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Info sull'Opera
Autore:
Emilio De Marchi
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Demetrio Pianelli (III Parte,3,4 )

di Emilio De Marchi

III

Il giovedí dopo Pasqua Arabella doveva fare la sua prima comunione.
Lo zio Demetrio si svegliò piú presto del solito, e saltò giú in fretta. Per la circostanza tirò fuori da un cassettone un certo redingotto di panno nero bleu, che scosse fuori della finestra per liberarlo da tutto il pepe che aveva dentro, e trasse dall'astuccio anche un vecchio cilindro che non usciva da molti anni a vedere il sole, ancora bello, se si vuole, ma giú di moda... Mise al collo un fazzoletto bianco, si fece la barba, e prima delle sette corse in Carrobio con un vivo desiderio di esserci. Non si fermò che un momento in via delle Asole dall'Albizzati, dove comperò alcune immagini col pizzo e un angelo di biscuit colla piletta dell'acqua santa per regalarlo alla nipotina.
Demetrio non era avaro. Anche a lui piaceva fare dei regali, se avesse potuto spendere. Bel merito di farsi voler bene, quando si hanno i denari del signor Paolino delle Cascine! A lui invece era sempre toccata la maledetta sorte di tribolare per gli altri, per farsi odiare. Ma poiché da qualche parte questa fortuna stava per arrivare, voleva far vedere che anche lui sapeva essere grande e generoso. Non c'è mestiere piú bello che fare lo zio d'America.
A Beatrice non aveva detto ancor nulla dei grandi discorsi di Paolino; ma farse era arrivato il momento di lanciare una prima parola. In un giorno di festa e di pace, in cui di solito si mettono in disparte i rancori e i corrucci, non era difficile trovare il momento per avviare un discorso di tanta importanza.
Arrivò in Carrobio mentre i ragazzi stavano vestendosi. Trovò Mario e Naldo in cucina che s'impegolavano le mani e la faccia col lucido, con cui cercavano di rendere pulite le scarpe. Lo zio arrivò a tempo a dar loro una mano.
«È vero, zio, che Arabella oggi diventa il tabernacolo dello Spirito Santo?» disse Mario. «L'ha detto il predicatore ieri sera.»
«Sicuro.»
«Naldo non voleva credere.»
Il piccolo miscredente si pose a ridere. Gli pareva una parola cosí strana questo tabernacolo...
In quella entrò Ferruccio. Anche il bel ricciolone doveva presentarsi per la prima volta alla Sacra Mensa e s'era lavato il muso e le mani in un modo straordinario. La signora Grissini gli prestò per la circostanza, un vestito d'un suo figlio morto vent'anni innanzi, e cosí aggiustato con certi guantini bianchi, che gli squarciavano e gli indurivano le dieci dita delle mani, Ferruccio venne a cercare Arabella.
Essa gli aveva promesso un bel cravattino bianco. La fanciulla, sentendosi chiamare, venne un momento in cucina, avvolta in una nuvoletta bianca, cioè in un vestitino a blonde leggiere con pizzi volanti, con un velo appuntato nei capelli. Se avesse potuto vederla il suo papà, che era tanto ambizioso di quella sua bellezza! Che caro angiolino con quei capelli color del lino, sciolti sulle spalle! Lo zio Demetrio sentí una mano che gli carezzava il cuore, una mano di velluto.
Arabella si fermò il tempo di mettere la cravatta a Ferruccio, che lasciò fare, stando ritto in mezzo alla stanza. Le piccole mani della fanciulla si agitarono un poco, il nodo fu fatto, accomodato: aggiustò anche la capigliatura cespugliosa del ragazzo coll'aria materna di chi dà due scappellottini.
«Sta raccolto e pensa alla tua mamma» gli disse.
Ferruccio rispose di sí col capo. Se egli aveva capito qualche cosa della Santa Eucaristia, lo aveva imparato in quei giorni da Arabella, che accesa di carità non voleva che Ferruccio per ignoranza commettesse qualche sacrilegio. Il ragazzotto era capace anche di far colazione prima di ricevere il Signore. Ma ora aveva capito bene quel che doveva fare.
«To', ti ho portato un angiolino» disse lo zio, scartocciando il suo bel regalo.
Arabella lo accolse con un piccolo grido di gioia:
«Com'è bello! Troppo bello, zio... Grazie!»
Si alzò sulla punta dei piedi e baciò lo zio sulla fronte.
Demetrio a quel contatto di piuma sentí una freschezza ineffabile per tutta la vita e insieme un profumo di... come dire? un profumo di anima.
A San Lorenzo ripigliarono a suonare a festa.
«Presto, ragazzi, che non c'è tempo da perdere.»
Demetrio, caduto in mezzo a quella brigatella di ragazzi, sentiva al di sotto della roccia indurita scorrere, come un fiume, una profonda commozione che cercava modo di uscire. Se non che la vecchia e scontrosa volontà faceva forza e premeva giú. L'uomo selvatico chiudeva strettamente la bocca per non dare adito all'emozione e cercava di mutare la compunzione in un senso di corrucciata impazienza.
«Fate presto, dunque» tornò a ripetere. «La mamma non è pronta?»
A lui il destino non aveva mai concesso una giornata serena, nemmeno nella fanciullezza. Arabella era la prima ragazzina che osasse alzare le braccia a lui e baciarlo sul viso. Nella sua povera vita, secca come una siepe d'inverno, non era mai passata una sola farfalla.
Naldo volle che lo zio gli allacciasse una scarpetta.
Lo zio lo fece sedere sul tavolo e prese in mano la gambetta del bambino.
Mentre egli stava ancora tutto intento a infilare la stringa negli occhielli, Beatrice, avvertita da Arabella che non c'era tempo da perdere, venne tutto ad un tratto in cucina a prendere un secchiello d'acqua.
Non aveva sentito che Demetrio fosse lí; e venne come si trovava, cosí in sottanino, colle braccia e colle spalle scoperte, cosí come s'era distaccata dalla catinella.
Vedendo suo cognato, si confuse, sorrise, balbettò qualche parola di scusa, le sue spalle diventarono di fuoco, e tornò indietro ridendo, lasciando sulla soglia il secchiello vuoto, che Mario portò in stanza pieno d'acqua.
Demetrio, non sapendo se dovesse ridere e chiedere scusa, o che cosa fare, seguitò a infilare la stringa negli occhielli con una contrazione del viso rigida e dura, che gli indolenziva i muscoli e gli zigomi della faccia.
Una settimana prima, quell'apparizione bianca e rosa non gli avrebbe fatto alcun effetto: ma adesso, dopo che quell'asino di Paolino era venuto a contargli cento storie d'incantesimi e di stregherie, quell'apparizione pareva quasi una risposta a una dimanda, fatta già piú volte a sé e alla quale non si era mai sentito obbligato di rispondere. Un gran calore, come se fosse dall'uscio divampata una fiammata, inviluppò il suo corpo. Sentí la fiamma al viso, il suo corpo tremò e vibrò un pezzo come il filo di un parafulmine dopo lo scoppio. Qualche cosa come una nebbia si stese tra lui e la luce del sole.
«Andiamo, andiamo...» disse cacciando avanti i due maschietti e la bambina, ai quali si aggiunse da basso Ferruccio.
Il Berretta per la circostanza s'era messo in abito d'estate, e andava alzando le mani come se volesse dire qualche cosa, quantunque fosse certo di non aver nulla da dire.
«Sor Demetrio...» disse salutando, aggiungendo anche una risatina.
Stettero ai piedi della scala ad aspettare la mamma ch'era sempre in ritardo. Finalmente quella benedetta donna si sbrigò, chiuse l'uscio e venne giú correndo, mentre infilava i guanti.
Aveva indosso un vestito non interamente di lutto, ma il piú scuro di quanti aveva potuto sottrarre all'avida avarizia di suo cognato. In testa non aveva che un velo grande, accomodato colla grazia che le lombarde sanno dare al velo, con molte pieghe che si annodavano quasi da sé sopra una spalla, dove scintillava un grosso B di metallo bianco.
Beatrice cercò d'essere la prima a salutare suo cognato per non portare in chiesa, in un giorno come questo, un senso cattivo di avversione e di antipatia. Arabella diede il braccio alla mamma e andò avanti. In mezzo si misero i ragazzi e in fondo chiudevano la processione Demetrio e il Berretta, che non sapeva dove collocare quelle benedette mani.
Dal Carrobio alla parrocchia di San Lorenzo sono quattro passi, che Demetrio percorse senza pensare letteralmente a nulla. Alzò un momento gli occhi alle famose colonne romane, avanzo delle terme di Massimiliano Erculeo, mentre il Berretta gli diceva che stavano bene, ma che impedivano il passo. Due o tre volte cercò con un'occhiata rapida e fuggitiva la madre e la figlia che camminavano innanzi... Ma non pensò nulla di preciso. Solamente si sentiva un poco riarsa la pelle della faccia.

Nel cortile che sta davanti all'insigne basilica trovarono delle conoscenze: il maestro Bonfanti, che doveva far cantare un suo mottetto, e Giovann dell'Orghen, venuto per tirare i mantici. In tutta Milano, che è grande, non c'era una mano piú grande di quella di Giovann dell'Orghen, che, essendo sordo, non si lasciava menar via il capo dalle onde della musica.
«Che figuretta! tutta la mammina» disse il maestro all'Arabella, che nell'abito largo di pizzi pareva ingrandita.
C'erano anche i coniugi Grissini, i vicini di casa.
La Signora Barberina a veder Arabella si sentí venir le lagrime agli occhi e non poté dire che una frase:
«El mè angiolin.»
Il signor Grissini, archivista in riposo, assiduo lettore della Storia della Rivoluzione francese, stava in un certo riserbo, come chi ha le sue idee a parte, pur rispettando quelle degli altri.
La facciata della chiesa era addobbata di festoni bianchi, azzurri, rosei, con orlature d'argento, e in mezzo a queste un gran cartello invitava le anime giovinette a pascersi del pane degli angeli.
Era una giornata proprio d'aprile, piena di quel sole che schiude l'animo alle speranze della stagione.
Passata la soglia della chiesa, li accolse un tiepido profumo di rose e di gigli. Sotto la gran tazza della cupola, che copre la rotonda, erano state preparate le Sacre Mense, in mezzo a cespugli di sempreverdi e di fiori.
L'altar maggiore brillava nella luce del sole che, passando attraverso a tende bianche, andava a sbattere sopra un padiglione bianco, nel quale cozzavano i diversi bagliori dei candelieri, dei vescovi d'argento e dei fregi d'oro del tabernacolo.
Anche sull'altar maggiore, negli spigoli, sulle gradinate, dappertutto, vasi, cespugli verdi, rose, gigli.
Sopra quella festa allegra di colori chiari giravano le brune arcate di quel massiccio tempio alla romana, colle sue profonde tribune e coi balaustri e le forti costolature di pietra.
Sebbene la cerimonia non fosse ancora cominciata, già molte testine bionde e nere erano abbassate in un pio raccoglimento, i maschi da una parte, le bambine dall'altra. Arabella colla mamma passò a sinistra. Demetrio coi maschietti e col Berretta a destra, in mezzo alla folla che andava raccogliendosi.

Arabella in tutti i suoi passi sentivasi seguita dall'ombra del suo papà. Aveva promesso di offrire tutti i meriti e tutte le indulgenze del Sacramento in sollievo dell'anima sua: ed ora, nel momento che il Signore stava per discendere fino a lei, la povera orfanella avrebbe voluto offrire il cuore in olocausto.
Venti ragazzi sulla cantoria intonarono il Salutaris ostia Tutte le testoline raccolte intorno alla Mensa si piegarono avvolte nell'onda mistica di quelle voci bianche. Arabella sola guardava l'altare e pregava, fissa, cogli occhi quasi allucinati. Diceva colla voce del cuore: "Prenditi la mia vita, fammi morire adesso, ma salva l'anima sua" e quasi le pareva di sentire una mano fresca e leggiera posarsi sulla spalla. L'anima era lí dietro, come una persona che aspetta con pazienza.
L'organo, dopo aver accompagnato i celebranti col suono ripieno delle sue canne maggiori, attenuò a poco a poco le voci, introdusse suoni teneri e palpitanti di flauto e di voce umana. Globuli d'incenso si svolsero e si colorirono nel raggio obliquo del sole, che traversava lo spazio e andava a risplendere sui marmi colorati del pulpito.
Demetrio, intenerito, cercò cogli occhi Arabella per associarsi a lei nei frutti del Sacramento.
Dietro la fanciulla vide Beatrice e accanto un'altra signora magra, che riconobbe per la Pardi.
Beatrice, col libro delle preghiere aperto nelle mani, colla testa e le larghe spalle diritte, avviluppata anche lei dalla dolce commozione di quelle voci bianche, leggeva, alzando di tanto in tanto le larghe palpebre. Il velo, nelle sue ombre molli e oscure, attenuava un poco la materialità della sua bellezza di provincia, ne alleggeriva un poco la corporatura, la sollevava insomma verso quel che i poeti chiamano l'ideale. Chiudeva il libro, tenendovi dentro l'indice, recitava un gloria colle labbra, abbassando un poco la testa fino a toccare col naso il velluto cremisi della sua Via al Cielo, tornava a rialzare il capo, a riaprire gli occhi sereni e buoni verso l'altare.
Che avesse ragione Paolino?
La Pardi non stava mai tranquilla, e, piú di una volta, da vero diavolo tentatore, cercò di far ridere Beatrice sul conto di quel bellissimo suo cognato in redingotto. Dio, che bellezza!...
Beatrice una volta le fece segno di finirla. La diavolessa s'inginocchiò in terra e si raccolse in una fervida preghiera.
Il Signore stava per discendere in mezzo agli innocenti.
I ragazzi del coro cominciarono un soave: O sacrum convivium, a sole voci, che richiamò la mente di Demetrio dalle strane divagazioni in cui cominciava a perdersi.
Stese in terra il suo fazzoletto di cotone, fresco di bucato, s'inginocchiò e strinse l'anima sua a pensieri piú casti e religiosi.
"C'è una grande Provvidenza al di sopra delle nostre tegole, delle nostre miserie e della nostra presunzione, e soltanto chi la nega è indegno di meritarsela.
"È questa fede nella forza superiore che sorregge il povero zoppo nel momento che perde il suo bastone, che trae a riva il naufrago nell'atto che la sua barca sta per affondare, che versa la consolazione nella lampada del cuore.
"Tu fa il bene per il bene e lascia che Dio aggiusti il conto. Dio è un ricco cassiere che non scappa mai.
"Non è l'arte del saper vivere che fa, ma il viver bene, anche sbagliando.
"Il bene che tu fai nella buona intenzione e nella carità del prossimo non si perde mai. Se hai speso tutto il tuo denaro per isfamare gli infelici, se ti sei spogliato quasi ignudo per vestire gli orfanelli, se hai asciugato le lagrime della vedova...."
Demetrio alzò un momento la testa e lanciò un'occhiata ancora a quella donna, che spiccava sopra il fondo marmoreo del pulpito...
"Se hai fatto del bene, ringrazia Dio che ha voluto procurarti le occasioni e t'ha preferito al ricco e al potente.
"Non invidiare dunque la fortuna del tuo vicino, salva il tuo credito intatto per l'eternità, e non lasciarti deviare dalle concupiscenze."
«Zio Demetrio, è adesso che Arabella diventa un tabernacolo?» chiese Naldo pian pianino con una voce commossa.
Arabella aveva nel cuore il suo Signore e se lo teneva ardente e stretto colle mani. Tutto l'essere suo era una fiamma, una soavissima fiamma d'amore, che s'irradiava visibilmente attraverso le rosee carni e alla nebbia del velo. Beatrice sentí gli occhi riempirsi di lagrime, e con quegli occhi lucenti andò a cercare gli altri figliuoli quasi per trarli anch'essi nella dolce comunione degli spiriti. Demetrio, che s'era tolto Naldo in braccio perché potesse vedere piú bene, sentí a quello sguardo correre una scintilla per tutto il corpo, e gli parve che la chiesa si riempisse di fiammelle e di frantumi di vetro.
"Che cosa era venuto a dire quel benedetto Paolino?"

Nell'uscire di chiesa egli provò una dolce vertigine, come se il profumo di tutti quei fiori lo avesse soavemente inebbriato, o fosse veramente disceso anche in lui uno spirito santo a rischiarare le povere pareti della sua vita interiore.
Mamma, figliuoli e amici s'incontrarono di nuovo davanti la chiesa in mezzo al gran bisbiglio della gente che usciva.
I bambini saltarono al collo di Arabella, si baciarono, fecero un lieto chiasso.
Beatrice col viso ancor fresco di lagrime venne lei per la prima a stendere la mano al cognato e disse qualche parola per avviare la pace, parola che Demetrio non afferrò.
«Sí, sí, sí...» egli seguitava a ripetere, e rideva di quel riso che non esce dalla bocca e par che indurisca le mascelle. Sentiva anche lui una punta come quella d'un bastone schiacciato tra una costola e l'altra. «Sí, sí, sí...» tornò a dire in seguito a qualche cosa che Beatrice gli domandò e di cui non arrivò ancora a prendere il senso.
Quel gran sole di fuori lo abbagliava, lo stordiva; scosse il capo per togliersi d'addosso la vertigine, e gli parve, fra tanti veli bianchi che lo circondavano, di trovarsi perduto in mezzo a una nuvola.
Scambiati i saluti e i complimenti coi Grissini, colla Pardi, col Bonfanti, la nostra brigatella, coi ragazzi davanti in crocchio, si avviò verso il centro. Lo zio Demetrio voleva pagare a tutti la colazione al caffè Biffi in Galleria. I ragazzi parlarono tutti insieme (c'era anche Ferruccio) saltando intorno all'Arabella, che col Signore in corpo mandava la contentezza attraverso alla nuvola bianca del suo velo.
Demetrio camminava a fianco di Beatrice, distaccato, sui ciottoli, per lasciare tutto il marciapiede a lei; e pareva soltanto occupato a curar le carrozze, che sbucavano da tutte le parti.
«Che bella giornata!» disse egli dopo un bel tratto, alzando gli occhi e facendo un mezzo giro sulle gambe.
«Bello essere in campagna!» osservò Beatrice.
«Proprio davvero... Guardate alle carrozze!»
Camminarono un altro poco in silenzio. Demetrio una volta si specchiò in una vetrina e non si riconobbe subito. Non era abituato a portare il cilindro e a far da cavalier servente a una bella signora. Beatrice osservò per conto suo che la cerimonia non poteva essere piú commovente, che pareva un giardino la chiesa.
«Proprio davvero!» esclamò Demetrio, mentre si domandava in cuor suo se non era il momento di buttar fuori il nome di Paolino e di tirare il discorso sul famoso argomento; ma appunto in quel momento uscí una carrozza da una delle vie laterali e lo zio corse a prendere Naldo. Beatrice si trovò a fianco di Arabella, che si attaccò al braccio della sua bella mammetta.
«Ho pregato tanto anche per te, mamma.»
«Brava.»
In quel benedetto crocevia della piazza del Duomo, da dove si irradiano gli omnibus e i tram, lo zio prese per mano anche Mario e gridò alle donne: attente alle carrozze! Pareva il capitano che salva la nave dagli scogli, e gli deve esser passata questa idea nella mente.
Entrarono nella Galleria.
Non c'era molta gente in quell'ora mattutina - lo zio osservò che l'orologio in cima all'arco segnava le otto e mezzo. - Il bel mosaico del pavimento, quasi sgombro, spiccava in tutta la nitidezza de' suoi marmi e de' suoi arabeschi nel chiaro riverbero che il cupolone di vetro, tocco dal sole, sbatteva nel vasto ambiente, sui cristalli dei negozi, sui globi, sugli ori delle ditte, sugli stucchi delle pareti liscie come specchi, su tutto ciò che poteva prendere e rimandare la luce in un giuoco di luci. Una fresca arietta volava attraverso ai bracci dell'edificio, che pulito e splendido, si preparava a una nuova giornata della sua vita rumorosa ed elegante.
Beatrice, che da molti mesi non poneva il piede in quel magnifico salone pubblico, sollevò con un sospiro un monte di meste ricordanze, ma si lasciò subito prendere dalla curiosità delle belle botteghe, dove brillavano i gioielli, le porcellane, i ventagli, gli specchi e le avrebbe fatte passar tutte, se i ragazzi non avessero reclamato. Oltre la fame, Demetrio voleva esser all'ufficio per le nove. Entrarono subito al Biffi che rimesso a fresco da poco tempo con stucchi nuovi, specchi nuovi, velluti nuovi, pareva un pezzo di paradiso. Sedettero a un tavolino presso uno dei grandi cristalli che dànno sull'ottagono, da dove si può vedere il vasto piazzale pubblico, con tutte le botteghe in giro, con sopra la tazza immensa e trasparente della cupola, un vero barbaglio per chi ci va una volta tanto.
Beatrice si rimirò subito nello specchio di fronte, badò a sedersi bene, lieta in cuor suo - senza dirlo a sé stessa - perché i camerieri s'erano voltati tutti al suo entrare. Al Biffi era venuta l'ultima volta col povero Cesarino la vigilia di Natale, ma s'era angustiata per un ufficiale di cavalleria, che non aveva mai cessato di fissarla come se avesse voluto bruciarla cogli occhi. Cesarino finí coll'accorgersene e nel tornare a casa l'aveva fatta piangere.
«Pren... prendete un caffè e latte?» domandò Demetrio, guardando in terra.
«Un caffè e panna, volentieri» rispose Beatrice.
«Allora, uno, due, tre, quattro, cinque e sei caffè e panna,» disse al cameriere, contando col dito teso gl'invitati, «del pane e quattro paste....»
E sedette in faccia a Beatrice, senza accorgersi che tre o quattro camerieri in fondo alla sala sbirciavano, ridendo sotto i bei baffi, il redingotto e il cilindro ancor nuovo fiammante.
Mentre si aspettava, lo zio, che aveva il cuore contento, prese un'orecchia di Naldo tra le dita e la tirò. Poi si voltò a guardar fisso in faccia all'Arabella, come se pretendesse una risposta a una domanda che non aveva fatto. Guardò in alto il cupolone, e una volta l'orologio del caffè che confrontò col suo: quella donna la vedeva in ombra davanti, la sentiva presente, la pensava, ma non avrebbe osato guardarla per paura... Paura di che? Lo sa Dio...
Finalmente arrivò un gran vassoio pieno di chicchere, di panetti, di paste dolci e lo zio ebbe a occuparsi a distribuire, a versare, a far le parti giuste. A Beatrice offrí una bella veneziana fresca e siccome essa esitava ad accettare: «Andiamo, andiamo,» disse con una certa furia screanzata, «che sciocchezze!» E nel dir queste parole sentí di nuovo una vampa di fuoco pigliargli il corpo, salire al collo, alle orecchie, alla radice dei capelli.
Per fortuna capitò che Ferruccio lasciasse cadere un cornetto intero di pane nella chicchera. Ciò sollevò l'ilarità di tutti, anche di Beatrice, anche del sor Demetrio, e il tempo passò presto. Invece di chiamare il cameriere, il signor zio andò al banco a pagare, cosa che non si usa piú in un caffè rispettabile, e serví anche questo a divertire quei bravi giovinotti.
«Bisogna che io me ne vada... finite con comodo» tornò a dire. «Ci rivedremo piú tardi, stasera....»
I ragazzi gridarono:
«Riverisco, zio, riverisco... grazie.»
Egli uscí in fretta in fretta, senza capire ciò che gli diceva la cognata. Aveva bisogno d'aria... Passò davanti al cristallo, guardò nel caffè, vide un gruppo di gente, ma vide annebbiato, salutò colla mano, e col suo passo di bifolco che cammina nel molle, traversò verso Santa Margherita, portato come un pezzo di legno galleggiante dalla corrente dell'antica abitudine, non piú chiaro a sé stesso di quel che sia un pezzo di legno. Una sola parola con un senso umano, uscí da quel garbuglio di sentimenti che egli portò all'ufficio, e prese nel fondo del suo silenzio la cadenza di un bastone che picchia addosso a un sacco di cenci. Questa parola, ch'egli ripeté cento volte nel breve tratto di strada fino alla porta del Demanio, era il nome del suo migliore amico: Ah, Paolino! Ah, Paolino!

IV

Per tre o quattro giorni si sentí male e di malavoglia. Un vecchio disturbo di cuore, ch'egli credeva di aver superato colla regola, colla tranquillità, con una moderata cura di digitalina, sotto le scosse di tanti avvenimenti tornò a farsi sentire. Per qualche notte stentò a chiuder occhio. Stava in letto al buio, incantato a contemplare le stelle che brillavano nella cornice della finestra, senza pensare a nulla di preciso, come perduto in un gran deserto, sorpreso di trovarvisi, non sostenuto che da una segreta speranza di uscirne. Gli era capitato come a chi viaggia sui monti. Va e va, su e giú per greppi e bricche, arrivava colle scarpe e colle gambe rotte in cima a una rupe da dove improvvisamente gli era apparso uno stupendo panorama, una stesa senza fine di paesi, di fiumi, di laghi, di pianure verdi, ch'era bello, incantevole di contemplare, anzi valeva la pena di sedersi un poco a tirare il fiato davanti a quel quadro, ma non bisognava fermarsi troppo. Il luogo era scosceso, soffiavano venti cattivi, e stava per scendere la notte. Giú, giú in fretta, sor Demetrio...

Paolino intanto, che non era uomo da stare un pezzo sulle punte di un pettine, passati alcuni giorni, lanciò a Milano questa lettera:

"Caro Demetrio,
"Poche parole. Io ti avevo detto di scrivermi un Si o un No e dopo una settimana non mi scrivi niente
"Ho parlato anche con Carolina che s'è lasciata persuadere e m'incoraggia.
"I miei interessi non mi permettono piú di aspettare. Non dico di combinare subito, lasciamo pure tempo al tempo, ma avrei piacere che tua cognata venisse a cognizione della qui allegata lettera che ho fatto vedere anche alla Carolina, e dice che va bene. Per ora mi contento di una Promessa, di una Speranza. Se invece è colpo di spada venga colpo di spada. Ma in ogni Contiguità non posso continuare in questo stato letale anche per la salute dell'anima e quella del corpo."

La lettera allegata diceva:

"Stimatissima signora Beatrice!
"Non è uno sconosciuto che osa rivolgersi a Lei per esprimere i sentimenti che da molto tempo nutre il suo Cuore in vista e in riguardo alla Sua Persona. Mio cugino Demetrio è incaricato di esporre per me di che si tratta, donde non istarò a ripetere le ragioni e le speranze, che mi conducono oggi a scriverle una lettera, la quale, se sarebbe accolta con Indulgenza, sarà il giorno piú bello della mia vita.
"So che io non avrei dovuto essere tanto temerario d'innalzare gli occhi fino alla Sua Persona circondata da tante attrattive, al confronto della quale io non sono che un uomo indegno; ma...."

E sempre su questo tono apriva tutte le porte del cuore. Esponeva le sue oneste intenzioni, la gioia dei parenti, ove si fosse potuto stringere un nodo indissolubile, e le cure, le tenerezze di cui avrebbe circondati i poveri orfanelli.
La buona sorella Carolina, alla quale lesse la minuta della lettera, suggerí una frase, "porgere grato orecchio", che le era rimasta in mente fin dal tempo del collegio.
Non contento ancora, Paolino volle far sentire lo scritto anche a don Giovanni, curato di Chiaravalle, un vecchietto di molto buon senso pratico, che propose una chiusa: "voglia dunque alla stregua di queste considerazioni perdonare la mia improntitudine".
Per quanto Paolino non entrasse molto bene nel significato di questa "stregua" accettò e introdusse anche la frase del buon vecchietto, per dare anche a lui la sua parte di responsabilità.
Trascrisse la lettera su un bel foglio quadrato coll'aiuto della falsariga, senza una macchia, senza una cancellatura e mandò il suo letterone aperto a Demetrio, perché vedesse e giudicasse anche lui.
Demetrio lesse una volta con una faccia tra l'irritato e l'indifferente.
Ognuna di queste parole scritte colla calligrafia commerciale del cugino era un chiodo che egli doveva ribadire nel cuore di Beatrice. E non se ne sentiva piú voglia.
Gli parve che il signor cugino avrebbe potuto sbrigarsi da sé, senza bisogno d'ambasciatori. Egli non faceva il portalettere per nessuno. In un atto subitaneo e irragionevole di stizza fece volare i fogli, che andarono a finire sotto la sedia. Capí subito però che era fuori di casa. Si stupí egli stesso della sua impazienza. Che diavolo aveva indosso? Raccolse i foglietti, li nettò dalla polvere soffiandovi sopra, e nel metterli sotto un calamaio disse a mezza voce: "vedremo" : quel tal "vedremo" con cui di solito i nostri buoni superiori procurano di non farci veder nulla.
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