone del soprabito, gli parlò mettendogli quasi il naso sul viso:
«Ella che a tanta probità congiunge tanta oculatezza e comprende così bene fino a qual punto possano andare insieme i legittimi interessi e le convenienze, Ella non vorrà certo censurarmi se io dico che un altro grave affare si impone in questo momento. Io sono disinteressato, premetto; ma... Bravo!» esclamò, ritirando la mano e il naso. «Vedo che mi capisce. L'obbligazione, capperi! Io prego Dio che conservi lo zio al nostro amore per lunghi anni, ma se succede una disgrazia! L'obbligazione a mio favore doveva essere sottoscritta ieri mattina. Sarà più in grado di sottoscriverla? Ci vuole una sorveglianza d'ogni ora. Non bisogna lasciar passare un lucido intervallo!»
«Sì, ma, ohe» disse l'avvocato serio serio «patto avanti, che sia lucido questo intervallo; patto avanti, che sia molto lucido; e che ci sia il dottore; sì, perché tutto va bene, ma che non andiamo in un imbroglio.»
Si udì la voce di padre Tosi che parlava in loggia.
«Vado a vedere dello zio» disse Nepo; e uscì.
«Dopo tutto» disse la contessa «mio fio aveva ragione con quell'affare del commissario di polizia. È stato un bel tiro, sapete.»
«Altro se è stato un bel tiro! Parlerò io a quel signor frate, se la contessa permette.»
«Sì, sì, fate, parlate, tutto ciò che volete. Oh Dio, Zorzi, che monte di pasticci! Qua non si sa in che mondo si sia. Qua non si capisce niente. Qua ci si marita e non ci si marita. Qua non c'è ora di mangiare, qua non c'è ora di dormire. E tutto, in nome di Dio...! Oh che vita, oh che vita!» Entrò il cameriere a sparecchiare. Non si sbrigava mai; pareva che giocasse con le posate e il vasellame.
«Andate là, andate là anche voi, Zorzi» disse la contessa. «Io vado a riposare un pochetto. Non ho chiuso occhio stanotte, non ne posso più. E tu chiamami Catte, benedetto. Zorzi» diss'ella poi che il cameriere se ne fu andato in cerca di Catte «guardate di cavarci qualche cosa a quel signor Silla.»
Silla non era entrato subito dal conte. S'era fatto prima raccontar dalla Giovanna i casi di quei due giorni. Povera Giovanna! Parlava con una fioca voce accorata che pareva venir da lontano, da lontano, da un mondo di dolore.
Il matrimonio era stato fissato per la sera del 29. La signora donna Marina, all'ultimo momento, lo aveva fatto differire al mattino del 30. Però la sera del 29 vi erano stati ugualmente i fuochi sul lago e la musica. Il conte vi si era divertito e stava secondo il suo solito. Giorni addietro aveva sofferto di un leggero malessere, ma non ne parlava più. Di aspetto era giù, questo sì, ma da un pezzo, oh, da un gran pezzo! La Giovanna ebbe una reticenza espressiva; pare che facesse risalire, nel suo pensiero, questo crollo del conte all'epoca in cui Silla aveva lasciato il Palazzo. Insomma quella sera non c'erano novità. Il matrimonio si doveva fare alle sette del mattino. Alle cinque Giovanna aveva dovuto entrare dal conte per certe chiavi e lo aveva trovato a terra semivivo, con tutti i segni dell'apoplessia. A questo punto del suo racconto, fosse commozione o altro, s'interruppe. Ripigliò dicendo che s'eran chiamati subito il medico e il parroco; che il primo, un brav'uomo succeduto da pochi mesi al vecchio dottore, giudicando il caso gravissimo, aveva chiesto subito un consulto, e consigliato di provvedere alle cose di religione. Purtroppo non c'era né parola né intelligenza; il parroco non aveva potuto far altro che amministrare l'olio santo. Fatalmente il padre Tosi non era stato trovato nella sua residenza, e non era venuto che un paio d'ore prima di Silla. Durante la giornata il conte non aveva migliorato né peggiorato. Alla sera il medico era stato contento di trovare un po' di febbre che si era forse anche accresciuta nella notte. La fisionomia pareva alquanto ricomposta, l'occhio era meno vitreo, e anche le labbra, ogni tanto si provavano di articolare qualche parola. La Giovanna sperava che se potesse riconoscere Silla, ne avrebbe un gran conforto. «Non può averne altri» diss'ella.
«E il matrimonio?» chiese Silla.
«Ah signore!» rispose la Giovanna. «Non so niente. La signora donna Marina non ha mai posto piede fuori della sua camera dal 29 di sera in poi. Pare che sia ammalata perché ieri mattina s'è fatta portare una quantità di ghiaccio. Non vuol vedere né il suo fidanzato né la signora contessa. Da lei non ci va che la sua cameriera e il ragazzo; sa, il barcaiuolo. Oh Signore, per me già desidero solo che guarisca il signor padrone e poi per tutto il resto...! Venga, venga. Chi sa come sarebbe contento se lo potesse riconoscere!»
Appena si vedeva, entrando nell'afa della camera, la testa dell'infermo come una macchia oscura sul cuscino biancastro, e seduto, presso alla finestra socchiusa, il medico curante. La Giovanna si accostò al letto con Silla, si chinò su quella povera testa e sussurrò qualche parola. Il conte guardò Silla con due occhi torbidi, poi si volse lentamente a Giovanna e mosse le labbra. Ella vi accostò l'orecchio, raccolse a stento questa parola:
«Beive.»
Per lunghi anni non gli era venuta alla bocca parola alcuna nel dialetto natìo, se non in qualche momento di sdegno; tornavano adesso nelle ombre sinistre della morte. La malattia fulminea lo aveva atterrato, spogliato in un secondo della sua forza imperiosa, della sua intelligenza rapida, della sua memoria tenace di tante cose, di tante persone: lo aveva risospinto dalla forte vecchiaia alla infanzia radendogli dalla mente tutto, fuor che le prime voci apprese ne' primi anni.
La Giovanna gli diede da bere, poi tentò di richiamare la sua attenzione a Silla.
«Basta» disse la voce del medico nelle tenebre.
La donna uscì con Silla, accorata. Incontrarono il frate nel corridoio.
«E così» diss'egli. «Niente, eh? lo sapevo bene.»
«E cosa ne dice?» gemette la Giovanna.
«È presto, cara la mia tosa. Bisognerebbe sapere se avremo o no un secondo attacco. Certo occorre che il giuoco non si rinnovi, altrimenti me lo ammazzano di colpo. Ci hai detto nulla a questo giovinotto?»
«Signor no.»
«Bene, senti, Giovanninetta, vorrei che mi accompagnassi a veder la casa. Dopo mi farai preparare una sedia in loggia perché possa fumare un poco. Se non fumo, tra un quarto d'ora scoppio.»
Mentre Giovanna e il frate giravano per la casa, Silla, appoggiato alla balaustrata della loggia, guardava il lago verde dormente al sole. Eran proprio passati tanti mesi? Le montagne, la quiete profonda lo riprendevano come cosa loro; e gli pareva non essere mai andato via, aver sognato Milano, un lungo inverno, penosi pensieri. Ma dalle pietre, dalle vecchie pietre austere prorompeva subito il vero presente, lo sgomento che una malattia mortale diffonde intorno all'uomo colpito, sopra tutto la immagine di lei, che, tenendosi nell'ombra, empiva la casa di sé. Perché si nascondeva? gli pareva ad ogni momento udirne il passo, il fruscìo delle vesti, veder avanzarsi da quella parte quella sua bellezza altera e fantastica. E si voltava a guardare la loggia vuota, stava in ascolto.
Eccola, forse! No, era l'amico dei Salvador, l'avvocato Giorgio Mirovich. Passò camminando in punta di piedi, salutò Silla con un cerimonioso «servo» e s'avviò verso la camera del conte. Ne ritornò subito e chiese a Silla, parlando mezzo veneto, mezzo italiano, se avesse visto quel signor frate. Avutane risposta che era in giro per la casa con la Giovanna, soggiunse: «ha un certo linguaggio quel signor frate!» e si fermò lì a conversare. Perla d'onest'uomo, ma cortigianescamente devoto alla contessa Fosca, antica fiamma, aveva modi quando burberi, quando cerimoniosi, un parlar franco, e insieme cauto. Mirava a scoprire come Silla avesse risaputa la malattia del conte. Silla gli disse che se ne parlava da tutti nei paesi vicini e ch'erano persino corse voci di maggiore sventura. Non lasciò intendere dove precisamente avesse attinta la notizia egli stesso né di dove fosse partito quella mattina, benché non dubitasse che per mezzo del vetturale lo si avrebbe facilmente conosciuto. L'avvocato, a cui ripugnavano le investigazioni oblique, uscì presto di argomento. Confidò a Silla la profonda avversione per quei luoghi inospiti, per le montagne dritte come muri, per quella casa della malinconia. Anch'egli, come la sua vecchia amica, non ne poteva più; non vedeva l'ora di sentirsi gridare «sià premi» e «sià stali» sotto le finestre.
Finalmente il frate ritornò e Silla discese in giardino.
V'era il commendator Vezza che si divertiva a gettare del pane ai cavedini. Silla lo evitò, attraversò il cortile per uscire dal cancello. Passò accanto alla porticina della darsena, guardò le barche, guardò su per la scaletta segreta che serve all'ala destra del Palazzo. Vuoto e silenzio. Oltrepassò il cancello e, fatti pochi passi sulla strada di N... si voltò.
Lassù la nota finestra d'angolo era chiusa. Il sole, declinando, batteva sulle persiane, sulla grande muraglia grigia, scintillava sulla magnolia lucida del giardinetto pensile. Di vita umana non vi era indizio. Silla fece un lungo passeggio vagando per i sentieri più solitari e tornò al Palazzo dalla stessa parte. La finestra era ancora chiusa benché il sole non battesse ormai più che sui tetti. Silla rientrò in casa, con il presentimento che Marina non avrebbe dato segno di vita durante il giorno, ma che la vedrebbe nella notte.


2. Un mistero

Il pranzo fu triste. Il padre Tosi si alzò da tavola subito dopo la minestra per andare dal conte, e non ritornò più. La contessa e Nepo mangiavano compunti. Il signor Vezza aveva voglia di chiacchierare, temendo che quel silenzio malinconico gli preparasse una digestione laboriosa. Scelse a interlocutore l'avvocato Mirovich e gli parlò di Venezia, de' suoi amici di colà, del caffè e pannera in gelo, dell'Istituto Veneto e delle gondole, tirando in mezzo Virgilio per amore o per forza:

Convolsum remis, rostrisque tridentibus aequor.

L'avvocato si seccava e rispondeva corto, ma il commendatore tirava via a ronzare, fra un boccone e l'altro, arrischiando qualche sorriso, tanto sano a pranzo. Silla taceva come i Salvador. La contessa lo squadrò ben bene fin dalla minestra, nel chinarsi sul cucchiaio, e poi ogni volta che il cameriere gli presentava le vivande. Ella soffriva evidentemente di dove tacere, gittava a Nepo delle occhiate espressive, che dicevano «parlo, non ne posso più» ma Nepo la fissava con i suoi grossi occhi miopi, le chiudeva la bocca.
Alla fine del pranzo venne la Giovanna, le disse all'orecchio che il padre Tosi si disponeva a partire e desiderava avere prima un colloquio colle persone di famiglia, com'era inteso col signor avvocato.
«Avvertite la marchesina» rispose Fosca.
«L'ho già avvertita, ma dice che non può venire.»
«Ditele che si andrà noi da lei.»
«Oh, ha già detto che non vuol nessuno.»
Silla si levò subito da tavola e, fatto un tacito saluto, se n'andò.
«L'ha capita» disse Nepo. «Potete dirci voi, Giovanna, come è venuto quel signore lì e chi gli ha detto di fermarsi?»
«Come sia venuto non lo so. Di fermarsi, magari l'ho pregato anch'io perché so che al signor padrone gli è tanto rincresciuto quando è andato via e ho idea che se lo potrà riconoscere, gli farà tanto bene di vederlo. Mi aveva fin detto il signor padrone di tenergli la stanza sempre pronta pel caso che avesse a ritornare.»
«Voi non dovete pregarlo niente affatto» disse Nepo. «In questa circostanza dovevate prendere gli ordini dalla marchesina e quasi anche i miei, posso dire. E adesso avvertite il padre che noi lo aspettiamo nella camera della contessa Salvador. - Anche Lei, sa, commendator Vezza, come amico di mio zio. Intendiamoci, amico vero; perché certi altri amici non li pareggerei davvero alle persone di famiglia.»
Il commendator Vezza, felice nella sua curiosità, fece un cenno di gradimento.
Il frate entrò subito dopo gli altri nella camera della contessa e, toccandosi la calotta, sedette, senza aspettare invito, sopra un seggiolone a fianco del canapè dove la contessa Fosca, irrequieta, sgomentata, batteva nervosamente sulle ginocchia il suo gran ventaglio chiuso. L'avvocato Mirovich, imbarazzato, guardando ora il frate, ora il pavimento, cominciò a dire:
«A spiegazione delle parole... delle parole... non chiare, ecco, delle parole non chiare che il padre ha pronunciato stamattina in presenza del conte, della contessa e... sì, infatti, di altre persone... egli desidera fare alcune comunicazioni, non é vero? alcune comunicazioni circa la malattia per la quale venne invitato a consulto.»
«Cioè» disse il frate «desidero! Niente affatto, desidero. È mio dovere. Io vado per le corte, signori, e chiamo le cose col loro nome. Il mio dovere è d'informare Loro signori, che, a mio avviso, il conte d'Ormengo è stato...» Prima ch'egli compiesse la frase la contessa Fosca lasciò cadere il ventaglio. Nepo si alzò in piedi. Gli altri due non si mossero.
«Assassinato» disse lentamente il frate, dopo un istante di esitazione, levando gli occhi a Nepo con il pugno sinistro sopra una coscia e l'avambraccio destro attraversato all'altra.
«Oh Dio, oh Dio, oh Dio!» gemé la contessa spalancando tanto d'occhi spaventati. Nepo alzò le braccia, mise un'esclamazione d'incredulità sdegnosa. L'avvocato procurava di chetarli con gran gesti, diceva con le mani e il capo che non si spaventassero, che aspettassero. Nepo cedette; ma la contessa ripeteva «oh Dio, oh Dio!» sempre più forte e scoppiò in lagrime.
«Ella poteva essere più prudente, padre» osservò bruscamente il Mirovich accostandosi alla contessa per sostenerla e farle animo.
«Santo Dio benedetto» singhiozzava costei. «Questi orrori... di parole!... Dopo pranzo anche!»
«Signora mia» disse il frate «l'interesse dell'ammalato vuole che si parli chiaro e presto. Io poi ho l'abitudine di dire la verità anche dopo pranzo.»
«Continui, continui!» esclamò l'avvocato. «Si spieghi presto.»
«Lo avrei già fatto se il signore e la signora fossero più pazienti. Non intendo dire che si sieno adoperati armi o veleno. Un ragazzo conosce l'apoplessia; nel nostro caso si tratta veramente di apoplessia. Dico "assassinato" perché sono convinto che vi è nell'origine di questo male l'azione violenta d'una persona.»
«Questo è assurdo!» gridò Nepo.
«Lei è assurdo, signor mio bello» riprese il frate, battendo le sillabe ad una ad una e guardandolo tra ironico e serio. «Lei è assurdo. Io, per esempio, sono malato di cuore e non Lei, ma le persone che amo possono uccidermi senza veleno né armi.»
«Dunque Lei dice...» suggerì il Vezza per tagliar corto alla discussione irritante.
«Io dico» rispose il frate «che l'ammalato fu colpito d'apoplessia durante un'emozione violenta, terribile.»
«Ma cosa? ma come?» chiese la contessa tutta lagrimosa. «In nome di Dio, come? Non la ci tenga qua sulla corda per tanto tempo! La parli, che Dio la benedica. Ci vuol Ella far morire a once?»
«Prima di proseguire» disse il frate «vorrei sapere se tutte le persone della famiglia sono presenti.»
Nessuno parlò.
«Ci sono tutti?» ripeté il frate.
Qualcuno disse piano:
«Manca la marchesina.»
«La marchesina, mia promessa sposa» disse Nepo enfaticamente «è indisposta.»
«Come si chiama questa marchesina?» chiese il frate.
«Marchesina Crusnelli di Malombra.»
«Il nome, il nome di battesimo!»
«Marchesina Marina» disse Nepo.
Il frate tacque un momento, poi soggiunse:
«Marina. Non ha altri nomi?»
«Sì. È Marina Vittoria. Ma che importa?»
«Importa molto, signor conte. Moltissimo importa. Come si chiamano le donne di servizio che sono in casa, oltre a Giovanna?»
«Catte, intanto» rispose la contessa.
«Fanny» suggerì il commendator Vezza. Nessun altro nome fu pronunciato.
«Dunque» continuò il frate «non v'è donna in casa che abbia nome Cecilia?»
«No» risposero tutti, uno dopo l'altro.
«Ebbene, io sono convinto che l'altra notte una donna, una Cecilia, é entrata nella stanza del conte Cesare e lo ha spaventato, lo ha irritato a morte.»
Nessuno fiatò. I Salvador, il Vezza guardavano il frate a bocca aperta; il Mirovich teneva gli occhi bassi, il mento sul petto; pareva sapesse già da prima quello che il frate veniva dicendo. Questi si alzò e andò a piantarsi in mezzo alla camera.
«Ecco» diss'egli accennando alla parete sinistra «quello è il letto; il conte fu trovato qui in camicia, bocconi sul pavimento, con le braccia distese verso l'uscio. Questo lo sanno anche Loro signori. Ma vi sono delle altre cose che non sanno. L'uscio del corridoio, che il conte chiude sempre quando va a letto, era aperto. Sul letto fu trovato da Giovanna un guanto, questo.»
Egli trasse di tasca un guanto piccolissimo. Il Vezza e Nepo lo afferrarono insieme, corsero alla finestra per esaminarlo bene. Nepo esclamò subito:
«Buon Dio, non è un guanto. Fu, chissà quando, un guanto 5 1/4 o 5 1/2, a un sol bottone; un guanto da ragazzina di dodici anni: adesso è un cencio scolorato, ammuffito.»
«Bene, quel cencio, che non può appartenere al conte, non cadde sul suo letto, ma vi fu gettato, perché il letto è assai largo e il guanto si trovò confitto fra il capezzale e la parete. Il candeliere del conte, lo smoccolatoio, la tazza che egli è solito tenere sul tavolino da notte, si trovarono sparsi a terra, presso l'uscio. Deve averli scagliati lui in un impeto d'ira dopo aver cercato invano, a tastoni, gli zolfanelli che dovette rovesciare dal tavolino perché si trovarono disseminati a piè del letto. La tazza fu certo scagliata, ed era piena d'acqua, perché se ne trovarono spruzzi sul pavimento, se ne trovò bagnata la manica destra della camicia del conte. Io poi vado avanti, e siccome la tazza era tuttavia intera, dico che percosse un corpo molle e cedevole, tale da spegnere il colpo e da render possibile ch'essa cadesse a terra senza spezzarsi. Cosa poté essere? Ma è evidente cosa poté, cosa dovette essere. Dovette essere l'abito a cui apparteneva questo bottone.»
Nepo afferrò il bottone che il frate gli tendeva. Era un grosso bottone coperto di stoffa azzurra e bianca. Nepo lo riconobbe subito. Apparteneva a una veste da camera di Marina.
«Hum! Non lo conosco» diss'egli guardandolo attentamente.
«La signora forse potrebbe dircene qualche cosa. Faccia vedere alla signora.»
«La contessa, vuol dire? Oh non lo conosce certo. Non è vero, mamma, che di queste cose io m'intendo più di te? Non è vero che se avessi veduti anche una volta sola bottoni simili addosso a qualche persona di casa, adesso riconoscerei questo?»
La contessa Fosca ardeva di vederlo e leggeva in pari tempo negli occhi di Nepo un divieto. Non sapeva risolversi.
«Oh Dio» diss'ella «questo sì, sei famoso. Ma... in due... ah? Un'occhiata ce la posso dare anch'io, no?»
«Figurati» rispose Nepo, e le parlò con gli occhi fissi. «To'» diss'egli «guarda pure. È inutile, già.» La contessa prese il bottone, si alzò dal canapè, e andò alla finestra dove s'indugiò qualche tempo, toccando quasi colla fronte i vetri, voltando le spalle agli altri che tacevano e aspettavano tutti in piedi, immobili.
Ella si voltò, finalmente, porse il bottone a Nepo, disse al frate, che la guardava col capo chino e le mani sui fianchi:
«Niente.»
Il frate non parlò né si mosse. La guardava sempre. Osservava come ogni curiosità fosse interamente scomparsa da quel volto mentre la bocca diceva: «Non ho inteso».
«Proprio niente» ripeté la contessa con voce tranquilla.
«Dove fu trovato?» chiese frettolosamente Nepo.
Il frate durò a girar gli occhi, tacendo, sulla contessa che tornava al canapè. Quindi si scosse e rispose a Nepo:
«Fu trovato nel pugno chiuso del conte, nel pugno sinistro. Avranno veduto un piccolo brandello di stoffa attaccato al bottone? È chiaro che fu strappato dall'abito a forza.»
«Eh, sì» disse l'avvocato.
Il Vezza gli lanciò un'occhiata ironica. Il sagace commendatore sospettava che il bottone fosse stato riconosciuto e giudicava quindi prudente non interporsi in quel momento fra il Salvador e il frate.
«La Giovanna» proseguì costui «che è entrata per la prima nella camera, ha osservato parte di queste cose, senza capire. Prima ha creduto a un ladro, cosa inverosimile; poi ha trovato chiavi, danari, portafogli intatti sul cassettone dove sono ancora adesso; dunque, ladri no. Allora ha pensato che il conte, sentendosi male, avesse voluto chiamare, uscire in cerca d'aiuto: cosa assurda perché non si spiegano, lasciando stare il guanto, neppure la tazza e il candeliere gittati lontano: non si spiega sopra tutto che il conte non ubbia suonato il campanello. A ogni modo la Giovanna ha inteso, così confusamente, che c'era del mistero. Non ha parlato a nessuno per non sparger inutilmente sospetti temerari, ma si è confidata a me, forse per l'abito che porto. Io allora ho fatto questo.»
La contessa, Nepo, il Vezza pendevano dal suo labbro; non respiravano neppure.
«L'intelligenza dell'ammalato è oscurata, moltissimo oscurata: tuttavia qualche barlume, da ieri sera in poi, mi dice il medico curante, ne appare ancora. Quando io ho saputo queste cose, ho esaminato bene bene la Giovanna, ho fatto le mie induzioni e mi sono formato il mio convincimento. Poi ho interrogato l'ammalato.»
Il gran ventaglio della contessa Fosca le uscì di mano, le cadde dalle ginocchia. Né lei si piegò né altri si mosse a raccattarlo.
«Ho dovuto interrogarlo, per la sua condizione, a più riprese. Già non si poteva pretendere che rispondesse più di sì e no. Ho cominciato con domandargli se qualcuno era stato in camera durante la notte. Niente. Ho ripetuto la domanda. Era forse troppo lunga; mi guardava e non tentava neppure di rispondere, né con le labbra né col capo. Allora ho provato a dirgli addirittura: "Un uomo?". Non risponde ancora. "Una donna?" Oh! L'occhio e le labbra si muovono, qualche cosa vogliono dire. Lo lascio quieto un'ora. Intanto ci fu progresso nelle condizioni della intelligenza e della lingua. Domandò alla Giovanna da bere. Appena partito il medico tornai alla prova. Dico: "Il nome di quella donna!" Non mi risponde, ma un momento dopo, mentre mi chinavo sopra di lui con un cerino per esaminare la cute, si mette a fissarmi e a tartagliare. Gli accosto l'orecchio alle labbra, mi par di capire: "famiglia"; io suppongo che desideri veder loro, gli rispondo qualche cosa, gli dico di star tranquillo. Egli seguita; l'ascolto ancora, credo intendere un'altra parola, provo a dirgli: "Cecilia?". Tace subito, e vorrei, signori, che aveste veduti quegli occhi come si dilatarono, come mi riguardarono, quale espressione prese il viso sfigurato di quell'uomo. Adesso un'altra cosa. Chi dorme nell'ala destra del palazzo, oltre il conte?»
«Perché domanda questo?» disse Nepo.
«Posto che una persona, oltre l'ammalato, dorma nell'ala destra del palazzo, questa persona...», il frate alzò la voce ed aggrottò le sopracciglia, «molto più se indisposta, deve avere udito, deve sapere qualche cosa. Consiglio Loro signori di interrogarla bene.»
«Io ho l'onore di assicurarla, padre» disse Nepo acceso in volto, parlando ex cathedra «che s'Ella intende con tali parole insinuare sospetti poco leciti e niente affatto convenienti a carico di una dama che sta per appartenermi strettamente, Ella s'inganna a partito e offende le stesse persone alle quali parla.»
«Lei non sa quello che si dice, mio caro Signore» rispose il frate, a voce bassa e con forzata calma. «non sa che io sono avezzo a cercare la verità, magari frugando con il coltello nelle carni e nelle ossa della gente, tanto d'una gran dama, quanto d'un facchino, colla stessa freddezza. Taglio e squarcio per trovarla e la trovo quasi sempre, sa, impassibile come un dio; poco m'importa, mentre cerco, che mi scongiurino o che mi bestemmino. E Lei pretende ch'io mi guardi dall'accennare anche da lontano a quello che può essere il vero, per non offendere una signora, i suoi parenti e i suoi amici, quando sono convinto che c'è di mezzo un ammalato che assisto? Ma Lei mi fa ridere, per Dio! Del resto, adesso, loro signori conoscono i fatti. Si ricordino che se l'ammalato si ricupera, una nuova emozione simile alla passata lo ucciderà sul colpo. Il padre Tosi ha fatto il suo dovere e se ne va.»
Egli si alzò e guardò l'orologio. Il suo legnetto doveva già trovarsi sulla strada provinciale, allo sbocco del viottolo del Palazzo.
«S'intende» disse l'avvocato «che il padre non farà parola fuori di qui...»
«È il primo consiglio di questo genere che mi si dà» rispose il frate «e non lo ricevo. Buona sera a Lor signori.»
«Chi lo paga?» sussurrò il Mirovich a Nepo dopo che quegli fu uscito.
«Cosa è mai venuto in mente al medico di suggerir quel cialtrone lì!» disse Nepo evitando di rispondere. «Se avessi saputo che doveva poi anche tardar un giorno, avrei fatto venire io Namias da Venezia! Adesso tu starai male, mamma.»
«Altro che male, altro che male!» gemette la contessa.
«Già; matto villano! Avrai bisogno di quiete» disse Nepo con un accento nuovo di premura filiale. «Andiamo, andiamo, lasciamola sola. Vi dico la verità che anch'io non ne posso più di prendere un po' d'aria. Mi fa piacere Lei, avvocato, di andar a vedere dello zio. Io vado a prendere il mio cappello e passo dal cortile. Lei mi dirà dalla loggia se le cose vanno in ordine, come spero.»
Dopo le dieci di sera i Salvador, il Vezza, l'avvocato e Silla erano aggruppati, in piedi, presso al tavolo del salotto. Ascoltavano il dottore che rendeva conto dello stato dell'infermo prima di andarsene a casa. Costui, vestito di nero alla moda di vent'anni indietro, ragionava sulla malattia, gittando in viso a quei diffidenti signori di città parecchi nomi greci e barbari, parecchie citazioni di autori e di giornali scientifici. La lucerna posata in mezzo alla tavola, col suo gran paralume scuro, lasciava nella penombra le persone e la camera, metteva sul tappeto una macchia luminosa circolare dov'entravano le grosse mani rubiconde del dottore che parlava. A suo avviso le cose procedevano in modo abbastanza soddisfacente. La gamba destra aveva riacquistati, in parte, alcuni movimenti e anche il braccio non era più completamente inerte. Nell'intelligenza e nella favella i progressi erano, per verità, meno sensibili, ma si poteva, anzi si doveva ritenere che col tempo si sarebbe ottenuto molto; se non la guarigione completa, almeno...
Colui era giunto a questa svolta promettente della sua prognosi quando si fermò alzando il mento e guardando con gli occhi socchiusi oltre alla cerchia dei suoi uditori. Fece quindi un cenno rispettoso di saluto. Tutti si voltarono; era donna Marina.
Il gruppo allora si agitò e si scompose in movimenti diversi.
La contessa Fosca e Nepo si avvicinarono a Marina, gli altri fecero posto; tutto questo lentamente e senza parole. Nepo guardava la sua fidanzata con due grossi occhi stupidi, sgomenti.
«Buona sera» sussurrò Marina. Poiché il medico taceva, gli disse un po' più forte con la sua voce noncurante: «Prego».
Ell'era vestita di nero o di azzurro carico; non si poteva distinguer bene.
Appena si vedeano le linee eleganti della bella persona, i grandi occhi, il pallore uniforme del viso e del collo. Si guardò un momento alle spalle, quasi cercando una sedia. Nepo insistette perché sedesse sul canapè, ma ella scelse una poltrona proprio in faccia al medico.
«Almeno» proseguì costui, incerto, magnetizzato dagli occhi grandi che lo fissavano «l'uso delle gambe... fors'anche, in parte, l'uso del braccio... dico in parte, in parte... si potranno ricuperare... e anche l'intelligenza... però, per l'intelligenza, è difficile, molto difficile.»
Pareva pigliar involontariamente la intonazione dagli occhi di donna Marina.
Il commendatore Vezza li studiava da vicino quegli occhi, procurando di non farsi scorgere dai Salvador. Aveano un fuoco vago e febbrile, una espressione di curiosità intensa, qualche cosa di nuovo che colpì il commendatore.
Qualcuno entra; il signor parroco che viene a prender notizie. Il povero don Innocenzo, miope, imbarazzato, non riconosceva nessuno, salutava a sproposito, si scusava, suggeva l'aria con le labbra, serrate come se il pavimento gli scottasse. Intanto il dottore si congedò. V'era un ghiaccio nella stanza: nessuno parlava forte. Nepo, curvo sulla spalliera delle poltrona di Marina, le chiedeva sottovoce della sua salute, si doleva di non averla mai potuta veder in quei due giorni. La contessa Fosca dall'altra parte tentennava. Si piegava verso Marina, le sussurava una frase; si ritraeva per non porsi troppo avanti fra lei e Nepo; quindi cedette alla tentazione. Il parroco prendeva le notizie del conte dall'avvocato Mirovich, in disparte. Silla non s'era mosso mai. Marina nell'entrare lo aveva guardato un momento, lo aveva confitto, quasi impietrito al suo posto.
Ella si alzò.
«Amerei dire una parola al signor Silla» disse.
Questi, pallidissimo, s'inchinò.
La contessa, Nepo, il Vezza, stupefatti, guardavano Marina, aspettando uno scoppio, una scena come quella dell'anno prima. L'avvocato interruppe la sua relazione; Don Innocenzo non capiva; gli diceva: «E dunque?»
«Non qui» disse Marina.
Il Vezza e il Mirovich fecero atto, un po' tardi, di ritirarsi. I Salvador non si mossero.
«Restino pure» soggiunse Marina. «Ho bisogno di prendere aria. Scende in giardino, signor Silla?»
Questi s'inchinò daccapo.
«In giardino?» esclamò la contessa Fosca con uno scatto di malcontento.
«Con questo fresco?» soggiunse poi. «Non mi pare...»
«Con questo umido?» disse Nepo. «Piuttosto in loggia.»
«Buona sera» disse Marina. «Faccio un giro e poi rientro nelle mie camere.»
Nepo volle replicare qualche cosa, s'imbarazzò, balbettò poche parole. Donna Marina fece un passo verso l'uscio e guardò fisso Silla, che venne ad aprirglielo. «Buona sera» diss'ella ancora, uscendo.
Nessuno le rispose.
Marina discese lentamente, con piedi silenziosi di fata, in mezzo alla larga scala semioscura. Silla le teneva dietro, stretto alla gola da commozioni inesprimibili, quasi cieco. Ancora un momento e sarebbe stato solo con lei, nella notte.
La porta a vetri che mette in giardino era spalancata. Il lume del vestibolo, oscillando all'aria notturna, mostrava di fuori un lembo di ghiaia rosea; presso all'uscio, sopra una sedia, lo scialle bianco di Marina. Ella lo porse a Silla, si fermò perché glielo posasse sulle spalle. Le loro mani si incontrarono; eran gelate.
«Fa freddo» disse Marina, stringendosi lo scialle sul petto. Pareva un'altra voce; quasi tremante. Silla non rispose; credeva ch'ella gli sentisse il cuore a battere. Le posò un momento le mani alle braccia quasi per ravviarle lo scialle. Ella trasalì; le spalle, il seno le si sollevarono. Uscì senza dire parola, fece una cinquantina di passi nel viale e s'appoggiò alla balaustrata, guardando il lago.
La notte era oscura. Poche stelle lucevano nel cielo nebbioso fra le enormi montagne nere che affondavano l'ombre nel lago. Il gorgoglio delle fontane, il canto lontano dei grilli nelle praterie, andavano e venivano col vento.
Silla non vedeva che la elegante figura bianca, curva sulla balaustrata presso a lui.
«Cecilia» disse piano accostandosele.
Ell'appoggiava il mento alle mani congiunte. Ne stese una a Silla senza voltar la testa, e gli disse appassionatamente:
«Sì, mi chiami sempre così. Si ricorda?»
Egli strinse con ambedue le proprie quella mano di raso odoroso. Temeva di esser freddo, di non aver neppur sensi in quel momento. Se la recò alle labbra, ve le impresse, veementi, sul polso.
«Mi dica: si ricorda?» ripeté Marina.
«Oh Cecilia!» diss'egli.
Le voltò la mano, vi abbassò rapidamente il viso sul palmo, se la serrò sugli occhi, parlò convulso:
«Non v'è più mondo, se sapesse, per me! non vi son parenti, né amici, né passato, né avvenire: niente, niente; non v'è che Lei, mi prenda, mi prenda tutto!»
Voleva esaltarsi e vi riusciva. Si trasse quel piccolo palmo sulla bocca; pensò alla propria vita amara, al mondo ingiusto, vi soffocò uno spasimo di passione che dovette entrar nel sangue di lei, attraversandolo sino al cuore.
«No, no» diceva ella con voce interrotta, mancante, «adesso no.» Avevan la febbre tutti e due.
«Quando si è ricordato?» disse Marina.
Ella era fissa nell'idea di Cecilia Varrega, che avrebbe ritrovato, nella seconda esistenza terrena, il suo primo amante.
«Iersera» diss'egli credendo aver intesa la domanda. «Iersera, dalla signora De Bella, che mi parlò di lei; dopo hanno fatto una musica che mi ha rotto il cuore, me ne ha tratto fuori tante cose. Esco di là mezzo pazzo, trovo il Suo telegramma. Allora mi si è illuminato tutto, ho sentito il destino prendermi, portarmi qua. Mi lasci questa mano, questa dolcezza infinita. Lei non sa che passione è la mia. Mi par di morire a non spiegarmi e non posso parlare. Vorrei esser tratto giù per sempre, con Lei, in quest'acqua che mi chiama.»
Egli tirò a sé la inerte mano prigioniera, il braccio, la persona.
«Domani» sussurrò Marina, resistendo «domani sera dopo le undici, sulla scaletta della darsena.»
Egli non voleva lasciar quella mano, vi figgeva le labbra insaziabili.
«Venga» diss'ella a un tratto concitata «mi segua, discosto, non mi parli e, sulla porta, mi lasci. Lo sapevo.»
Silla comprese e obbedì. Fatti due passi, vide qualcuno nell'ombra. Era Catte.
«Ah, è qui, marchesina. L'ho cercata dappertutto. Sua Eccellenza mi aveva dato questo scialle per Lei.»
Marina non degnò rispondere né tampoco guardar la cameriera: fece dalla porta un saluto freddo a Silla e sparve nel vestibolo.
Silla attraversò il cortile, salì la scalinata ed escitone di fianco sedette sull'erba sotto un cipresso, vi rimase un pezzo bevendo il forte odore dell'albero, ascendendo con gli occhi per l'alta colonna nera sino alle stelle.
Più tardi la contessa Fosca, chiusa con Nepo nella sua camera da letto, smaniava, singhiozzava, esclamava contro il frate che aveva raccontato quelle cose orribili, contro la dama milanese che le aveva date le prime informazioni di Marina; si domandava cosa mai vi potesse essere fra Marina e suo zio, cosa mai ella avesse detto, cosa mai avesse fatto quella notte; protestava di perder la testa, di volerne uscire, di volerne far uscire Nepo a ogni costo, di voler piantare quella benedetta casa e il suo padrone e la sua padrona, e i denari e tutto. Quando aveva finito, ricominciava. Nepo taceva sempre, ingrugnato; solamente, se sua madre alzava troppo la voce, le faceva un gesto iracondo. Ella resisteva, sulle prime; gli diceva: «E cosa fai tu col tuo tacere?» Ma Nepo s'inviperiva. Allora la povera donna diventava umile, piagnucolosa; ripeteva: «Nepo, la è matta! Nepo, la è matta!»
Voleva chiamar l'avvocato, consultarlo. Nepo si oppose tanto risolutamente ch'ella credette leggergli in viso un proposito, un piano bell'e pronto. Gli domandò che intendesse fare.
«Aspettare» diss'egli «non comprometter niente.»
«Per la donazione, caro, ho paura. Adesso la va peggio.»
«Aspettare» ripeté Nepo.
«Bel discorso!»
Egli scosse via l'occhialettto, prese sua madre per le braccia, le immerse gli occhi negli occhi e disse con voce soffocata:
«Se non c'è testamento?»
La contessa pensò un poco, guardandolo.
«Resta tutto suo?» diss'ella. «Tutto di Marina?»
Nepo si tirò indietro, allargò le braccia.
«Eh!» diss'egli: e soggiunse: «Allora ci penseremo.»
Seguì un lungo silenzio.
«Perdi un bottone, viscere» disse la contessa piano con dolcezza.
Nepo si guardò il bottone che gli penzolava dall'abito, rispose nello stesso tono:
«Momolo che non guarda mai. Vado a vedere del conte.»
«E il tiro di stasera?» disse la contessa mentre egli se ne andava. «Bello, sai!»
«Per quello non ho nessun pensiero» disse Nepo. «Intanto hai sentito Catte, come li ha visti tornare a casa. Credo poi, anche a giudicare dalle parole di Marina, che né scuse né complimenti gliene abbia fatti certo. Vedrai che domattina, per non dire stanotte, l'uomo se ne va. Cosa vuoi pensare? Dopo che è partito l'altra volta a quel modo e per quella cagione!
Lui lo ha detto a Mirovich come è venuto; ha detto che ha saputo in un paese qui vicino della malattia del conte. - Dunque vado.»
Nepo trovò in galleria Catte a chiacchierare con l'avvocato e col Vezza che fumavano. Catte, veduto il padrone, se la svignò; gli altri due non avevano notizie precise dell'ammalato, dopo la partenza del dottore. Nepo si avviò in punta di piedi a pigliarne, e coloro ripresero il loro dialogo. Parlavano degli strani casi cui assistevano: il Vezza con l'interesse d'un egoista curioso; il Mirovich con qualche pena per la devozione che portava alla contessa Fosca. Facevano mille supposizioni diverse, ricadevano sempre a dire, come la contessa Fosca, di non capirci nulla. Il Mirovich concluse:
«È proprio il caso di dire come i chioggiotti: Co se ga rasonao se ga falao.»
Il Vezza disse qualche cosa, dopo un lungo silenzio, sulla pace profonda della notte; e il suo compagno, pensando a Venezia, a' tempi passati, mormorò la prima strofa della canzonetta che comincia:

Stanote de Nina...

«Bella, bella, bella! Avanti, avanti!» disse il commendatore. Nepo rientrò in loggia.
«Come va?» gli chiese l'avvocato.
«Peggio, peggio assai, pur troppo» rispose Nepo e passò oltre.
«Che brutto affare» sospirò l'avvocato.
«Ma!»
Lo zampillo del cortile parlò solo per un momento dietro a loro.
«Era malandato, già, in salute» disse il commendatore.
«Eh, sì.»
«Adesso restava anche solo» tornò a dire il Vezza.
«Eh, questo sì.»
«Quasi, quasi...»
«Oh, lo credo anch'io.»
Parlò ancora solo la voce blanda. Il Vezza gittò il suo sigaro.
«Che veleno!» diss'egli.
«Dunque?» soggiunse dopo una breve pausa.
«Cosa, dunque?»
«La canzonetta?»
«Ah, ecco - Stanote de Nina...» L'avvocato abbassò la voce, e la tramontana leggera che attraversava gli archi, sciolse, portò via le parole voluttuose.

Nella sua stanza, dove un fioco lumicino posato a terra spandeva nell'aria calda e greve certo chiarore sepolcrale, il conte Cesare supino, immobile, non vedeva la Giovanna seduta presso il letto con le mani sfiduciate sulle ginocchia, e gli occhi fissi in lui. Credeva invece veder la figura di sua nipote ritta in mezzo alla camera. Era sua nipote e un'altra persona nello stesso tempo, ciò gli pareva naturale. Si moveva, parlava, guardava con due occhi pieni di delirio; come mai se quella persona era morta e sepolta da lungo tempo? Egli lo sapeva bene ch'era stata sepolta, ricordava d'averlo inteso da suo padre; ma dove, dove? Tormentosa dimenticanza! C'era pure nella sua memoria quel luogo, quel nome; ve lo sentiva muoversi, salire, salire finché ne scattò su, in lettere visibili.
Credette allora cavar di sotto le lenzuola il braccio destro, stenderlo, appuntar l'indice a colei, dirle ch'ella mentiva e ch'era ben sepolta ad Oleggio, nella cappella di famiglia. Ma la donna lo minacciava ancora, lo sfidava, gli gettava un guanto; pareva Marina ed era la prima moglie di suo padre, la contessa Cecilia Varrega. Ella lo sentiva, parlava di antiche colpe, di una vendetta da compiere. Allora egli immaginava lanciarsi smanioso d'ira dal letto, e tutto si confondeva nella sua mente in una torbida visione a cui intendeva ansando, come se sulla porta della morte gli apparisse, al di là, un pauroso dramma sovrumano.
C'era un peggioramento improvviso, la paralisi minacciava il polmone.
Il Palazzo non era parso mai così cupo come quella notte, malgrado i lumi che vi vegliarono fino all'alba.
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