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Info sull'Opera
Autore:
Antonio Fogazzaro
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

MALOMBRA (IV Parte ) Malombra - 2

di Antonio Fogazzaro

3. Quiete

«Come hanno fatto bene! Come hanno fatto bene!» ripeteva Marta correndo su per la scala della canonica a portar le valigette di Edith e di suo padre nelle stanze preparate per essi, a spalancar porte e finestre. Gridava dall'alto a don Innocenzo:
«È contento, mo?» Tornava giù in furia, tutta scalmanata, veniva a protestare che la canonica non era il Palazzo, che non avrebbero trovato questo, che non avrebbero trovato quello. Ardeva dalla voglia di dare un bacio a Edith, ma non osò. Steinegge, impolverato come una vecchia bottiglia di Bordeaux, protestava dal canto suo contro tanti complimenti, esclamando, giungendo le mani, gesticolando: e don Innocenzo, cui lucevano gli occhi dal piacere, gli dava ragione contro Marta, diceva di credere che sicuramente i suoi ospiti si sarebbero trovati bene in casa sua: altrimenti non li avrebbe pregati di venire. Allora Marta si voltava contro il padrone. «Ma ha da dire queste cose Lei? Ma tocca a Lei dire queste cose?» «Bene bene» rispondeva il povero prete vedendola inalberarsi «via, via, chetatevi. - Oh bella» soggiungeva poi, volto agli Steinegge «ho visto che ha lavorato tanto, che ha preparata tanta roba!»
Qui Steinegge esclamava daccapo, e Marta, disperata di aver un padrone simile, scappava in cucina per non perdergli il rispetto.
«Mi dica Lei, signorina» chiese don Innocenzo a Edith «ho detto male? Lo sanno anche Loro, non è vero, che sono un povero parroco?»
«Noi gran signori amiamo qualche volta discendere» rispose Edith, scherzando.
La piccola casa rideva tutta. Non c'era granello di polvere sugli arredi né sulle invetriate: le tendine di percallo bianco, appena lavate e stirate, diffondevano nelle stanzette una luce color di perla, mandavano odore di nettezza. Nel salottino da pranzo a pian terreno un passero solitario gorgheggiava festosamente fra le due porte che mettevano nell'orto; in mezzo alla tavola un vasetto di porcellana bianca portava dei fiori. Da quelle due porte, da ogni finestra della casa entrava il verde tenero della campagna, entrava un senso profondo di riposo per chi veniva dalla città e aveva ancora negli occhi il frastuono del treno, nelle ossa la stanchezza di una lunga corsa in carrozza. V'era tranquillità e pace perfino nell'alto canapè di vecchio stampo, nelle antiche incisioni giallognole del salotto, negli uccelli impagliati che nidificavano dentro due campane di vetro, sopra il caminetto dello studio. Anche l'orologio a pendolo fra le due campane, con la sua raucedine acuta e sfiatata di vecchione sordo, riposava lo spirito. E v'era, sotto a questo sorridere pacato della casetta, una castità verginale, senza sospetto, posata innocentemente in seno alla natura amorosa, aperta alla contemplazione della vita. La si leggeva perfino nella forma incomoda di certe suppellettili: perché se tutto là dentro diceva pace e quiete, né gli alti canapè stretti, né le seggiole impagliate a spalliera verticale permettevano la voluttà del riposo spensierato e delle immagini vagabonde. Dallo studio, zeppo di libri, usciva uno spirito di austerità pensosa; cosicché l'aspetto della casa rendeva immagine, in qualche modo, dell'aspetto di don Innocenzo, ilare, semplice, pieno di pensiero.
Questi era beato di aver seco gli Steinegge. Gli ravvivavano un po' la solitudine di cui soffriva, in fondo, nella sua ingenua ammirazione della società moderna, nella sua passione per conversare di politica, di letteratura, d'ogni novità curiosa. Di Steinegge s'era innamorato di slancio; per Edith sentiva, specialmente dopo l'ultima sua lettera, un alto rispetto, misto però di soggezione. La fiducia di uno spirito così nobile lo sgomentava, quasi. Temeva di non sapervi corrispondere, di non poter afferrare certe finezze femminili, di non intender bene certe squisitezze di sentimento in cui bisognava entrare per consigliar quell'anima, per esercitare l'ufficio religioso che gli veniva chiesto. Sentiva in pari tempo un vago sospetto che vi fosse nell'ascetismo di Edith qualche cosa di eccessivo e di tenace da doversi combattere. Era insomma il suo compito attraente ma grave, di quelli che lo trasformavano, che lo facevano pensar con calma, parlar con misura, operar con cautela.

Prima ancora che Edith e suo padre salissero alle loro stanze, il parroco volle condurli, malgrado le osservazioni di Marta, a veder i rosai, le fragole e i piselli dell'orto. Il suo orticello gli pareva meraviglioso e se ne teneva: parlava del grossolano coltivatore come se il verde uscito dai pochi granellini sparsi sulle aiuole, e i fiori usciti dal verde, e i frutti dai fiori fossero tanti miracoli suoi. E ora Steinegge, un altro botanico profondo, spargeva a destra e a sinistra, sulle fragole e sui piselli, i suoi grossi complimenti, difendendosi con altri complimenti da Marta che gli veniva dietro per spazzolargli il soprabito. Edith s'indugiava a guardar distratta il verde un po' freddo dei prati sotto il cielo nuvoloso, a odorar i bottoni di rosa. Puro odore pio! Faceva pensare alla preghiera d'un bambino. Ma don Innocenzo beveva voluttuosamente le profane lodi di Steinegge con dei: «Non è vero? Eh! dica la verità!» Dopo i piselli fece vedere a' suoi ospiti le novità della casa. Prima Veuillot, un passero solitario, chiacchierone impertinente, al quale era rimasto quel nomignolo dopo che un allegro prete, seccato dal suo cicaleccio continuo, si era voltato a gridargli: «Taci, Veuillot.» «E io mi godo di tenerlo in gabbia» soggiunse ferocemente don Innocenzo, raccontato l'aneddoto. Aveva pure a mostrare de' nuovi tegami preistorici trovati scavando le fondamenta della cartiera, del gran dado bianco che si vedeva sorgere laggiù oltre i pioppi del fiumicello, in mezzo a una chiazza nerastra, a una piaga schifosa del verde. Don Innocenzo era ancora entusiasta della cartiera, forse anche un po' per la scoperta dei suoi tegami. Passando per lo studio, Steinegge chinò un momento il capo a un libro aperto sullo scrittoio davanti al seggiolone di Don Innocenzo. Questo saltò lesto come un ragazzo a ghermire il libro e se lo strinse al petto, ridendo, rosso fino al vertice del cranio. Steinegge, rosso anche lui, fece le sue scuse.
«A Lei! A Lei! Vada là! Lo prenda, lo prenda!» rispose don Innocenzo porgendogli a due mani il libro che l'altro non voleva pigliare.
«Ah!» diss'egli, appena v'ebbe data un'occhiata «Mein Gott, Mein Gott! Non avrei mai creduto questo.»
Era una grammatica tedesca.
«Taccia, vada là, vada là che non capisco niente!» esclamò don Innocenzo ridendo sempre; e gli ritolse il libro, lo gittò sullo scrittoio, vi posò su il suo berretto a croce e scappò a raggiungere Edith.
Adesso non c'era proprio più nulla da vedere e la casetta tornò silenziosa, perché gli Steinegge si ritirarono nelle loro stanze al primo piano, mentre Marta stendeva la tovaglia.
Placido silenzio, interrotto appena dal tintinnìo delle posate di Marta, da qualche passo pesante sulla stradicciuola di là dall'orto. Edith era felice di sapersi così lontana da Milano, in mezzo a tanta quiete e a tanto verde, come ella stessa aveva scritto; e, nel disfare la valigetta, chiamò suo padre, gli domandò s'era contento. Egli venne dalla sua camera con la cravatta in mano e gli occhietti scintillanti. Altro che contento! Edith gli fece vedere due bei bottoni di rosa in un bicchiere posato sul cassettone e un volume di Lessing: Nathan der Weise. Li aveva anche suo padre i fiori sul cassettone e aveva la storia della guerra dei trent'anni di Schiller in tedesco. Che gentilezza di quel don Innocenzo e che accoglienza cordiale! A Edith pareva un po' invecchiato; a Steinegge no. E Marta, che cordialità, povera donna! Si scambiavano le loro impressioni a bassa voce, mentre Edith disponeva nel cassettone la sua roba. Aveva portato alcuni libri tedeschi e italiani, ma non Un sogno. A suo padre che si dolse un poco di questa omissione, ella non rispose parola; gli passò invece una mano sotto il braccio, lo trasse alla finestra che guardava l'orto, la stradicciuola, i prati, i pioppi lontani dal fiume, le colline al di là e tanta distesa di nuvole bianche.
«Mi par d'essere una fanciulla» disse Edith «e trovarmi la sera nel mio letto dopo essermi smarrita il giorno fuori di casa, e aver pianto, aver provate tante angoscie. Non ti senti, papà, meno straniero qui che a Milano?»
Qualcuno parlava nell'orto. V'era don Innocenzo con una vecchia contadina che si lagnava, piagnucolando, della sua nuora. Il parroco cercava di chetarla; allora la vecchia cominciava, chinando il capo, un'altra storia più segreta ed egualmente triste che don Innocenzo interrompeva con dei bene bene soddisfatti, come se a questo nuovo malanno gli fosse più facile trovar il rimedio. Le cacciò di fretta in mano alcune monete e la mandò via bruscamente.
«Che strega quella donna lì!» disse Marta di dentro. «Spero bene che non le avrà dato niente.»
«Cosa vi viene in testa?» rispose don Innocenzo.
«Anche le rose, anche i libri tedeschi» disse Steinegge dalla finestra. «Questa è troppa attenzione, signor curato. Noi non sappiamo...!»
«Oh, son libracci vecchi di casa mia. Vengano giù, vengano giù che si desina subito.»
Il desinare cominciò allegramente. Marta si moltiplicava. Aveva il suo posto a tavola, ma andava e veniva continuamente dalla cucina, malgrado le preghiere degli ospiti e le osservazioni del padrone. Edith le dichiarò che per quel primo giorno lasciava fare, ma che all'indomani si sarebbe presa, o per amore o per forza, la sua parte dell'azienda domestica. Marta rispose con una fila di mai più acuti. Steinegge si offerse come aiutante cuoco, promise i Klosse, disse di averli insegnati a Paolo del Palazzo. Il povero don Innocenzo non sapeva che riscaldare il caffè e si propose, modestamente, per questo.
«A proposito!» esclamò Steinegge, guardandolo parlare senz'ascoltarlo, impaziente che finisse, «Non abbiamo ancora domandato del signor conte!»
«Sono stato al Palazzo due ore fa» rispose don Innocenzo. «Andava un po' meglio di ieri sera.»
«Come, un po' meglio?»
Steinegge si piegò in avanti, ansioso.
«Malato?» esclamò Edith, sorpresa.
«Non sanno niente?» replicò il curato.
«Ma no!»
«Credevo che Marta, non so, che qualcheduno lo avesse detto Loro. Euh, cose tristissime, dolorosissime!»
«Ah, Signore, non sanno niente!» disse Marta in piedi, con le mani appoggiate alla tavola. «Ma sicuro! Come han da fare Loro a saperlo? Non son che due giorni.»
«Ma in nome di Dio, cosa è questo?» disse Steinegge.
«Ecco» rispose don Innocenzo «cos'è oggi? Mercoledì. Bene, lunedì mattina, anzi nella notte dalla domenica al lunedì, il conte ebbe un attacco d'apoplessia.»
«Oh!»
Don Innocenzo, corretto qualche volta da Marta, raccontò quello che sapeva della malattia. Steinegge non poteva darsi pace di questa sciagura; Edith pure n'era dolentissima.
«E gli sposi?» diss'ella.
«Oh, non sono ancora sposi» rispose il curato.
«E lo diventeranno giusto il giorno del Giudizio» soggiunse Marta.
Il suo padrone la sgridò, disse che il matrimonio era solamente differito e che c'erano bene state tutte le ragioni per differirlo. Marta se n'andò in cucina brontolando.
«Ci sono poi degli altri pasticci» disse don Innocenzo a mezza voce.
Steinegge non pensava più a mangiare; posò le braccia sul tavolo aspettando.
«Dopo, dopo» sussurrò il prete con un gesto e un'occhiata verso la cucina.
«Oh, non mi attendevo questo!» esclamò Steinegge.
Edith domandò di donna Marina. Il parroco disse che stava bene, che l'aveva veduta la sera prima.
Intanto Marta aveva portato l'allesso e non parlava più, indispettita pel rabbuffo del padrone, dolente che quel vitello così tenero e saporito e i capperi in aceto preparati da lei avessero, per il malaugurato discorso, a passar senza lodi; prevedendo che la stessa sorte sarebbe toccata all'arrosto.
«Dopo pranzo andremo a Palazzo, non è vero, papà?» disse Edith.
«Certo, oh!»
Il solo Veuillot non aveva perduto la sua loquacità allegra: a furia di chiacchiere si fece ascoltare dai commensali, fece parlare di sé, dell'ingiusto nome di guerra che gli avevano dato. Il sole cadente rideva sul soffitto. Don Innocenzo cominciò a parlare de' suoi cocci preistorici, dei dotti che dovean venire a vederli.
Edith faceva delle osservazioni critiche di cui suo padre si scandolezzava. Egli prestava intera fede ai cocci e ai dotti, parlava delle palafitte svizzere che conosceva. Ad un tratto s'interruppe ricordandosi che doveva andare al Palazzo.
«Aspetti» gli disse don Innocenzo «aspetti il caffè. Mi pare che si potrebbe uscire a prenderlo nell'orto, non è vero?»
Uscirono nell'orto all'aria dolce, odorata di primavera. Il sole avea rotto le nuvole e toccava quasi le colline di ponente: la casetta ne ardeva, i vetri ne sfolgoravano. Edith volle portar lei il caffè. Steinegge e don Innocenzo sedettero ad aspettarlo sul muricciuolo dell'orto in faccia al salotto.
«Marta è una buona donna» disse don Innocenzo «ma è una gran chiacchierona. Ci sono de' pasticci al Palazzo. Intanto è tornato quel tale Silla.»
Steinegge diè un balzo.
«Oh scusi, non è possibile! Se l'ho visto io a Milano l'altro giorno, in casa mia, e non mi ha detto niente!»
«Tant'è; adesso è qui.»
«Lei lo ha veduto?»
«Certo.»
«Oh, ma questo!... Scusi molto, io credo che i Suoi occhi non L'hanno servita bene! Oh, è impossibile questa cosa! Lui qui, al Palazzo?»
Si alzò e si pose a camminar in fretta su e giù lungo il muricciuolo, borbottando in tedesco.
Si fermò su' due piedi. Gli era balenata un'idea.
«Forse è stato richiamato?» diss'egli. «Forse per telegrafo?»
«Può essere, ma non credo, perché il conte Le ho detto in che stato è, la marchesina non lo poteva soffrire quando fu qui l'altra volta, e i Salvador non lo conoscono.»
«E che cosa fa qui?»
«Ma! Sa bene cosa si diceva di lui? Pare che venendo in questo momento abbia messo una spina negli occhi della marchesina e dei Salvador.»
«Per l'eredità? Oh questa è bugia, questa è calunnia!» disse Steinegge concitato. «Mi scusi, Ella non sa, signor parroco, Ella non creda. Il signor Silla non è niente affatto quello che si diceva e giuro che non è venuto qua con questa cosa vile nel cuore.»
Don Innocenzo gli accennò di tacere. Marta sulla porta della cucina, contendeva a Edith il vassoio del caffè.
«Ma no» diceva «ma no, son mica cose da far Lei queste: Bene, faccia un po' come vuole, là!»
Edith veniva a passi corti, sorridente, un po' compresa della sua missione, tenendo gli occhi sulle chicchere a fiorami rossi e verdi, sulla zuccheriera pure a fiorami, sul bricco che traballava. Il fuoco del tramonto le batteva in viso, batteva sul vassoio, sulle mani sottili.
«Non sai,» le disse suo padre in tedesco, impetuosamente «che il signor Silla è qui?»
Ella si fermò e tacque un momento, senza fare altro segno di sorpresa.
Poi chiese quietamente:
«Dove, qui?»
«Al Palazzo.»
Venne a posar il vassoio sul muricciuolo e domandò a don Innocenzo se il caffè gli piaceva dolce o amaro.
Suo padre si stupiva di una tale indifferenza. Forse ella sapeva qualche cosa? Forse Silla le aveva detto una parola l'altro giorno?
No, Silla non le aveva detto niente, ed ella non sapeva niente. Osservò che il signor Silla poteva essere stato richiamato per telegrafo.
«Signora no, per quel signore là non l'hanno mica fatto battere il telegrafo» disse dietro a lei Marta ch'era venuta a portare un cucchiaino. Don Innocenzo, intento al caffè e alla discussione, non s'era avvisto di lei.
«Che ne sapete voi?» diss'egli.
«Perché non ho a saper qualche cosettina anch'io, povera donna?» rispose la petulante Marta. «Quel signore lì è proprio caduto dalle nuvole. Nessuno se l'aspettava, cari Loro. Non c'è che la Giovanna che sia contenta, perché sa, neh, che il signor conte gli voleva così bene. Gli altri non lo possono vedere, specialmente la signora donna Marina. Il mio signor padrone a me, magari, non dice niente; ma lui lo sa bene che ieri sera la signora donna Marina l'ha fatto andar giù in giardino, questo signor Silla, per dargli una ramanzina!»
«Come sapete voi queste cose?» disse don Innocenzo stupefatto.
«Ne so così delle cose io. È mica vero forse?»
«Che lo ha fatto scendere in giardino sì, è vero; ma cosa gli abbia poi detto non la so io e non lo sapete neanche voi.»
«Che abbiamo udito, no, magari; nessuno ha udito; ma chi può saperlo dice che gli avrà detto d'andar via perché è lei che lo ha fatto andar via l'altra volta.»
«Ma non è partito?» disse Edith.
«No, sinora, no, non è partito; almeno credo. Lo ha visto Lei oggi, signor curato?»
«Sì, l'ho incontrato sulla scala.»
«Vogliamo andare, Edith?» chiese Steinegge.
«Oh no, papà, ho pensato che il momento non è opportuno per la mia visita. Vacci tu. Io resto con don Innocenzo.»
«Stasera abbiamo il mese di maggio» le disse questi.
«Bene, verrò in chiesa.»
A Steinegge dispiaceva andar solo, ma non insistette e partì. Marta rientrò in casa col suo vassoio, lasciandoli soli, seduti sul muricciuolo, il parroco e Edith.
«È buono sa» diss'ella con passione. «È buono; oh tanto più di me! E le vuole un bene a Lei! Desiderava immensamente di venir qua. È una provvidenza questa simpatia che ha per lei, malgrado la Sua veste. Anche ieri a sera si parlava di religione. Io dicevo che vi sono delle anime naturalmente mediatrici fra il comune degli uomini e Dio, qualunque sia la forma della loro vita terrena, e che Lei, per esempio, signor curato, anche se non fosse sacerdote...»
«0h, signora Edith!»
«Sì, sì, Lei è una di queste anime. Lo credo e mi fa bene il crederlo, mi fa bene il dirlo. Se sapesse quanto abbiamo bisogno di Lei! Bene, mio padre diceva anche lui di poterlo credere.»
Parlava con emozione tanto forte quanto era stata subitanea.
«Si consoli» disse don Innocenzo «si consoli. Suo padre è forse più vicino a Dio di molti che esercitano il mio ministero, di me per il primo che ho sempre vissuto una vita blanda, una vita neghittosa, senza vere tribolazioni, senza opere, con frequenti languori di spirito, benché da tanti anni io entri ogni giorno nella profondità di Dio, benché io viva, si può dire, nel calore di tante anime grandi che lo hanno amato. Sono meno che niente, signora Edith. Ma sa cosa c'è di vero in questo che Lei ha detto? C'è che un sentimento puro d'interessi terreni, anche per qualche persona indegna, anche, arrivo a dire, per le cose inanimate, o almeno che noi crediamo inanimate, alza l'anima. E quest'anima che si alza, vede, naturalmente più in là; se lo slancio è molto forte, può vedere addirittura la meta; non vedrà la via, ma vedrà la meta. Il Suo signor padre mi vuol bene, non so come né perché. Non c'entra il sangue in questo affetto, né la consuetudine, né alcun interesse. Non c'entra neppure quella comunanza di opinioni ch'è il solito fondamento dell'amicizia e che pure vi mette, non Le pare? un'ombra di egoismo. Il suo affetto per un povero disutile come me gli allontana il cuore da quei rancori iracondi che sono, credo, il più grande ostacolo sulla sua via verso la Chiesa e anche, dirò, stando nel campo della religione naturale, verso Dio. Mentre egli è con me e sente piacere d'essere con me, sono sicuro che, senza alcun merito da parte mia, una certa pace si fa nel cuore; se gli viene in mente, allora, quel tale passato, gli parrà un po' più lontano di prima. Lavoreremo. Otterremo, vedrà. Lei ha fatto benissimo intanto a non insistere, a non premere, a non molestarlo con troppo zelo.»
«Povero papà!» disse Edith, sospirando. Lo immaginava con il suo caro viso onesto, lo vedeva contento, sereno, lontano dal sospettare di malinconie segrete nel cuore di sua figlia.
«Gli ha mai parlato di pratiche?» chiese don Innocenzo, sottovoce.
«Direttamente, mai» rispose Edith nello stesso tono. «Cosa vuole? La confessione, per esempio! Io comprendo che per lui è l'atto più odioso, più ripugnante che si possa concepire. Quando vado in chiesa vuol sempre accompagnarmi. In questo tempo io sono andata due volte alla confessione. Sa, io ci vado assai di rado.»
«Non biasimo!» disse don Innocenzo.
Parlar di religione all'aperto nelle prime ombre della sera move l'anima. N'escono allora certe intime opinioni timide che di giorno stanno nascoste per paura della gente e anche un poco di altre opinioni imposte alla nostra coscienza docile, venute dal di fuori con autorità di maestri o di libri o di esempi.
«Egli non parlò né la prima né la seconda volta» proseguì Edith «ma soffriva, s'intendeva bene: e dopo, per un po' di tempo restava triste, taciturno. Io vedo i suoi pensieri. Povero papà, non può immaginarli Lei i cattivi compagni che ha avuto. Non han potuto guastare il suo cuore, ma gli hanno empita la mente di tante vecchie volgarità misere!»
Il sagrestano entrò nell'orto e, salutato il parroco, andò a prendere le chiavi della chiesa. Don Innocenzo tolse commiato da Edith, che rimase seduta sul muricciuolo. Appena fu sola, si sentì spossata da un accoramento profondo. Ell'aveva amato e rinunciato all'amor suo, ma pure solo allora le pareva di aver interamente perduto Silla, solo allora che lo sapeva tornato al Palazzo, presso Marina. Pochi minuti dopo le campane della chiesa, colorata ancora dall'ultima luce calda del tramonto, suonarono. A Edith pareva che dicessero «Addio, amore, dolce amore; addio, giovinezza soave». Si alzò e rientrò in casa; ma anche lì penetrava la voce delle campane benché più languida. «Addio addio». Edith salì nella sua stanza. La finestra n'era aperta, e le campane vi ripetevano più forte che mai «Addio». Fra le cortine bianche, nel ponente, scintillava la stella della sera. Edith non voleva intenerirsi: andò nella camera di suo padre, vi si sentì tranquilla e vi chiuse la finestra senza sapere bene il perché. Si pose a spazzolar un soprabito, guardò se i bottoni eran saldi; poi lo ripiegò, lo posò sopra una sedia, si fece a comporre i guanciali sul suo letto, a spianare e rincalzar le lenzuola col tenero studio di una mamma che rifà il letticciuolo del suo bambino convalescente. Stette quindi a guardare la stella pura, in pace, stavolta; e udì Marta che chiamava dall'orto:
«Signora! Oh, Signora!»
Marta desiderava sapere se la signora Edith sarebbe andata anche lei in chiesa, perché allora avrebbero potuto uscire insieme e chiudere la porta di casa.
Si confusero alle poche donne che salivano dal paesello, coperte il capo di grandi fazzoletti scuri, entravano una dopo l'altra nella chiesa muta, porgevano la destra alla pila dell'acqua benedetta e, piegato il capo a pochi lumi dell'altar maggiore si perdevano, quale a destra, quale a sinistra, nelle tenebre dei banchi. Don Innocenzo uscì presto in cotta e stola a leggere le preghiere alla Vergine, alternandole con parecchi pater e ave.
Edith avrebbe voluto seguir quelle preghiere col cuore e non lo poteva, tanto erano pomposamente false e sdolcinate. Le pareva impossibile che don Innocenzo non avesse potuto trovar nulla di più degno del grande spirito puro di Maria, la impersonazione cristiana del femminile eterno. In fatto, don Innocenzo aveva tentato in addietro d'introdurre altre preghiere di sua fattura, molto più semplici e severe; ma quelle prime si recitavano da anni ed anni, piacevano alla gente assai di più. Gli arroganti santocchi e le santocchie del paese fecero una tale devota sommossa, seccarono tanto il povero curato per avere daccapo i troni, i manti, le corone di stelle, che bisognò cedere. Edith non si accorse di allontanarsi col pensiero dalle preghiere e dalla chiesa. Tornava all'Orrido, udiva Marina chiederle di Silla, parlare di suo cugino, delle sue idee sul matrimonio, dirle: «Se in avvenire udrà parlare di me, contro di me, si ricordi questa sera». Poi passeggiava sui bastioni di Milano con Silla, lo ascoltava parlar di Marina, rileggeva la dedica manoscritta di Un sogno, le parole «se n'è respinto, si lascerà cadere a fondo». Una gran luce le spiegava tutto. Si scosse, si dolse della sua distrazione e, chino il viso sul banco, chiusi gli occhi, con uno sforzo del pensiero e del cuore, si slanciò a Dio.
Ma non poteva perseverarvi. I pensieri di prima la riprendevano tosto, la portavano lontano, cedevano per poco a un altro sforzo di volontà. Così lottando non udì la voce di don Innocenzo, né il mormorio grave, uniforme della gente nell'oscurità, non ascoltò il canto delle litanie che uscì per la porta aperta, andò lontano sopra i sussurri del vento vespertino.
Una mano le si posò sulla spalla; era suo padre.
«Sono venuto adesso» le diss'egli all'orecchio. «Vuoi che mi fermi un poco qui con te?»
«Oh sì, papà. Sarai stanco, siedi.»
Sedette ella pure e gli prese una mano fra le sue. Steinegge tacque un momento poi disse timidamente:
«È finito?»
«Sì, papà. Vuoi aspettarmi fuori?»
«No, no. Non possiamo noi dire qualche cosa insieme?»
Ella gli strinse la mano.
«Parla tu» diss'egli.
«Pensiamo alla mamma» rispose Edith. «Parli lei al Signore, gli domandi per noi la sua luce e la sua pace, sempre. Gli dica che perdoniamo a tutti coloro che ci hanno fatto del male; e non è vero, papà? A tutti.»
Steinegge non rispondeva; la sua mano tremava fra quelle di Edith.
«Dimmi di sì, papà. Siamo così contenti!»
«Oh, Edith, s'è per quelli che han fatto del male solo a me!»
«A tutti, papà, a tutti.»
«Farò il possibile» diss'egli.
La chiesa era vuota, il sagrestano aveva già chiusi i chiavistelli della porta laterale e don Innocenzo scendeva verso la porta maggiore. Gli Steinegge si alzarono e uscirono con lui. Edith si fermò un momento sulla soglia.
«Come è bello!» diss'ella.
Tutto il cielo era terso fra i profili taglienti dei monti e delle colline sin giù nel ponente, dove la stella della sera discendeva scintillante. Tirava vento. Dietro alla chiesa, sul monte, le macchie stormivano. La valle pareva un immenso drappo scuro, mal disteso a piè delle limpide stelle ignude.
«Peccato che non è luna!» osservò Steinegge.
Edith disse che qualche volta preferiva alla luna la luce non sentimentale delle stelle. Il suo pensiero era che la luna, piccola terra, piccola schiava nostra, forse un tempo congiunta al pianeta, blandisce col suo lume certe passioni terrene, ammollisce i cuori; mentre le stelle austere, indifferenti, a noi, esaltano lo spirito. Questo era il suo pensiero, ma non lo spiegò. Fece solo osservare a don Innocenzo, che quella sera la luce di Venere era tanto forte da segnare ombre sul muro bianco della chiesa.
«È quasi come la luna» diss'ella «e dolce anche questa, ma a me pare più pia.»
Tutto le pareva pio in quella disposizione di spirito, anche la voce del vento dietro la chiesa.
«Come va al Palazzo?» chiese don Innocenzo che doveva scendere a visitare una ragazzina inferma.
«Un poco meglio, pare un poco meglio; pare che l'attacco al polmone è passato.»
«Oh Edith, questa casa, questa casa!» esclamò Steinegge dopo che don Innocenzo se ne fu andato.
«Oh!»
Egli fece tre gran passi avanti, alzando le braccia, agitando le mani distese.
Edith non parlò fino al cancello della canonica.
«Credevo che non venissero più» disse Marta aprendo.
«E così, signore?»
«Va un poco meglio. Vogliamo fare ancora due passi, Edith?»
Ella acconsentì. Invece di scendere direttamente al villaggio, presero la stradicciuola che gira sotto l'orto e cala di sghembo a raggiungere la strada comunale a poche centinaia di metri dalle prime case.
Steinegge raccontò la sua visita al Palazzo, dove aveva visto la contessa Fosca e Giovanna. La Contessa, prima di salutarlo, aveva esclamato: «Oh, non è qua anche quest'altro adesso?». Ma poi saputolo ospite della canonica, gli si era mostrata cordialissima. Steinegge non aveva inteso un terzo de' suoi discorsi sul triste fatto, delle sue lamentele sulla «babilonia» che regnava al Palazzo. Secondo la contessa, Marina era inconsolabile, non usciva mai o quasi mai dalle sue stanze. Del matrimonio non gli aveva detto verbo, ma gliene aveva parlato Giovanna. La povera Giovanna, sparuta, lagrimosa, gli aveva fatto infinita pietà. Il suo gran pensiero era il conte; del resto si curava soltanto per le impressioni che potesse riportarne il suo ammalato, ricuperando la intelligenza. Ell'avrebbe voluto che il matrimonio si facesse subito e se ne andassero via tutti. Secondo lei, quella signora contessa e quel signor conte di Venezia non miravano che ai denari. Le avean già domandato s'ella sapeva che il suo padrone avesse fatto testamento.
«Ma vi è qualche cosa che mi mette più angustia di tutto questo» soggiunse Steinegge. «Ho veduto Silla.»
Edith tacque.
«Oh, mi ha fatto una impressione di trovarlo lì! Parve sorpreso anche lui, ma mi sfuggì, mi salutò appena, non mi chiese di te, niente!»
«Non c'era bisogno, papà, che ti chiedesse di me.»
«Ma eravamo pure buoni amici, io credo? Non è naturale questo. Temo di saper troppe cose, Edith. Temo... Tu puoi capire cosa temo. D'altra parte, quella sera, a Milano, pareva ben guarito quando si parlò del matrimonio. Non è vero, mi pare di averti già raccontato...»
«Sì, sì, lo so, papà. Dove andiamo? Qui non è piacevole.»
Avean raggiunta la strada comunale. Vi faceva scuro, Venere era scomparsa; l'aria portava dalle bassure della valle uno sparso gracidar di rane, un odore grave ai prati umidi.
«Prendiamo a sinistra» disse Steinegge «faremo il giro e torneremo a casa per il paese e la chiesa.»
Si avvicinarono pian piano verso il villaggio, a braccetto. Edith parlò della cara Germania e del passato. Avea sempre da raccontar qualche cosa di nuovo sulla sua adolescenza, qualche cosa che le tornava alla memoria a caso, specialmente nelle ombre della sera. Suo padre se ne commoveva, s'inteneriva, non tanto per le piccole vicende narrategli, quanto per l'idea che adesso gli anni tristi eran passati, che ella era lì al suo fianco.
Nel villaggio trovarono don Innocenzo che usciva da una povera casupola. Udirono una donna, che lo avea accompagnato col lume sulla via, dirgli angosciosamente:
«E così, signor curato?»
«Fatevi coraggio, Maria» rispondeva don Innocenzo «donatela al Signore.»
La donna appoggiò il capo al muro e pianse.
«Andate, Maria, tornate su» disse don Innocenzo dolcemente.
La donna piangeva sempre e non si moveva.
«Si conforti» disse Edith. «Pregheremo per lei.»
Quella si voltò al suono della voce sconosciuta e rispose come se avesse dimestichezza con Edith.
«Venga su anche Lei, venga a veder com'è bella.»
Don Innocenzo sulle prime si oppose, ma Edith volle contentar quella povera donna e salì con lei dall'inferma. In cucina due fanciulle giocavano sedute a terra. Il padre, curvo sul fuoco, stava riscaldando un caffè; non si mosse né a salutare né a guardare. Chiese bruscamente a sua moglie:
«Devo portarglielo?»
«Oh, Signore!» diss'ella sconsolata.
Egli proferì, con voce rotta, poche parole iraconde e sedette, cupo, sul focolare.
L'ammalata era una fanciulla di dodici anni, bionda, delicata, che moriva tranquilla, credendo di guarire.
Edith ridiscese pochi minuti dopo nella via dove suo padre e don Innocenzo l'aspettavano.
«È da vergognarsi» diss'ella «di tanti nostri piccoli dolori.»
Nessuno dei tre aperse più bocca a casa, dove si divisero. Steinegge, sentendosi stanco, andò a letto, don Innocenzo si ritirò nel suo studio a dir l'ufficio. Edith andò in cucina ad ascoltare una conferenza di Marta su vitali argomenti d'economia domestica, sui prezzi dello zucchero e del caffè, sul modo di «metter là» i pomidoro e i capperi in aceto, sulla tela più robusta e a buon mercato. Dopo mezz'ora di chiacchiere Edith lasciò la cucina e venne a bussar sommessamente all'uscio dello studio.
Don Innocenzo non si aspettava la sua visita; le domandò sorridendo se fosse accaduta qualche cosa. Ella rispose:
«No, volevo dirle una parola.»
Il prete comprese tosto dal volto di lei che doveva essere una parola grave, e si compose pure a gravità.
«Prego» diss'egli, alzandosi a mezzo e accennando una sedia presso di lui. Quindi attese in silenzio.
Passarono due minuti prima che le labbra di lei si aprissero. Don Innocenzo si pose a guardare attentamente il piano della scrivania, a spazzar col mignolo della destra, a soffiar via leggermente una polvere immaginaria. Finalmente Edith parlò.
Ella non fece alcun preambolo e cominciò subito a raccontare quello che suo padre le aveva detto intorno alla passione concepita da Silla per Marina prima della sua fuga dal Palazzo; proseguì a dire dello strano contegno, degli strani discorsi tenuti da Marina durante la gita all'Orrido, delle proprie impressioni nell'udir annunciare, quella stessa sera, il matrimonio Salvador. Narrò quindi con voce men sicura il passeggio sui bastioni, la indifferenza ostentata con la quale Silla avea accolto la notizia che le nozze stavano per celebrarsi, le confidenze che le aveva fatte poi. Soggiunse risolutamente, lottando con la emozione interna e vincendo, che si era confermata quella sera in un sospetto concepito qualche tempo prima riguardo alle disposizioni di Silla verso di lei; che non v'era stato un discorso diretto ma molti indizi, e che il proprio contegno era forse apparso tale da lasciar credere a una corrispondenza di sentimenti. Disse, coprendosi il viso con le mani, che n'era dolentissima e se ne trovava ben punita.
«Oh Dio» disse don Innocenzo con voce imbarazzata «fin qua... poi... non so... ma non mi pare...»
Allora venne il racconto della mattina seguente della visita di Silla, della gelida accoglienza fattagli, delle parole trovate nel suo libro. Qui don Innocenzo si scosse, indovinando, assai tardi, a quale sospetto conducesse il racconto di Edith. Ella non tacque il recente incontro di Silla con suo padre e la impressione riportatane da questo. Temeva di qualche triste mistero nascosto nell'ombra del Palazzo!, si rimproverava di aver favorito, per poca vigilanza, un sentimento che, non accolto, poteva spingere Silla a men che onesti propositi.
«Ho creduto» diss'ella «di dover raccontare tutto a Lei perché mi pare bene che Lei, andando al Palazzo, sappia queste cose quantunque vi sia del biasimo per me.»
Don Innocenzo si fregava le mani lentamente, suggendo l'aria come se gli dolessero.
«Non so proprio» diss'egli «quale biasimo vi possa essere...»
Pareva tuttavia che una lieve ombra fredda ve ne fosse dentro di lui. Masticava parole vaghe come chi non arriva a raccapezzarsi bene. Domandò a Edith che uomo fosse questo signor Silla. Ella disse che lo credeva uno spirito nobile, ma ammalato, offeso dalle contrarietà della vita.
«E Le pareva che avesse inclinazione per Lei?»
Edith non rispose.
«Ma Ella dal canto Suo non ne provava alcuna per lui, e solo per un equivoco il signor Silla poté sperare d'essere corrisposto?»
«No, signore, temo di no, non per un equivoco.»
Ella pronunciò queste parole a voce bassissima, chinando la fronte alle mani conserte sulla scrivania.
Don Innocenzo tacque guardando i capelli giovanili, lucenti di bagliori dorati. Quella scoperta gli faceva pena; gli doleva trovar passione dove aveva pensato non esser che pace, gli doleva veder piegarsi afflitta la bella testa intelligente. Al tempo andato, nelle lunghe ore ch'egli soleva passare meditando e leggendo, nel suo studiolo, altre immagini di donne pensose e vereconde erano salite dalla terra o uscite dai libri santi innanzi agli occhi suoi. Gli pareva ora che la rauca voce dell'orologio gli dicesse «ti ricordi?». Ecco, dopo tanti anni, una di queste figure, viva e vera, non più pericolosa ormai per lui che per un fanciulletto innocente. E soffriva di vederla ferita, perché vi era pur qualche cosa in lei della sua propria giovinezza intemerata, di certi ideali femminili contemplati a quel tempo, con trepida riverenza, da lontano.
Edith alzò il viso e se lo coperse con le mani.
«Temo» diss'ella «di non aver fatto tutto il possibile per nascondere l'animo mio.»
«Ma, se questo giovine signore ha uno spirito nobile, se aveva inclinazione per Lei, se Ella stessa... scusi, sto alle Sue parole... se Ella stessa... ma perché allora?»
Le mani le caddero dal viso, due occhi umidi brillarono davanti a don Innocenzo.
«Oh, signor curato, Lei che sa, come può credere? Come farei ciò mentre mio padre ha tanto bisogno di me? Mettere accanto e forse contro al mio dovere di figlia un dovere più forte! Sarei venuta in Italia per questo, signor curato? Non è poi neppure la mia vocazione; ne sono convinta.»
«Veramente convinta?» disse don Innocenzo, grave. «Sa veramente quanto è grande oggi, quanto lo può essere domani il sacrificio che si propone?»
«No» rispose Edith giungendo le mani «non dica questo, non dica questo! Ciò che faccio è niente rispetto a quanto io debbo a mio padre. Così Dio mi accordi ch'egli venga alla fede! Intanto, son felice che non abbia sospettato di nulla. Quanto a me potrò anche dimenticare. Lei mi aiuti!»
Povero prete, aiutare a combatter l'amore! Nella sua grande bontà ingenua, il sacrificio di Edith gli pareva irragionevole. Se quest'uomo era nobile, se l'amava, certo avrebbe amato egli pure con affetto filiale il padre di lei, certo avrebbe cooperato al santo fine che Edith si prefiggeva.
«È necessario» diss'egli «è utile davvero questo sacrificio? Pensiamo bene. Potrebb'essere che Suo padre desiderasse veder Lei collocata, che questo pensiero gli procacciasse delle angustie segrete. Anche questo; sa Ella di quanti e quali mezzi si può servire Dio per condurre alla fede un'anima? Forse nell'ambiente di una famiglia cristiana ve ne sono tanti che Lei adesso non immagina neppure. Parlo per l'avvenire. Per quello che è stato metta il Suo cuore in pace. Se qualche male avesse a succedere, nessuna colpa può ricadere sopra di Lei. No, nessuna, lo creda. Quand'anche Ella avesse dato a questo signore segno... non so... di simpatia, insomma, Ella non sarebbe mai responsabile davanti a Dio delle azioni disoneste che colui ora commettesse.»
«No» diss'ella «ma però sarebbe un gran dolore.»
Don Innocenzo tacque; cercava parole che non venivano. Gli facevano invece violenza altri pensieri generati dal racconto di Edith; il sospetto di una trama disonesta, il dubbio di dover fare qualche cosa presto, fors'anche subito, per combattere i disegni che Edith pareva attribuire a Marina e che Marina stessa le aveva manifestati indirettamente dal settembre, parlando di un'amica sua sposatasi per odio e per disprezzo, per giungere all'amante attraverso il marito.
«Mi parli con piena sincerità» diss'egli ex abrupto: «è convinta o no che vi sia un accordo tra il signor Silla e donna Marina? Non abbia riguardi: non si tratta qui di maldicenze né di quei giudizi che il Vangelo riprova. Il mio ministero potrebbe forse venir esercitato per il bene e io debbo sapere, per quanto è possibile, la verità. Ella che conosce le persone e i fatti, mi dica schietto, che convinzione ha?»
«Due giorni fa non c'era di sicuro» rispose Edith «ma oggi temo di sì.»
«Come? Che ci sia accordo?»
«Temo che succeda: ho questo presentimento.»
«Teme che succeda» disse don Innocenzo parlando a se stesso, e, fattosi puntello d'un gomito alla scrivania, con il palmo della mano sulla fronte e le dita inquiete sul cranio, rifletté. Dopo qualche tempo aperse il cassetto della scrivania e ne tolse della carta.
«Ella non ha risposto» diss'egli «alle parole che il signor Silla scrisse in quel volume per Lei?»
«No, signore.»
«Come?» chiese don Innocenzo.
Ella presentiva forse la proposta del curato, parlava così piano!
«No, non ho risposto.»
Il prete si alzò in piedi.
«Bene, risponda» diss'egli.
Anche Edith, involontariamente, si alzò; vide, senz'altre parole, il concetto di don Innocenzo.
«Subito» disse questi, accostando il calamaio alla carta, che aveva posta sulla scrivania.
«Crede, signor curato, che questo possa essere un dovere per me? Subito?»
«Lo credo. Il mio dovere sarà poi di giudicare se e quando la lettera debba essere consegnata. Sieda al mio posto.»
Edith sedette tacendo, prese la penna con mano ferma e guardò il curato.
Gli occhi di lui presero un'espressione solenne, la fronte diventò augusta.
«Non so di queste cose» diss'egli commosso «ma ho sempre avuta l'idea che invece di un legame di passione, santificato o no, vi possa essere fra due anime veramente nobili, veramente forti, un altro legame d'affetto, santo in se medesimo; un amore, diciamo pure questa parola tanto grande, interamente conforme all'ideale cristiano dell'intima unione fra tutte le anime umane nella loro via verso Dio. Arrivo a dire che non v'è sulla terra niente di più bello di un legame simile, benché il legame coniugale sia sacro ed abbia un significato augusto. Ella vuol fare questo sacrificio a suo padre: sia; ma perché svellersi dal cuore anche la memoria della persona che Le fu cara? Perché rinunciare a un sentimento vivificante che Le fa desiderare il bene temporale ed eterno di questa persona quanto Lei stessa? Perché l'altra persona non potrebbe serbare un sentimento simile verso di Lei, sì che ambedue, sapendo l'uno dell'altro, battessero vie diverse nel mondo e compiessero i propri doveri con questo gran vigore nel segreto dell'anima? Scriva così, scriva così.»
«Lei è un santo» disse Edith. V'erano sul suo viso e nella sua voce dei tristi ma.
«Io sento bene» soggiunse «la bellezza di questa unione, ma gli basterebbe, a lui? Non combatterebbe poi con tanto maggior violenza il mio proposito, non mi porterebbe a cimenti dolorosi?»
Don Innocenzo rimase mortificato. Sentiva di conoscere il mondo tanto meno di lei, di non poter sostenere la discussione; ma il suo convincimento rimaneva.
«Sarà» diss'egli sospirando. «Scriva come vuole, anche poche parole, purché gli rialzino il cuore.»
Ella non disse niente, si mise a pensare con la penna in mano, guardando il lume. Il curato aperse la finestra e appoggiò le braccia sul davanzale. Le stelle lo guardavano, davano ragione a lui, ma la terra nera gli dava torto.
Dopo brevi momenti Edith lo chiamò, gli porse spiegato il biglietto che aveva scritto.
«No» diss'egli «non leggerò certamente; mi dica solo se son parole che possano infondere...»
«0h don Innocenzo» esclamò Edith, supplichevole «ho scritto, ho fatto il Suo desiderio. Legga se vuole, ma non mi faccia più domande, non me ne parli più!»
«Bene, bene, stia di buon animo, si ricordi che il Signore ci dice di non abbandonarci alla tristezza e vada a riposare che è tardi.»
Prima d'entrare in camera Edith origliò all'uscio socchiuso di suo padre. Dormiva. Non vi poteva esser per lei sonno più dolce, più commovente del suo respiro placido, eguale come quello d'un bambino. Andò a posar il lume nella propria camera, tornò lì al buio, appoggiò la fronte allo stipite ascoltando, cercando una pace, una forza di cui aveva bisogno.
In quel momento le ore pesanti caddero a una a una dall'orologio del campanile, batterono con la loro gran voce solenne sul tetto, sulle scale, sui pavimenti sonori della piccola casa addormentata. Edith alzò il capo a contarle con sgomento, come se fossero colpi menati a una porta di bronzo da qualche formidabile ospite inatteso.
Erano le dieci e mezzo.


4. L'ospite formidabile

Silla, ch'era sdraiato sull'erba, balzò a sedere e contò le ore. Dieci e mezzo. Trasse l'orologio, lo guardò al fioco lume delle stelle. Dieci e mezzo. Lo sapeva che dovevano essere le dieci e mezzo: aveva guardato l'orologio due minuti prima per la centesima volta. Abbrancò l'erba con le dita convulse, ne strappò due manciate. Marina aveva detto: dopo le undici.
Lasciò cader le braccia inerti, piegò il collo, si accasciò tutto come se un piede enorme gli calcasse le spalle. Pensò in quel momento con certa stupidità fredda e lenta all'atto sleale che stava per compiere sotto il tetto d'un amico ammalato gravemente; pensò ai propositi del passato, alla vicenda di cadute e di vittorie, sovra tutto al sinistro presentimento antico di un'ultima caduta senza rimedio, di un abisso orribile predisposto chi sa in qual punto della sua vita, dove si sarebbe perduto, anima e corpo, per sempre. Sentì senza sgomento d'esservi giunto, d'avere un piede proteso nel vuoto.
Un'amara energia gli corse le vene, ogni pensiero scomparve dalla sua mente, tranne il pensiero dell'ora che incalzava.
Era lì da un'ora allo stesso posto della sera precedente sull'erba del vigneto, accanto a un cipresso. Quelle cinque ore eterne del dopopranzo, che pareva non avessero a passar mai, eccole corse, svanite, come un secondo. Guardò l'orologio; mancavano venticinque minuti alle undici.
Andrebbe subito? Aspetterebbe là? Si crucciava di non sentire ardere il sangue di un desiderio più violento. Gli pareva esser torturato nel cervello e nei nervi dall'aspettazione febbrile; non altro. Forse l'incontro di Steinegge?... No, non voleva pensare a quel nome.
Si alzò ad abbracciare il gran tronco del cipresso, e, chiusi gli occhi, immaginò di origliare, fermo sulla scaletta; assaporò più volte, rinnovandone la immaginazione, il venir lento di un sussurro; sentì un'aura profumata, due piccole mani che prendevan le sue protese, e lo traevano su, nelle tenebre. Ella saliva a ritroso ed egli seguivala, muti l'uno e l'altra; ma le mani intrecciate parlavano insieme un linguaggio tanto inesprimibilmente forte e dolce che essi ristavano ansanti; quasi folli; e...
Si spiccò dal cipresso con una spinta impetuosa. Guardò ancora l'orologio: erano le undici meno un quarto. Passò dal vigneto sulla scalinata e discese adagio adagio, in punta di piedi, trattenendo il respiro, sostando ad ogni rumore che si mescesse al gorgoglìo delle fontane. Giunto nel cortile si fermò un istante. Nessun lume, nessuna voce usciva dal Palazzo nero. Prese a dritta, rasente il muro, sotto le sparse braccia pendule delle passiflore e dei gelsomini, spinse la porticina della darsena, entrò nel buio. Si vedeva solo, a sinistra, il principio della scaletta e sulla bocca della darsena l'ondular vago dell'acqua che di tratto in tratto posava sulla chiglia delle barche un bacio quieto. Allora balenò a Silla che forse quel convegno avrebbe potuto riescir diverso dalle immaginazioni sue, che forse Marina non l'amava, ch'era mossa da qualche strano capriccio. Avrebbe ella voluto prendersi giuoco di lui, lasciarlo lì tutta la notte?
Sedette sulla scaletta, guardando, per l'alto finestrino ovale che la rischiarava, uno spicchio di cielo, la punta di un cipresso, una stellina pallida.
Mancavano sette minuti alle undici. V'erano due minuti di differenza tra il suo orologio e quello della chiesa. A quest'ultimo dovevano essere le undici meno nove. Pensò che quando il suo facesse le undici, egli avrebbe ad aspettare due minuti ancora, due minuti eterni, tormentosi. Ed ecco sopra il suo capo, nelle profondità del Palazzo, da qualche orologio più affrettato degli altri, un batter di ore stridenti. Per donna Marina erano le undici.
Si alzò, salì la scala sin dove non giungeva più il chiarore del finestrino, puntò le mani alle due pareti e, proteso in avanti, stette in ascolto.
Silenzio.
Il gemer lieve d'un uscio gli fermò il respiro. Seguì un sussurro di passi cauti, una voce; non una voce, un soffio rapido:
«Renato!»
Silla si gittava già in avanti e gli ricadde il piede.
Un momento dopo udì chiamare ancora, ma più forte, stavolta:
«Renato!»
La voce gli pareva e non gli pareva di donna Marina. Diede un passo addietro.
Allora udì scender veloce un rumore di vesti, ristar di botto.
«Silla, Silla!» disse donna Marina.
Era ben lei; non poteva vederla, ma la sentiva in faccia, a pochi scalini di distanza.
«Non sono Renato» diss'egli senza muoversi.
«Ah, non ricorda il nome! La vostra mano!»
Balzò giù con impeto, cadde sul braccio sinistro di Silla che la strinse, l'alzò quasi da terra.
«Era vero» diss'ella con voce morente, tenendogli le labbra sul collo «era vero quello che mi avete detto ier sera?»
Silla non rispose, la strinse più forte, le baciò la spalla, si sentì premer forte la guancia da un'altra guancia di velluto, da un piccolo orecchio caldo.
«Era vero?» ripeté Marina teneramente.
Non si poteva sentirsi palpitar sul petto quella bellezza altera, respirare il tepore odoroso che le usciva dal seno, udirsene al collo la fioca voce e non perdere ogni lume di pensiero. Silla poté dir appena:
«E tu?»
«Dio, da quanto!» rispose Marina. Poi, come per subitaneo pensiero, si sciolse con impeto da Silla, gli appuntò le mani alle spalle.
«Dunque non ti ricordi tutto!» diss'ella.
Egli non capì, rispose a caso, ebbro, tendendo le braccia:
«Tutto, tutto!»
«Anche di Genova?»
Le parole strane non entrarono nella mente di Silla, che ripeté impaziente:
«Tutto, tutto!»
Marina gli afferrò le mani, gliele congiunse con impeto.
«Ringrazia Dio» diss'ella.
Stavolta il nome terribile gli strinse le viscere come un pugno freddo.
Egli tacque stupefatto, a mani giunte. Marina tacque pure per pochi momenti, aspettando ch'egli pregasse col pensiero; quindi gli passò la mano destra sotto il braccio, e sussurrò: «Adesso andiamo!» e si volse a risalir la scala.
Egli si lasciava tirar su, restando uno scalino indietro, tacendo.
Trovarono un pianerottolo dove la scaletta svoltava a destra.
«Vieni, dunque» disse Marina, lasciando il braccio di lui e cingendogli col proprio la vita. Gli posò quindi la bocca all'orecchio, vi gettò dentro un bisbiglio.
Egli dimenticò le parole incomprensibili di prima, tornò cieco, le rispose.
«Zitto, adesso» diss'ella mettendogli la sinistra sulle labbra.
Spinse una porticina ed entrò in un corridoio. Teneva Silla per mano e lo precedeva, camminando cauta rasente la parete. Ad un tratto si fermò, credette udir passi e voci, stette in ascolto.
Le voci venivano dal piano inferiore, dal corridoio vicino alla camera del conte.
Non vi badò più, andò avanti. Si udì la sua mano tentar un uscio, girar una maniglia. Una lama di luce brillò nel corridoio, un odor di rose avvolse Silla. Entrarono.
V'erano candele accese sulla ribalta calata dello stipo, sul piano aperto, sopra una libreria bassa. Dalla porta spalancata della camera da letto entrava pure un debole chiarore. Grandi mazzi sciolti di glicine celesti, di rose bianche e gialle erano sparsi un po' dappertutto.
Marina saltò nel chiarore delle candele, trasse dentro Silla, chiuse l'uscio, ne girò la chiave, tutto in un lampo, lucente gli occhi di riso muto, lucente d'oro il collo e i polsi ignudi, bianca, a grandi ricami azzurri, la persona. Lasciò Silla, balzò in due slanci al piano e prima che egli ne la strappasse, attaccò, con fuoco demoniaco, la siciliana del Roberto.
«Li sfido!» diss'ella lasciandosi trascinar via. «Li ho sfidati bene anche ieri sera: no? E non hanno inteso niente.»
Silla aspettava che qualcuno, inteso il piano, salisse.
Marina si strinse nelle spalle, si sciolse da lui, cadde quasi supina in una poltrona.
«Qua!» diss'ella, accennandogli di sedere a terra presso a lei. «Tutte le tue memorie.»
Silla non rispose.
«Il ballo, prima» soggiunse subito Marina. «Non comprendi? Il ballo Doria!» ella batté il piede a terra impaziente.
«Non comprendo» diss'egli.
Marina si rizzò di schianto a sedere.
«Non m'hai detto che ti ricordi?» V'era in lui un demonio che s'irritava di queste ciance vane, non si curava di comprenderle o no. Prese colle mani di ghiaccio quelle di lei, la piegò a forza sulla spalliera della poltrona, si curvò a risponderle.
«Non so nulla, non ricordo nulla. Non ho vissuto mai, mai tranne adesso. Sapevo solo che sarebbe venuto, questo momento! Ho la frenesia di goderlo.»
Egli provava la sensazione vertiginosa di scendere in un gran vuoto senza fondo, desiderava avidamente di precipitare sempre più giù, senza rimedio.
«Non stringermi così» disse Marina cercando svincolar le mani. «Non voglio!» esclamò, poiché l'altro non l'ascoltava. Fu tanto superbo l'impero del suo sguardo e della sua voce che Silla obbedì. Si alzò in piedi, si allontanò da lui lenta, a capo chino. Si voltò improvvisamente, batté il piede a terra.
«Pensa! Ma pensa!» disse.
Un brivido corse pel sangue a Silla, glielo raffreddò. Non so quale informe presentimento pauroso sorgeva in lui.
Marina gli chiese precipitosamente:
«Perché mi hai chiamato Cecilia quella sera?»
«Perché avevo scoperto ch'eri la Cecilia delle lettere.»
Ella rifletté un istante e disse con calma:
«Certo, me l'ero ben immaginato. Ma ieri a sera» soggiunse con l'impeto di prima «ma poco fa, perché dirmi che ti ricordi?»
«Perché ho creduto che parlassi della nostra corrispondenza e del momento in cui ti strinsi fra le braccia, qui sotto, in darsena.»
Ella sedette allo stipo, ne cavò il manoscritto, parve immergersi per qualche minuto nella lettura delle vecchie carte giallognole, si alzò bruscamente.
«Ti dirò un segreto che riguarda anche te» diss'ella, e spense prima le due candele dello stipo, quindi le altre del piano, della libreria, tranquillamente, senza proferir parola, come se quelle fiamme fossero vive e potessero udire. Solo dalla porta aperta della camera da letto entrava un chiaror languido sul pavimento, sui mobili più vicini.
Marina prese Silla pel braccio, lo trasse nell'angolo più oscuro, presso la porta del corridoio, gli sussurrò:
«Tu non sai chi sono.»
Egli non comprendeva, non rispondeva: quell'informe presentimento saliva in lui angoscioso.
«Ti ricordi quella sera in loggia, la dama che tu accusavi, per cui mi sdegnai?»
Silla taceva sempre.
«Non ti ricordi? La contessa Varrega d'Ormengo?»
«Sì» diss'egli ricordandosi a un tratto, aspettando ansiosamente che Marina si spiegasse. Ma ella gli posò la fronte ad una spalla e ruppe in singhiozzi dicendo due parole che Silla non intese. Piegò il viso sui capelli di lei, la pregò di ripeterle.
«Sono io» diss'ella singhiozzando ancora. E tosto un movimento involontario di Silla, una sommessa esclamazione dolorosa la scossero. Dié un passo indietro, esclamò:
«Dunque mi credi?...»
«Oh no!» interruppe Silla.
La parola, non proferita, indovinata, risuonò più forte.
Marina non piangeva più. Disse piano:
«Come siete tutti bassi. Dio!»
V'era stato un tempo in cui nessuno avrebbe potuto dir basso Corrado Silla; ma questo tempo non era più ed egli lo sentì acutamente.
«Tu, tu» continuò Marina «tu mi hai scritto che questa era la tua fede, una vita precedente. Ma che fede era mai? Era una fantasia, e non una fede. Ti dico "è vero" e tu hai paura, mi credi pazza! Chi ti aveva detto, piccolo cuor vile, di fare il grande? Va!»
Una dopo l'altra le parole fiere frustavano Silla in viso, lo avvinghiavano nella loro logica veemente, lo irritavano, gli mettevano un'avidità crescente di sapere, di udire. Egli la incalzò di domande violente, passando dalla preghiera allo sdegno. Ella lo ribatteva indietro colla sua sillaba dura:
«Va! Va!»
Finalmente si arrese.
«Ascoltami!» disse «camminiamo.»
Si avviarono lentamente, girando intorno al piano, passando ad ora ad ora nel chiarore che veniva dalla camera da letto, perdendosi nell'ombra. Marina parlava rapidamente, tanto sottovoce che Silla, per udirne le parole, dovea piegar l'orecchio alla bocca di lei.
V'era sul suo viso, le prime volte che passò nella luce, una curiosità febbrile: quindi vi ripassò con gli occhi vitrei sbarrati. Marina parlava tenendosi sempre un pugno stretto alla fronte. Ad un tratto, nell'ombra, si fermarono. «Ma come?» diss'egli. Marina non rispose. Un momento dopo si udì lo scatto di una molla. Poi egli fece un'altra domanda sommessa. Marina andò nella camera da letto, ritornò con una candela accesa, la posò sullo stipo. Anche ella era livida e gli occhi suoi avevano una cupa espressione indefinibile. Silla afferrò il manoscritto avidamente. Marina seguiva, attenta, la sinistra storia sulle labbra mute, sulle sopracciglia, sulle mani tremanti di lui. Durante quel mortale silenzio, passi precipitati suonarono a più riprese nel corridoio del piano inferiore, ma né l'uno né l'altro li udirono. Di tempo in tempo Silla fremeva, pronunciava, leggendo, alcune parole; ed ella allora, alitando affannosamente, appuntava l'indice sul manoscritto.
«Ti ricordi questo?» le diss'egli una volta. continuando a leggere.
«Tutto, tutto» rispose. «Leggi qui, leggi forte.»
Silla lesse: "Dicevano che rinascerei, che vivrei ancora qui tra queste mura, qui mi vendicherei, qui amerei Renato e sarei amata da lui; dicevano un'altra cosa buia, incomprensibile, indecifrabile; forse il nome ch'egli porterà allora".
«E tu non ricordi!» diss'ella dolorosamente.
Egli non la intese, soggiogato dal fascino del manoscritto: tirò via a leggere in silenzio. Un altro passo lo fe' inorridire, lo costrinse ad alzar la voce leggendo:
"Allora, allora vorrei rizzarmi sul cataletto e parlare."
«E ho parlato» diss'ella «l'altra notte, come se fossi appena uscita dal cataletto; l'ho ferito a morte.»
Silla non le badò, continuò a leggere. Giunto alle parole: "Quando nella seconda vita", si vide strappar di mano il manoscritto da Marina, che gli prese poi a due mani la testa, gliela curvò, gliela strinse.
«E tu non credevi!» disse. «Ma poi ti ho perdonato perché ti amo, perché Dio, vedi, Dio vuole così; e poi perché anch'io, sulle prime, non ho creduto. Ecco, mi sono inginocchiata qui. Così.»
Cadde ginocchioni, appoggiò le braccia e il capo sulla ribalta dello stipo.
«E ho pensato, ho pensato, ho cercato nella mia memoria. Niente. Ma poi la fede m'è venuta come un fulmine, ho creduto» soggiunse balzando in piedi, mettendo una mano sulla spalla di Silla «e adesso, da pochi giorni, mi ricordo di tutto, di ogni minuzia.» Si fermò, lo guardò un momento negli occhi, e, piegato il capo sul petto, disse teneramente:
«Non comprendi che sono stata, che l'anima mia è stata nella tomba tanto e tanto, non so quanto, prima di sciogliersi da quell'altra cosa orribile? Parlami d'amore, vedi quanto ho sofferto. Spero che ti ricorderai anche tu. Ti ho le labbra sul cuore; vorrei vedervi dentro, aiutarti a trovare. E t'ho amato subito, sai; appena ti vidi, la prima volta.»
La ragione di Silla si oscurava ancora per il turbamento della lettura, per la molle bellezza di Marina, per la voce blanda, più voluttuosa del tocco.
Ella rialzò il capo. «Ma non volevo» disse. «Bisogna pure che ti dica tutto. Credevo che il conte Cesare ti avesse fatto venire per me; volevo odiarti, mi sarei morsa il cuore perché, quando ti vedevo, quando ti udivo, palpitava. Ah, quella sera in barca, dopo le tue parole superbe, insolenti, se tu avessi osato! Quando mi riconducesti alla cappelletta...»
«Alla darsena» diss'egli involontariamente.
Ella fece un gesto d'impazienza.
«Ma no! Alla cappelletta: non ti ricordi? Quando mi riconducesti là e mi lasciasti, gittandomi il mio primo nome, caddi come morta. Ripensai e compresi; mi dissi: è lui, sarà lui; presto o tardi, contro tutto, contro tutti, sarà lui, qui. Vengono i Salvador, per me. Lo sai che son parenti della famiglia d'Ormengo? Allora Dio, perché la volontà di Dio sfolgora in tutta questa cosa, Dio mi fece vedere la vendetta che veniva da sé. Guarda, la sera stessa in cui fu conchiuso il ma
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