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Info sull'Opera
Autore:
Antonio Fogazzaro
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Piccolo mondo antico (I Parte,1,2 )

di Antonio Fogazzaro

1. Risotto e tartufi

Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri delle montagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, sconquassavan le barche incatenate, mostravano qua e là, sino all'opposta sponda austera del Doi, un lingueggiar di spume bianche. Ma giù a ponente, in fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di calma, una stanchezza della breva; e dietro al cupo monte di Caprino usciva il primo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di cerimonia, col cappello a staio in testa e la grossa mazza di bambù in mano, camminava nervoso per la riva, guardava di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte la mazza a terra, chiamando quell'asino di barcaiuolo che non compariva.
Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tenda bianca e rossa, il sedile posticcio di parata piantato a traverso, i remi pronti e incrociati a poppa, si dibatteva, percosso dalle onde, fra due barconi carichi di carbone che oscillavano appena.
«Pin!», gridava Pasotti sempre più arrabbiato. «Pin!»
Non rispondeva che l'eguale, assiduo tuonar delle onde sulla riva, il cozzar delle barche fra loro. Non c'era, si sarebbe detto, un cane vivo in tutto Casarico. Solo una vecchia voce flebile, una voce velata da ventriloquo, gemeva dalle tenebre del portico:
«Andiamo a piedi! Andiamo a piedi!»
Finalmente il Pin comparve dalla parte di San Mamette.
«Oh là!», gli fece Pasotti alzando le braccia. Quegli si mise a correre.
«Animale!», urlò Pasotti. «T'han posto un nome di cane per qualche cosa!»
«Andiamo a piedi, Pasotti», gemeva la voce flebile. «Andiamo a piedi!»
Pasotti tempestò ancora col barcaiuolo che staccava in fretta la catena del suo battello da un anello infisso nella riva. Poi si voltò con una faccia imperiosa verso il portico e accennò a qualcuno, piegando il mento, di venire.
«Andiamo a piedi, Pasotti!», gemette ancora la voce.
Egli si strinse nelle spalle, fece con la mano un brusco atto di comando, e discese verso il battello.
Allora comparve ad un'arcata del portico una vecchia signora, stretta la magra persona in uno scialle d'India, sotto al quale usciva la gonna di seta nera, chiusa la testa in un cappellino di città, sperticatamente alto, guernito di rosette gialle e di pizzi neri. Due ricci neri le incorniciavano il viso rugoso dove s'aprivano due grandi occhi dolci, annebbiati, una gran bocca ombreggiata di leggeri baffi.
«Oh, Pin», diss'ella giungendo i guanti canarini e fermandosi sulla riva a guardar pietosamente il barcaiuolo. «Dobbiamo proprio andare con un lago di questa sorte?»
Suo marito le fece un altro gesto più imperioso, un'altra faccia più brusca della prima. La povera donna sdrucciolò giù in silenzio al battello e vi fu fatta salire, tutta tremante.
«Mi raccomando alla Madonna della Caravina, caro il mio Pin», diss'ella. «Un lago così brutto!»
Il barcaiuolo negò del capo, sorridendo.
«A proposito», esclamò Pasotti «hai la vela?»
«Ce l'ho su in casa», rispose Pin. «Debbo andare a prenderla? La signora qui avrà paura, forse. E poi, ecco là che vien l'acqua!»
«Va'!», fece Pasotti.
La signora, sorda come un battaglio di campana, non udì verbo di questo colloquio, si meravigliò molto di veder Pin correr via e chiese a suo marito dove andasse.
«La vela!», le gridò Pasotti sul viso.
Colei stava lì tutta china, a bocca spalancata, per raccogliere un po' di voce, ma inutilmente.
«La vela!», ripeté l'altro, più forte, con le mani accostate al viso.
Ella sospettò d'aver capito, trasalì di spavento, fece in aria col dito un geroglifico interrogativo. Pasotti rispose tracciando pure in aria un arco immaginario e soffiandovi dentro; poi affermò del capo, in silenzio. Sua moglie, convulsa, si alzò per uscire.
«Vado fuori!», diss'ella angosciosamente. «Vado fuori! Vado a piedi!»
Suo marito l'afferrò per un braccio, la trasse a sedere, le piantò addosso due occhi di fuoco.
Intanto il barcaiuolo ritornò con la vela. La povera signora si contorceva, sospirava, aveva le lagrime agli occhi, gittava alla riva delle occhiate pietose, ma taceva. L'albero fu rizzato, i due capi inferiori della vela furono legati, e la barca stava per prender il largo, quando un vocione mugghiò dal portico:
«To', to', il signor Controllore!», e ne sbucò un pretone rubicondo, con una pancia gloriosa, un gran cappello di paglia nera, il sigaro in bocca e l'ombrello sotto il braccio.
«Oh, curatone!», esclamò Pasotti. «Bravo! È di pranzo? Viene a Cressogno con noi?»
«Se mi toglie!», rispose il curato di Puria, scendendo verso il battello. «To' to' che c'è anche la signora Barborin!»
Il faccione diventò amabile amabile, il vocione dolce dolce.
«Ha in corpo una paura d'inferno, povera diavola», ghignò Pasotti, mentre il curato faceva degli inchinetti e dei sorrisetti alla signora, cui quel minacciato soprappiù di peso metteva un nuovo terrore. Ella si mise a gesticolare in silenzio come se gli altri fossero stati sordi peggio di lei. Additava il lago, la vela, la mole del curato enorme, alzava gli occhi al cielo, si metteva le mani sul cuore, se ne copriva il viso.
«Peso mica tanto», disse il curato, ridendo. «Tâs giò, ti», soggiunse rivolto a Pin, che aveva sussurrato irriverentemente: «Ona bella tenca».
«Sapete», esclamò Pasotti, «cosa faremo perché le passi la paura? Pin, hai un tavolino e un mazzo di tarocchi?»
«Magari un po' unti», rispose Pin, «ma li ho.»
Ci volle del buono per far capire alla signora Barbara, detta comunemente Barborin, di che si trattasse adesso. Non lo voleva intendere, neanche quando suo marito le cacciò in mano, per forza, un mazzo di carte schifose.
Ma per ora non era possibile, giuocare. La barca avanzava faticosamente, a forza di remi, verso la foce del fiume di S. Mamette, dove si sarebbe potuto alzar la vela, e i cavalloni sbattuti indietro dalle rive si arruffavano con i sopravvegnenti, facevano ballare il battello fra un bollimento di creste spumose. La signora piangeva. Pasotti imprecava a Pin che non s'era tenuto bastantemente al largo. Allora il curatone, afferrati due remi, ben piantata la gran persona in mezzo al battello, si mise a lavorar di schiena, tanto che in quattro colpi si uscì dal cattivo passo. La vela fu alzata, e il battello scivolò via liscio, a seconda, con un sommesso gorgoglio sotto la chiglia, con ondular lento e blando. Il prete sedette allora sorridente accanto alla signora Barborin che chiudeva gli occhi e mormorava giaculatorie. Ma Pasotti batteva impaziente il mazzo dei tarocchi sul tavolino e bisognò giuocare.
Intanto la pioggia grigia veniva avanti adagio adagio, velando le montagne, soffocando la breva. La signora andava ripigliando fiato a misura che ne perdeva il vento, giuocava rassegnata, pigliandosi in pace gli spropositi propri e le sfuriate di suo marito. Quando la pioggia incominciò a mormorar sulla tenda del battello e sull'onda morta che andava tutt'ora, quasi senz'aria, agli scogli del Tentiòn; quando il barcaiuolo pensò bene di calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella teneramente; e si mise a giuocar a tarocchi con uno zelo, con un brio, con una beatitudine in viso, che non si turbavano né di spropositi né di strapazzate.
Molti giorni di breva e di pioggia, di sole e di tempeste sorsero e tramontarono sul lago di Lugano, sui monti della Valsolda, dopo quella partita a tarocchi giuocata dalla signora Pasotti, da suo marito, controllore delle dogane a riposo, e dal curatone di Puria, nel battello che costeggiava lento, in mezzo ad una nebbiolina di pioggia, le scogliere di S. Mamette e Cressogno. Quando rivedo nella memoria qualche casupola nera che ora specchia nel lago le sue gale di zotica arricchita, qualche gaia palazzina elegante che ora decade in un silenzioso disordine; il vecchio gelso di Oria, il vecchio faggio della Madonnina, caduti con le generazioni che li veneravano; tante figure umane piene di rancori che si credevano eterni, di arguzie che parevano inesauribili, fedeli ad abitudini di cui si sarebbe detto che solo un cataclisma universale potesse interromperle, figure non meno familiari di quegli alberi alle generazioni passate, e scomparse con essi, quel tempo mi pare lontano da noi molto più del vero, come al barcaiuolo Pin, se si voltava a guardar il ponente, parevano lontani più del vero, dietro la pioggia, il San Salvatore e i monti di Carona.
Era un tempo bigio e sonnolento, proprio come l'aspetto del cielo e del lago, caduta la breva che aveva fatto tanta paura alla signora Pasotti. La gran breva del 1848, dopo aver dato poche ore di sole e lottato un pezzo con le nuvole pesanti, spenta da tre anni, lasciava piovere e piovere i giorni quieti, foschi, silenziosi dove cammina questa mia umile storia.
I re e le regine di tarocchi, il Mondo, il Matto e il Bagatto erano in quel tempo e in quel paese personaggi d'importanza, minute potenze tollerate benevolmente nel seno del grande tacito impero d'Austria, dove le loro inimicizie, le loro alleanze, le loro guerre erano il solo argomento politico di cui si potesse liberamente discutere. Anche Pin, remando, ficcava avidamente sopra le carte della signora Barborin il suo adunco naso curioso, e lo ritraeva a malincuore. Una volta restò dal remare per tenervelo su e vedere come la povera donna se la sarebbe cavata da un passo difficile, cosa avrebbe fatto di una certa carta pericolosa a giuocare e pericolosa a tenere. Suo marito picchiava impaziente sul tavolino, il curatone palpava con un sorriso beato le proprie carte, e lei si stringeva le sue al petto, ridendo e gemendo, sbirciando ora l'uno ora l'altro de' suoi compagni.
«Ha il Matto in mano», sussurrò il curato.
«Fa sempre così, lei, quando ha il Matto», disse Pasotti e gridò picchiando:
«Giù questo Matto!».
«Io lo butto nel lago», diss'ella. Gittò un'occhiata a prora e trovò lo scampo di osservare che si toccava Cressogno, ch'era tempo di smettere.
Suo marito sbuffò alquanto, ma poi si rassegnò a infilare i guanti.
«Trota, oggi, curato», diss'egli mentre l'umile sposa glieli abbottonava. «Tartufi bianchi, francolini e vin di Ghemme.»
«Lo sa, lo sa, lo sa?», esclamò il curato. «Lo so anch'io. Me l'ha detto il cuoco, ieri, a Lugano. Che miracoli, eh, la signora marchesa!»
«Ma, miracoli? Pranzo di Sant'Orsola, intanto; e poi invito di signore: le Carabelli madre e figlia; quelle Carabelli di Loveno, sa?»
«Ah sì?», fece il curato. «E ci sarebbe qualche progetto...? Ecco là don Franco in barca. Ehi, che bandiera, il giovinotto! Non gliel'ho mai vista.»
Pasotti alzò la tenda del battello, per vedere. Poco discosto una barca dalla bandiera bianca e azzurra si cullava in un comune moto di saliscendi, in una comune stanchezza con l'onda. A poppa, sotto la bandiera, v'era seduto don Franco Maironi, l'abiatico della vecchia marchesa Orsola che dava il pranzo.
Pasotti lo vide alzarsi, dar di piglio ai remi e allontanarsi remando adagio, verso l'alto lago, verso il golfo selvaggio del Dòi; la bandiera bianca e azzurra si spiegava tutta, sventolava sulla scia.
«Dove va, quell'originale?», diss'egli. E brontolò fra i denti, con una forzata raucedine da barabba milanese:
«Antipatico!»
«Dicono ch'è così di talento!», osservò il prete.
«Testa pessima», sentenziò l'altro. «Molta boria, poco sapere, nessuna civiltà.»
«È mezzo marcio», soggiunse. «Se fossi io quella signorina...»
«Quale?», chiese il curato.
«La Carabelli.»
«Tenga a mente, signor Controllore. Se i francolini e i tartufi bianchi sono per la popòla Carabelli, son buttati via.»
«Sa qualche cosa, Lei?», disse piano Pasotti con una vampa di curiosità negli occhi.
Il prete non rispose perché in quel punto la prora strisciò sulla rena, toccò all'approdo. Egli uscì il primo; quindi Pasotti diede a sua moglie, con una rapida mimica imperiosa, non so quali istruzioni, e uscì anche lui. La povera donna venne fuori per l'ultima, tutta rinfagottata nel suo scialle d'India, tutta curva sotto il cappellone nero dalle rosette gialle, barcollando, mettendo avanti le grosse mani dai guanti canarini. I due ricci pendenti a lato della sua mansueta bruttezza avevano un particolare accento di rassegnazione sotto l'ombrello del marito, proprietario, ispettore e geloso custode di tante eleganze.
I tre salirono al portico col quale la villetta Maironi cavalca, da ponente, la via dell'approdo alla chiesa parrocchiale di Cressogno. Il curato e Pasotti fiutavano, tra un sospiro di dolcezza e l'altro, certo indistinto odore caldo che vaporava dal vestibolo aperto della villa.
«Ehi, risotto, risotto», sussurrò il prete con un lume di cupidigia in faccia.
Pasotti, naso fine, scosse il capo aggrottando le ciglia, con manifesto disprezzo di quell'altro naso.
«Risotto no», diss'egli.
«Come, risotto no?», esclamò il prete, piccato. «Risotto sì. Risotto ai tartufi; non sente?»
Si fermarono ambedue a mezzo il vestibolo, fiutando l'aria come bracchi, rumorosamente.
«Lei, caro il mio curato, mi faccia il piacere di parlare di posciandra», disse Pasotti dopo una lunga pausa, alludendo a certa rozza pietanza paesana di cavoli e salsicce. «Tartufi si, risotto no.»
«Posciandra, posciandra», borbottò l'altro, un poco offeso. «Quanto a quello...»
La povera mansueta signora capì che litigavano, si spaventò e si mise a cacciar puntate al soffitto coll'indice destro, per significare che lassù potevano udire. Suo marito le afferrò la mano in aria, le accennò di fiutare e poi le soffiò nella bocca spalancata: «Risotto!»
Lei esitava, non avendo udito bene. Pasotti si strinse nelle spalle. «Non capisce un accidente», diss'egli: «il tempo cambia»; e salì la scala seguito da sua moglie. Il grosso curato volle dare un'altra occhiata alla barca di don Franco. «Altro che Carabelli!», pensò; e fu richiamato subito dalla signora Barborin che gli raccomandò di metterlesi vicino a tavola. Aveva tanta soggezione, povera creatura!
I fumi delle casseruole empivano anche la scala di tepide fragranze. «Risotto no», disse piano l'avanguardia. «Risotto sì», rispose sullo stesso tono la retroguardia. E così continuarono, sempre più piano, «risotto sì», «risotto no» fino a che Pasotti spinse l'uscio della sala rossa, abituale soggiorno della padrona di casa.
Un brutto cagnolino smilzo trottò abbaiando incontro alla signora Barborin che cercava di sorridere mentre Pasotti metteva la sua faccia più ossequiosa e il curato, entrando ultimo con un faccione dolce dolce, mandava in cuor suo all'inferno la maledetta bestia.
«Friend! Qua! Friend!», disse placidamente la vecchia marchesa. «Cara signora, caro Controllore, curato.»
La grossa voce nasale parlava con la stessa flemma, con lo stesso tono agli ospiti e al cane. S'era alzata per la signora Barborin ma senza fare un passo dal canapè, e stava lì in piedi, una tozza figura dagli occhi spenti e tardi sotto la fronte marmorea e la parrucca nera che le si arrotondava in due grossi lumaconi sulle tempie. Il viso doveva essere stato bello un tempo e serbava, nel suo pallore giallastro di marmo antico, certa maestà fredda che non mutava mai, come lo sguardo come la voce, per qualsiasi moto dell'animo. Il curatone le fece due o tre inchini a scatto, stando alla larga, ma Pasotti le baciò la mano, e la signora Barborin, sentendosi gelare sotto quello sguardo morto, non sapeva come muoversi né che dire. Un'altra signora si era alzata dal canapè all'alzarsi della marchesa e stava guardando con sussiego la Pasotti, quel povero mucchietto di roba vecchia rinfagottato di roba nuova. «La signora Pasotti e suo marito», disse la marchesa. «Donna Eugenia Carabelli.»
Donna Eugenia piegò appena il capo. Sua figlia, donna Carolina, stava in piedi presso la finestra discorrendo con una favorita della marchesa, nipote del suo fattore.
La marchesa non stimò necessario d'incomodarla per presentarle i nuovi venuti e, fattili sedere, riprese una pacata conversazione con donna Eugenia sulle loro comuni conoscenze milanesi, mentre Friend faceva, fiutando e starnutendo, il giro dello scialle canforato della Pasotti, si strofinava sui polpacci del curato e guardava Pasotti con i suoi occhietti umidi e afflitti, senza toccarlo, come se intendesse che il padrone dello scialle indiano, malgrado la sua faccia amabile, gli avrebbe torto il collo volentieri.
La marchesa Orsola teneva in moto la sua solita grossa voce sonnolenta e la Carabelli si studiava, rispondendo, di rendere amabile la sua grossa voce imperiosa, ma non sfuggì agli occhi penetranti e al maligno ingegno di Pasotti che le due vecchie dame dissimulavano, la Maironi più e la Carabelli meno, un comune malcontento. Ciascuna volta che l'uscio si apriva, gli occhi spenti dell'uno e gli occhi foschi dell'altra si volgevano là. Una volta entrò il prefetto del Santuario della Caravina col piccolo signor Paolo Sala detto «el Paolin» e col grosso signor Paolo Pozzi detto «el Paolon», compagni indivisibili. Un'altra volta entrò il marchese Bianchi, di Oria, antico ufficiale del regno d'Italia, con la sua figliuola, una nobile figura di vecchio cavalleresco soldato accanto a una seducente figura di fanciulla briosa.
Sì la prima che la seconda volta un'ombra di corruccio passò sul viso della Carabelli. Anche la figlia di costei girava pronta gli occhi all'uscio, quando si apriva, ma poi chiacchierava e rideva più di prima.
«E don Franco, marchesa? Come sta don Franco?», disse il maligno Pasotti, con voce melliflua, porgendo alla marchesa la tabacchiera aperta.
«Grazie tante», rispose la marchesa piegandosi un poco e ficcando due grosse dita nel tabacco: «Franco? a dirle la verità sono un poco in angustia. Stamattina non si sentiva bene e adesso non lo vedo. Non vorrei...»
«Don Franco?», disse il marchese. «È in barca. L'abbiamo visto un momento fa che remava come un barcaiuolo.»
Donna Eugenia spiegò il ventaglio.
«Bravo!», diss'ella facendosi vento in fretta e in furia. «È un bellissimo divertimento.»
Chiuse il ventaglio d'un colpo e si mise a mordicchiarlo con le labbra.
«Avrà avuto bisogno di prender aria», osservò la marchesa nel suo naso imperturbabile.
«Avrà avuto bisogno di prender acqua», mormorò il prefetto della Caravina con gli occhi scintillanti di malizia. «Piove!»
«Don Franco viene adesso, signora marchesa», disse la nipote del fattore dopo aver dato un'occhiata al lago.
«Va bene», rispose il naso sonnacchioso. «Spero che stia meglio, altrimenti non dirà due parole. Un ragazzo sanissimo ma apprensivo. Senta, Controllore; e il signor Giacomo? Perché non si vede?»
«El sior Zacomo», incominciò Pasotti canzonando il signor Giacomo Puttini, un vecchio celibatario veneto che dimorava da trent'anni in Albogasio Superiore, presso la villa Pasotti. «El sior Zacomo...»
«Adagio», lo interruppe la dama. «Non le permetto di burlarsi dei veneti, e poi non è vero che nel Veneto si dica Zacomo.»
Ella era nata a Padova, e benché abitasse a Brescia da quasi mezzo secolo, il suo dire lombardo era ancora infetto da certe croniche patavinità. Mentre Pasotti protestava, con cerimonioso orrore, di aver solamente inteso imitar la voce dell'ottimo suo vicino ed amico, l'uscio si aperse una terza volta. Donna Eugenia, sapendo bene chi entrava, non degnò voltarsi a guardare, ma gli occhi spenti della marchesa si posarono con tutta flemma su don Franco.
Don Franco, unico erede del nome Maironi, era figlio di un figlio della marchesa, morto a ventott'anni. Aveva perduto la madre nascendo ed era sempre vissuto nella potestà della nonna Maironi. Alto e smilzo, portava una zazzera di capelli fulvi, irti, che l'aveva fatto soprannominare el scovin d'i nivol, lo scopanuvoli. Aveva occhi parlanti, d'un ceruleo chiarissimo, una scarna faccia simpatica, mobile, pronta a colorarsi e a scolorarsi. Quella faccia accigliata diceva ora molto chiaramente: «Son qui, ma mi seccate assai».
«Come stai, Franco?», gli chiese la nonna, e soggiunse tosto senz'aspettare risposta: «Guarda che donna Carolina desidera udire quel pezzo di Kalkbrenner.»
«Oh no, sa», disse la signorina volgendosi al giovine con aria svogliata. «L'ho detto, sì, ma poi non mi piace, Kalkbrenner. Preferisco chiacchierare con le signorine.»
Franco parve soddisfatto dell'accoglienza ricevuta e andò senza aspettar altro a discorrere col curatone d'un buon quadro antico che dovevano vedere insieme nella chiesa di Dasio. Donna Eugenia Carabelli fremeva.
Ell'era venuta con la figliuola da Loveno dopo un'arcana azione diplomatica cui avevano preso parte altre potenze. Se questa visita si dovesse fare o no, se il decoro della famiglia Carabelli lo permettesse, se vi fosse quella probabilità di successo che donna Eugenia richiedeva, erano state le ultime questioni definite dalla diplomazia; perché malgrado la vecchia relazione della mamma Carabelli e della nonna Maironi i giovani non s'erano veduti che un paio di volte alla sfuggita ed erano i loro involucri di ricchezza e di nobiltà, di parentele e di amicizie, che si attraevano come si attraggono una goccia d'acqua marina e una goccia d'acqua dolce, benché le creature minuscole che vivono nell'una e nell'altra sieno condannate, se le due gocce si uniscono, a morirne. La marchesa aveva vinto il suo punto, apparentemente in grazia dell'età, sostanzialmente in grazia dei denari, era stato accettato che l'intervista seguisse a Cressogno, perché se Franco non aveva di proprio che la magra dote della madre, diciotto o ventimila lire austriache, la nonna sedeva, con quella sua flemmatica dignità, su qualche milione. Ora donna Eugenia, vedendo il contegno del giovine, fremeva contro la marchesa, contro chi aveva esposto lei e la sua ragazza a una umiliazione simile. Se avesse potuto soffiar via d'un colpo la vecchia, suo nipote, la casa tetra e la compagnia uggiosa, lo avrebbe fatto con gioia; ma conveniva dissimulare, parer indifferente, inghiottir lo smacco e il pranzo.
La marchesa serbava la sua esterna placidità marmorea benché avesse il cuore pieno di dispetto e di maltalento contro suo nipote. Egli aveva osato chiederle, due anni prima, il permesso di sposare una signorina della Valsolda, civile, ma non ricca né nobile. Il reciso rifiuto della nonna aveva reso impossibile il matrimonio e persuasa la madre della ragazza a non più ricevere in casa don Franco; ma la marchesa tenne per fermo che quella gente non avesse levato l'occhio da' suoi milioni. Era quindi venuta nel proposito di dar moglie a Franco assai presto per toglierlo dal pericolo; e aveva cercato una ragazza ricca ma non troppo, nobile ma non troppo, intelligente ma non troppo. Trovatane una di questo stampo, la propose a Franco che si sdegnò fieramente e protestò di non voler prender moglie. La risposta era ben sospetta ed ella vigilò allora più che mai sui passi del nipote e di quella «madama Trappola», poiché chiamava graziosamente così la signorina Luisa Rigey.
La famiglia Rigey, composta di due sole signore, Luisa e sua madre, abitava in Valsolda, a Castello: non era difficile sorvegliarla. Pure la marchesa non poté venir a capo di nulla. Ma Pasotti le riferì una sera con molta ipocrisia d'esitazioni e d'inorriditi commenti che il prefetto della Caravina, stando a crocchio nella farmacia di S. Mamette con lui Pasotti, col signor Giacomo Puttini, col Paolin e col Paolon, aveva tenuto questo bel discorso: «Don Franco fa il morto da burla fino a che la vecchia lo farà sul serio». Udita questa fine arguzia, la marchesa rispose nel suo pacifico naso «grazie tante» e cambiò discorso. Seppe quindi che la signora Rigey, sempre infermiccia, si trovava a mal partito per una ipertrofia di cuore e le parve che l'umore di Franco se ne risentisse. Proprio allora le fu proposta la Carabelli. La Carabelli non era forse interamente di suo gusto, ma di fronte all'altro pericolo non c'era da esitare. Parlò a Franco. Stavolta Franco non si sdegnò, ascoltò distratto e disse che ci avrebbe pensato. Fu la sola ipocrisia, forse, della sua vita. La marchesa giuocò audacemente una carta grossa, fece venire la Carabelli.
Ora lo vedeva bene, il giuoco era perduto. Don Franco non s'era trovato all'arrivo delle signore e aveva poi fatto una sola apparizione di pochi minuti. I suoi modi, durante quei pochi minuti, erano stati cortesi, ma la sua faccia no; la sua faccia aveva parlato, secondo il solito, talmente chiaro, che la marchesa, affibbiandogli, come subito fece, una indisposizione, non poté ingannar nessuno. Però la vecchia dama non si persuase d'aver giuocato male. Già dall'età dei primi giudizi in poi, ella si era messa al punto di non riconoscersi mai un solo difetto né un solo torto, di non ferirsi mai, volontariamente, nel suo nobile e prediletto sé. Ora le piacque si supporre che dopo il suo sermone matrimoniale al nipote, gli fosse pervenuta nel mistero una parolina di miele, di vischio e di veleno. Se il suo disinganno aveva qualche lieve conforto era nel contegno della signorina Carabelli che mal celava la vivacità del proprio risentimento. ciò non piaceva alla marchesa. Il prefetto della Caravina non aveva torto se non forse un poco nella forma quando diceva sottovoce di lei: «L'è on' Aüstria p...». Come la vecchia Austria di quel tempo, la vecchia marchesa non amava nel suo impero gli spiriti vivaci. La sua volontà di ferro non ne tollerava altre vicino a sé. Le era già di troppo un indocile Lombardo-Veneto come il signor Franco, e la ragazza Carabelli, che aveva l'aria di sentire e volere per conto proprio, sarebbe probabilmente riuscita in casa Maironi una suddita incomoda, una torbida Ungheria.
Si annunciò il pranzo. Nella faccia rasa e nell'abito grigio, mal tagliato, del domestico si riflettevano le idee aristocratiche della marchesa, temperate di abitudini econome.
«E questo signor Giacomo, Controllore?», disse ella, senza muoversi.
«Temo, marchesa», rispose Pasotti. «L'ho incontrato stamattina e gli ho detto: "Dunque, signor Giacomo, ci vediamo a pranzo?". È parso che gli mettessi una biscia in corpo. Ha cominciato a contorcersi e a soffiare: "Sì, credo, no so, forse, no digo, apff, ecco, propramente, Controllore gentilissimo, no so, insomma, e apff!". Non ne ho cavato altro.»
La marchesa chiamò a sé il domestico e gli disse qualche cosa sottovoce. Quegli fece un inchino e si ritirò. Il curato di Puria si dondolava in su e in giù accarezzandosi le ginocchia nel desiderio del risotto; ma la marchesa pareva petrificata sul canapè e perciò si petrificò anche lui. Gli altri si guardavano, muti.
La povera signora Barborin, avendo visto il domestico, meravigliata di quella immobilità, di quelle facce sbalordite, inarcò le sopracciglia, interrogò con gli occhi ora suo marito, ora il Puria, ora il prefetto, sino a che una fulminea occhiata di Pasotti petrificò lei pure. "Se fosse bruciato il pranzo!", pensava componendosi un viso indifferente. "Se ci mandassero a casa! Che fortuna!". Dopo due minuti il domestico ritornò e fece un inchino.
«Andiamo», disse la marchesa, alzandosi.
La comitiva trovò in sala da pranzo un personaggio nuovo, un vecchietto piccolo, curvo, con due occhietti buoni e un lungo naso spiovente sul mento.
«Veramente, signora marchesa», disse costui tutto timido e umile, «io avrei già pranzato.»
«Si accomodi, signor Viscontini», rispose la marchesa che sapeva praticare l'arte insolente della sordità come tutti coloro che assolutamente vogliono un mondo secondo il proprio comodo e il proprio gusto.
L'ometto non osò replicare, ma neanche osava sedere.
«Coraggio, signor Viscontini!», gli disse il Paolin che gli era vicino. «Cosa fa?»
«Fa il quattordici di coppe», mormorò il prefetto. Infatti l'ottimo signor Viscontini, accordatore di pianoforti, venuto la mattina da Lugano per accordare il piano dei signori Zelbi di Cima e quello di don Franco, aveva pranzato al tocco a casa Zelbi, era quindi venuto a casa Maironi, e ora gli toccava di sostituire il signor Giacomo perché altrimenti i commensali sarebbero stati tredici.
Un liquido bruno fumava nella zuppiera d'argento.
«Risotto no», sussurrò Pasotti al Puria passandogli dietro. Il faccione dolce non diede segno di avere udito.
I pranzi di casa Maironi erano sempre lugubri e questo accennava ad esserlo anche più del solito. Per compenso era pure molto più fino. Pasotti e il Puria si guardavano spesso, mangiando, per esprimere ammirazione e quasi per congratularsi a vicenda del godimento squisito, e se mai qualche occhiata di Pasotti sfuggiva al Puria, la signora Barborin, vicina di quest'ultimo, lo avvertiva con un timido tocco del gomito.
Le voci che più si udivano erano quelle del marchese e di donna Eugenia. Il grande naso aristocratico del Bianchi, il suo fine sorriso di galante cavaliere si volgevano spesso alla bellezza, languente ma non ancora spenta, della dama. Milanesi ambedue del miglior sangue, si sentivano uniti in una certa superiorità non solamente rispetto ai piccoli borghesi della mensa, ma rispetto altresì ai padroni di casa, nobili provinciali. Il marchese era l'affabilità stessa e avrebbe conversato amabilmente anche col commensale più modesto; ma donna Eugenia, nell'amarezza dell'animo suo, nel suo disgusto del luogo e delle persone, s'attaccò a lui come al solo degno, marcatamente anche per far dispetto agli altri. Ella lo imbarazzò dicendogli forte che non capiva com'egli potesse essersi innamorato dell'orrida Valsolda. Il marchese, che vi si era ritirato da molti anni a vita quieta e vi aveva veduto nascere la sua unica figliuola, donna Ester, rimase sulle prime un poco sconcertato da quel discorso insolente verso parecchi dei convitati, ma poi fece una briosa difesa del paese. La marchesa non mostrò turbarsi; il Paolin, il Paolon e il prefetto, valsoldesi, tacevano con tanto di muso.
Pasotti recitò solennemente un ampolloso elogio del «Niscioree», la villa Bianchi, presso Oria. Il Bianchi, leale uomo, che in passato non aveva avuto troppo a lodarsi del Pasotti, non parve gradir l'elogio. Egli invitò la Carabelli al Niscioree. «A piedi no, tu, Eugenia», disse la marchesa, sapendo che l'amica sua era tribolata dallo spavento d'ingrassare. «Bisogna vedere com'è stretta la strada, dalla Ricevitoria al Niscioree! Tu non ci passi di sicuro.» Donna Eugenia protestò con sdegno. «L'è minga el Cors de Porta Renza», disse il marchese, «ma l'è poeu nanca, disgraziatamente, le chemin du Paradis!»
«Quell no! Propi no! Ghe l'assicuri mi!», esclamò il Viscontini riscaldato, per disgrazia, da troppi bicchieri di Ghemme. Tutti gli occhi si volsero a lui e il Paolin gli disse qualche cosa sottovoce. «Se son matto?», rispose l'ometto acceso in faccia. «Nient del tütt! Le dico che ona bolgira compagna non la mi è mai più toccata in vita mia.» E qui raccontò che la mattina, venendo da Lugano e avendo preso un po' di freddo in barca, era disceso al Niscioree per proseguire il viaggio a piedi; che tra quei due muri, dove non si potrebbe voltare un asino, aveva incontrato le guardie di finanza, le quali lo avevano insultato perché non era disceso allo sbarco della Ricevitoria; che l'avevano condotto alla maledetta Ricevitoria; che portava in mano un rotolo di musica manoscritta e che l'animale del Ricevitore, pigliando le crome e le biscrome per corrispondenze politiche segrete, gliel'aveva trattenuto.
Silenzio profondo. Dopo qualche momento la marchesa sentenziò che il signor Viscontini aveva torto marcio. Non doveva sbarcare al Niscioree, ciò era proibito. Quanto al signor Ricevitore egli era una persona rispettabilissima. Pasotti confermò, con una faccia severa. «Ottimo funzionario», diss'egli. «Ottima canaglia», mormorò il prefetto fra i denti. Franco, che sulle prime pareva pensare a tutt'altro, si scosse e lanciò a Pasotti un'occhiata sprezzante.
«Dopo tutto», soggiunse la marchesa, «trovo che col pretesto della musica manoscritta si potrebbe benissimo...»
«Certo!», disse il Paolin, austriacante per paura, mentre la padrona di casa lo era per convinzione.
Il marchese, che nel 1815 aveva spezzata la spada per non servire gli Austriaci, sorrise e disse solo:
«Là! C'est un peu fort!».
«Ma se tutti sanno ch'è una bestia, quel Ricevitore!», esclamò Franco.
«Scusi, don Franco...», fece Pasotti.
«Ma che scusi!», interruppe l'altro. «È un bestione!»
«È un uomo coscienzioso», disse la marchesa, «un impiegato che fa il proprio dovere.»
«Allora le bestie saranno i suoi padroni!», ribatté Franco.
«Caro Franco», replicò la voce flemmatica, «questi discorsi in casa mia non si fanno. Grazie a Dio non siamo mica in Piemonte, qui.» Pasotti fece una sghignazzata d'approvazione. Allora Franco, preso furiosamente il proprio piatto a due mani lo spezzò d'un colpo sulla tavola. «Jesüsmaria!», esclamò il Viscontini, e il Paolon, interrotto nelle sue laboriose operazioni di mangiatore sdentato: «Euh!». «Sì, sì», disse Franco alzandosi con la faccia stravolta, «è meglio che me ne vada!» E uscì dal salotto. Subito donna Eugenia si sentì male, bisognò accompagnarla fuori. Tutte le signore, meno la Pasotti, le andaron dietro da una parte mentre il domestico entrava dall'altra portando un pasticcio di risotto. Il Puria guardò Pasotti con un riso trionfante, ma Pasotti finse di non avvedersene. Tutti erano in piedi. Il Viscontini, reo apparente, continuava a dire: «Mi capissi nagott, mi capissi nagott», e il Paolin, seccatissimo del pranzo guastato, gli brontolò: «Cossa l'ha mai de capì Lü?». Il marchese, molto scuro, taceva. Finalmente il Pasotti, reo di fatto, presa un'aria d'affettuosa tristezza, disse come tra sé: «Peccato! Povero don Franco! Un cuor d'oro, una buona testa, e un temperamento così! Proprio peccato!».
«Ma!», fece il Paolin. E il Puria, tutto contrito: «Sono gran dispiaceri!».
Aspetta e aspetta, le signore non ritornavano. Allora qualcuno cominciò a muoversi. Il Paolin e il Puria si accostarono lentamente, con le mani dietro la schiena, alla credenza, contemplarono il pasticcio di risotto. Il Puria chiamò dolcemente Pasotti, ma Pasotti non si mosse. «Volevo solo dirle», fece il curatone, coprendo il suo trionfo in modo da lasciarlo e non lasciarlo vedere, «che ci sono i tartufi bianchi.»
«Direi che qui non mancano neppure i tartufi neri», osservò il marchese pigiando un poco sulle due ultime parole.


2. Sulla soglia d'un'altra vita

«Canaglia!», fremeva don Franco salendo la scala che conduceva alla sua camera. «Pezzo d'asino d'un austriaco!». Si vendicava su Pasotti di non poter insultar la nonna e le stesse consonanti della parola austriaco gli servivano tanto bene per stritolarsi fra i denti la propria collera e spremerne, gustarne il sapore. Quando fu in camera la collera gli svampò.
Si gittò in una poltrona, in faccia alla finestra spalancata, guardando il lago triste nel pomeriggio nebbioso, e, al di là del lago, i monti deserti. Mise un gran respiro. Ah come stava bene lì, solo, ah che pace, ah che aria diversa da quella del salotto, che aria cara, piena de' suoi pensieri e de' suoi amori! Aveva un gran bisogno di abbandonarsi ad essi ed essi lo ripresero subito, gli cacciaron di mente le Carabelli, il Pasotti, la nonna, il bestione del Ricevitore. Essi? No, era un pensiero solo, un pensiero fatto di amore e di ragione, di ansia e di gioia, di tanti dolci ricordi e insieme di trepida aspettazione, perché qualche cosa di solenne si avvicinava e sarebbe giunto nelle ombre della notte. Franco guardò l'orologio. Erano le quattro meno un quarto. Ancora sette ore. Si alzò, si buttò a braccia conserte sul davanzale della finestra.
Ancora sette ore e comincerebbe per lui un'altra vita. Fuori delle pochissime persone che dovevano prender parte all'avvenimento, nemmanco l'aria sapeva che quella sera stessa, verso le undici, don Franco Maironi avrebbe sposato la signorina Luisa Rigey.
La signora Teresa Rigey, madre di Luisa, aveva un tempo lealmente pregato Franco di piegare al volere della nonna, di astenersi dal visitar la sua casa, di non pensare più a Luisa, la quale, dal canto suo, era stata contenta che per la dignità della famiglia, per il decoro di sua madre, si troncassero le relazioni ufficiali, ma non dubitava della fede di Franco né d'essergli già legata per sempre. Egli studiava ora leggi, privatamente, all'insaputa della nonna, per dedicarsi a una professione e aver modo di bastare a sé. Ma la signora Teresa contrasse da tante agitazioni una malattia di cuore che nel 1851, in fine d'agosto, si aggravò subitamente. Franco le scrisse chiedendole almeno il permesso di vederla poiché non poteva compiere «il suo dovere d'assisterla». La signora non credette di consentire e il giovine se ne disperò, le fece intendere che considerava Luisa come sua fidanzata davanti a Dio e che sarebbe morto prima di abbandonarla. Allora la povera donna, sentendosi mancar la vita ogni giorno, accorandosi di veder la sua cara figliuola in uno stato così incerto e considerando la ferma volontà del giovine, concepì il desiderio intenso che le nozze, poiché dovevan seguire, seguissero al più presto. Tutto fu combinato frettolosamente con l'aiuto del curato di Castello e del fratello della signora Rigey, l'ingegnere Ribera di Oria, addetto all'Imperiale R. Ufficio delle Pubbliche Costruzioni in Como. Le intelligenze furono queste. Le nozze si farebbero segretamente; Franco resterebbe presso la nonna e Luisa presso la madre, sino a che venisse il momento opportuno di confessar tutto alla marchesa. Franco sperava nell'appoggio di monsignor Benaglia, vescovo di Lodi, vecchio amico della famiglia, ma occorreva il fatto compiuto. Se il cuore della marchesa si indurisse, com'era probabile, gli sposi e la signora Teresa prenderebbero stanza nella casa che l'ingegnere Ribera possedeva in Oria. Il Ribera, celibe, manteneva ora del proprio la famiglia di sua sorella; terrebbe poi anche Franco in luogo di figliuolo.

Fra sette ore, dunque.
La finestra guardava sulla lista di giardino che fronteggiava la villa verso il lago, e sulla riva di approdo. Nei primi tempi del suo amore Franco stava lì a spiar il venire e l'approdare d'una certa barca, l'uscirne d'una personcina snella, leggere come l'aria, che mai mai non guardava su alla finestra. Ma poi un giorno egli era disceso ad incontrarla ed ella aveva aspettato un momento ad uscire per accettare l'aiuto, ben inutile, della sua mano. Lì sotto, nel giardino, egli le aveva dato per la prima volta un fiore, un profumato fiore di mandevilia suaveolens. Lì sotto si era un'altra volta ferito con un temperino, abbastanza seriamente, tagliando per lei un ramoscello di rosaio, ed ella gli aveva dato col suo turbamento un delizioso segno del suo amore. Quante gite con lei e altri amici, prima che la nonna sapesse, alle rive solitarie del monte Bisgnago là in faccia, quante colazioni e merende a quella cantina del Doi! Con quanta dolcezza viva nel cuore di sguardi incontrati Franco tornava a casa e si chiudeva nella sua stanza a richiamarseli, a esaltarsene nella memoria! Queste prime emozioni dell'amore gli ritornavano adesso in mente, non ad una ad una ma tutte insieme, dalle acque e dalle rive tristi dove gli occhi suoi fisi parevano smarrirsi piuttosto nelle ombre del passato che nelle nebbie del presente. Vicino alla mèta, egli pensava i primi passi della lunga via, le vicende inattese, l'aspetto della sospirata unione così diverso nel vero da quel ch'era apparso nei sogni, al tempo della mandevilia e delle rose, delle gite sul lago e sui monti. Non sospettava certo, allora, di dovervi arrivare così, di nascosto, fra tante difficoltà, fra tante angustie. Pure, pensava adesso, se il matrimonio si fosse fatto pubblicamente, pacificamente, col solito proemio di cerimonie ufficiali, di contratti, di congratulazioni, di visite, di pranzi, tanto tedio sarebbe riuscito più ripugnante all'amore che questi contrasti.
Lo scosse la voce del prefetto che lo chiamava dal giardino per annunciargli la partenza delle Carabelli. Franco pensò che se scendeva avrebbe dovuto fare delle scuse e preferì non lasciarsi vedere. «Doveva romperglielo sulla faccia il piatto!», gli stridette su il prefetto tra le mani accostate alle guance. «Doveva romperglielo sulla faccia!»
Poi se n'andò e Franco vide il barcaiuolo delle Carabelli scendere ad apparecchiar la barca. Lasciò allora la finestra e seguendo i pensieri di prima, aperse il cassettone, stette lì a contemplare, come distratto, uno sparato di camicia ricamata, dove lucevano già certi bottoncini di brillanti che suo padre aveva portati alle nozze proprie. Gli dispiaceva andar all'altare senza un segno di festa, ma questo segno, si capisce bene, non doveva essere facilmente visibile.
Nel cassettone profumato d'ireos tutto era disposto con la particolare eleganza dell'ordine fatto da uno spirito intelligente, e nessuno vi metteva le mani tranne lui. Invece le sedie, lo scrittoio, il piano erano tanto disordinatamente ingombri che pareva esser passato per le due finestre della camera un uragano di libri e di carte. Certi volumi di giurisprudenza dormivano sotto un dito di polvere, e non una foglia della piccola gardenia in vaso, sul davanzale della finestra di levante, ne aveva un atomo solo. Questi eran già sufficienti indizi, là dentro, del bizzarro governo d'un poeta. Un'occhiata ai libri e alle carte ne avrebbe fornite le prove.
Franco aveva la passione della poesia ed era poeta vero nelle squisite delicatezze del cuore; come scrittore di versi non poteva dirsi che un buon dilettante senza originalità. I suoi modelli prediletti erano il Foscolo e il Giusti; li adorava veramente e li saccheggiava entrambi, perché l'ingegno suo, entusiasta e satirico a un tempo, non era capace di crearsi una forma propria, aveva bisogno d'imitare. Conviene anche dire, per giustizia, che a quel tempo i giovani possedevano comunemente una cultura classica fattasi rara di poi; e che dagli stessi classici venivano educati a onorare l'imitazione come una pratica virtuosa e lodevole. Frugando fra le sue carte per cercarvi non so cosa, gli vennero alle mani i seguenti versi dedicati a un tale di sua conoscenza e nostra conoscenza, che rilesse con piacere e ch'io riferisco per saggio del suo stile satirico:

Falso occhio mobile,
Mento pelato,
Lingua di vipera,
Cor di castrato,

Brache policrome,
Bisunto saio,
Maiuscolissimo
Cappello a staio.

Ecco l'immagine
Del vil Tartufo
Che l'uman genere
E il cielo ha stufo.

Il Giusti e la passione d'imitarlo erano quasi soli in colpa di tanta bile, perché davvero Franco non ne aveva nel fegato una così gran dose. Aveva collere pronte, impetuose, fugaci; non sapeva odiare e nemmanco risentirsi a lungo contro alcuno. Un saggio dell'altra sua maniera poetica stava sul leggìo del piano, in un foglietto tutto sgorbi e cancellature:

A Luisa

Ove l'aëreo tuo pensile nido
Una balza ventosa incoronando
Ride alla luna ed ai cadenti clivi
Ch'educan uve a la tua mensa e rose
Al capo tuo, purpurëi ciclami
A me, sogni e fragranze, o mia Luisa,
Da l'orror di quest'ombre ti figura
L'amoroso mio cor. Tacita siedi
E da l'alto balcon già non rimiri
Le bianche plaghe d'occidente, i chiari
Monti ed il lago vitrëo, sereno,
Riscintillante a l'astro; ma quest'una
Tenebra esplori, l'aura interrogando
Vocal che va tra i mobili oleandri
De la terrazza e freme il nome mio.

Forse piaceva a Franco d'improvvisar sul piano con questi suoi versi davanti agli occhi. Appassionato per la musica più ancora che per la poesia, se l'era comperato lui, quel piano, per centocinquanta svanziche, dall'organista di Loggio, perché il mediocre piano viennese della nonna, intabarrato e rispettato come un gottoso di famiglia, non gli poteva servire. Lo strumento dell'organista, corso e pesto da due generazioni di zampe incallite sulla marra, non mandava più che una comica vocina nasale sopra un tintinnio sottile come d'infiniti bicchierini minuti e fitti. Ciò era quasi indifferente, per Franco; egli aveva appena posato le mani sullo strumento che la sua immaginazione si accendeva, l'estro del compositore passava in lui e nel calore della passione creatrice gli bastava un fil di suono per veder l'idea musicale e inebbriarsene. Un Erard gli avrebbe dato soggezione, gli avrebbe lasciato minor campo alla fantasia, gli sarebbe stato men caro, insomma, della sua spinetta.
Franco aveva troppe diverse attitudini e inclinazioni, troppa foga, troppo poca vanità e forse anche troppo poca energia di volere per sobbarcarsi a quel noioso metodico lavoro manuale che si richiede a diventar pianisti. Però il Viscontini era entusiasta del suo modo di suonare; Luisa, la sua fidanzata, non divideva interamente il gusto classico di lui ma ne ammirava, senza fanatismi, il tocco; quando, pregato, egli faceva mugghiare e gemere classicamente l'organo di Cressogno, il buon popolo, intontito dalla musica e dall'onore, lo guardava come avrebbe guardato un predicatore incomprensibile, con la bocca aperta e gli occhi riverenti. Malgrado tutto questo, Franco non avrebbe potuto cimentarsi, nei salotti cittadini, con tanti piccoli dilettanti incapaci d'intendere e di amare la musica. Tutti o quasi tutti lo avrebbero vinto di agilità e di precisione, avrebbero ottenuto maggiori applausi, quand'anche non fosse riescito ad alcuno di far cantare il piano, come lo faceva cantar lui, sopra tutto negli adagi di Bellini e di Beethoven, suonando con l'anima nella gola, negli occhi, nei muscoli del viso, nei nervi delle mani che facevan tutt'uno con le corde del piano.
Un'altra passione di Franco erano i quadri antichi. Le pareti della sua camera ne avevano parecchi, la più parte croste. Scarso di esperienza perché non aveva viaggiato, pronto a pigliar fuoco nella fantasia, costretto ad accordar i desideri molti con i quattrini pochi, credeva facilmente le asserite fortune di altri cercatori tapini, n'era spesso infocato, accecato e precipitato su certi cenci sporchi, che, se costavano poco, valevano meno. Non possedeva di passabile che una testa d'uomo della maniera del Morone e una Madonna col Bambino della maniera del Dolci. Egli battezzava, del resto, i due quadretti per Morone e Dolci, senz'altro.
Com'ebbe rilette e rigustate le strofe ispirategli dal Tartufo Pasotti, tornò a frugare nel caos dello scrittoio e ne cavò un foglietto di carta Bath per scrivere a monsignor Benaglia, la sola persona che gli potesse giovare in avvenire presso la nonna. Gli parve doverlo mettere a parte dell'atto che stava per compiere, delle ragioni che avevano consigliato la sua fidanzata e lui di addivenirvi in questo modo penoso, della speranza che avevano d'essere aiutati da lui quando venisse il momento d'aprir tutto alla nonna. Stava ancora pensando con la penna in mano, davanti alla carta bianca, quando la barca delle Carabelli passò sotto la sua finestra. Poco dopo udì partire la gondola del marchese e la barca del Pin. Suppose che la nonna, rimasta sola, lo facesse chiamare, ma non ne fu nulla. Passato un po' di tempo in quest'aspettazione, si rimise a pensare alla sua lettera e ci pensò tanto, rifece l'esordio tante volte e procedette anche poi tanto adagio, con tanti pentimenti, che la lettera non era ancora finita quando gli convenne accendere il lume.
La chiusa gli riuscì più facile. Egli vi raccomandava la sua Luisa e sé alle preghiere del vecchio vescovo e vi esprimeva una fiducia in Dio così candida e piena che avrebbe toccato il cuore più incredulo.
Focoso e impetuoso com'era, Franco aveva tuttavia la semplice tranquilla fede d'un bambino. Punto orgoglioso, alieno dalle meditazioni filosofiche, ignorava la sete di libertà intellettuale che tormenta i giovani quando la loro ragione ed i loro sensi cominciano a trovarsi a disagio nel duro freno di una credenza positiva. Non aveva dubitato un istante della sua religione, ne eseguiva scrupolosamente le pratiche senza domandarsi mai se fosse ragionevole di credere e di operare così. Non teneva però affatto del mistico né dell'asceta. Spirito caldo e poetico, ma nello stesso tempo chiaro ed esatto, appassionato per la natura e per l'arte, preso da tutti gli aspetti piacevoli della vita, rifuggiva naturalmente dal misticismo. Non s'era conquistata la fede e non aveva mai vôlti lungamente a lei tutti i suoi pensieri, non aveva potuto esserne penetrato in tutti i suoi sentimenti. La religione era per lui come la scienza per uno scolaro diligente che ha la scuola in cima de' suoi pensieri e vi è assiduo, non trova pace se non ha fatto i suoi compiti, se non si è preparato alle ripetizioni, ma poi quando ha compiuto il proprio dovere, non pensa più al professore né ai libri, non sente il bisogno di regolarsi ancora secondo fini scientifici o programmi scolastici. Perciò egli pareva spesso non seguire altro nella vita che il suo generoso cuore ardente, le sue inclinazioni appassionate, le impressioni vivaci, gli impeti della sua natura leale, ferita da ogni viltà, da ogni menzogna, intollerante d'ogni contraddizione e incapace di infingersi.
Aveva appena suggellata la lettera quando si bussò all'uscio. La signora marchesa faceva dire a don Franco di scendere per il rosario. In casa Maironi si recitava il rosario tutte le sere fra le sette e le otto, e i servi avevan l'obbligo di assistervi. Lo intuonava la marchesa, troneggiando sul canapè, girando gli occhi sonnolenti sulle schiene e sulle gambe dei fedeli prosternati per diritto e per traverso, quale nella luce più opportuna ad un devoto atteggiamento e quale nell'ombra più propizia ad un sonnellino proibito. Franco entrò in sala mentre la voce nasale diceva le soavi parole «Ave Maria, gratia plena» con quella flemma, con quella untuosità, che sempre gli mettevano in corpo una tentazione indiavolata di farsi turco. Il giovane andò a cacciarsi in un angolo scuro e non aperse mai bocca. Gli era impossibile di rispondere con divozione a quella voce irritante. Non fece che immaginare un probabile interrogatorio imminente, e masticare risposte sdegnose.
Finito il rosario, la marchesa aspettò un momento in silenzio e poi disse le sacramentali parole:
«Carlotta, Friend!»
Carlotta, la vecchia cameriera, aveva l'incarico di pigliare, finito il rosario, Friend in braccio e di portarlo a dormire.
«È qui, signora marchesa», disse Carlotta.
Ma Friend, se era lì, si trovò altrove quando colei, chinatasi, allungò le mani. Era di buon umore, quella sera, il vecchio Friend, e gli piacque di giuocare a non lasciarsi prendere, provocando Carlotta, sgusciandole sempre di mano, scappando sotto il piano o sotto il tavolino a guardar con un ironico scodinzolamento la povera donna che gli diceva «ven, cara, ven, cara», con la bocca e «brütt moster» con il cuore.
«Friend!», fece la marchesa. «Andiamo! Friend! Da bravo!»
Franco bolliva. Venutogli tra le gambe l'antipatico mostricino infetto dell'egoismo e della superbia della sua padrona, lo scosse da sé, lo fece ruzzolare tra le unghie di Carlotta che gli diede per proprio conto una rabbiosa stretta e se lo portò via rispondendo perfidamente ai suoi guaiti: «Cossa t'han faa, poer Friend, cossa t'han faa, di' sü!»
La marchesa non disse parola né il suo viso marmoreo tradì il suo cuore. Diede al cameriere l'ordine di dire al prefetto della Caravina, se venisse, e anche a qualsiasi altro, che la padrona era andata a letto. Franco si mosse per uscire anche lui dietro ai servi, ma si trattenne subito onde non aver l'aria di fuggire. Prese sulla caminiera un numero della I. R. Gazzetta di Milano, sedette presso sua nonna e si mise a leggere, aspettando.
«Mi congratulo tanto», cominciò subito la voce sonnacchiosa, «della bella educazione e dei bei sentimenti che ci avete fatto vedere oggi.»
«Accetto», rispose Franco senza levar gli occhi dal giornale.
«Bene, caro», replicò la nonna imperturbata. E soggiunse:
«Ho piacere che quella signorina vi abbia conosciuto; così, se mai sapeva di qualche progetto, sarà ben contenta che non se ne parli più».
«Contenti tutt'e due», disse Franco.
«Voi non sapete niente affatto se sarete contento. Specialmente se avete ancora le idee d'una volta.»
Udito questo, Franco posò il giornale e guardò la nonna in faccia.
«Cosa succederebbe», diss'egli, «se avessi ancora le idee d'una volta?»
Non parlò stavolta in tono di sfida, ma con serietà tranquilla.
«Ecco, bravo», rispose la marchesa. «Spieghiamoci chiaro. Spero e credo bene che un certo caso non succederà mai, ma, se succedesse, non state a credere che alla mia morte ci sarà qualche cosa per voi, perché io ho già pensato in modo che non ci sarà niente.»
«Figùrati!», fece il giovine, indifferente.
«Questi sono i conti che dovrete fare con me», proseguì la marchesa. «Poi ci sarebbero quelli da fare con Dio.»
«Come?», esclamò Franco. «I conti con Dio li farò prima che con te e non dopo!»
Quando la marchesa era côlta in fallo tirava sempre diritto nel suo discorso come se niente fosse.
«E grossi», diss'ella.
«Ma prima!», insistette Franco.
«Perché», continuò la vecchia formidabile, «se si è cristiani si ha il dovere d'obbedire a suo padre e a sua madre e io rappresento vostro padre e vostra madre.»
Se l'una era tenace, l'altro non l'era meno.
«Ma Dio vien prima!», diss'egli.
La marchesa suonò il campanello e chiuse la discussione così:
«Adesso siamo intesi».
Si alzò dal canapè all'entrar della Carlotta e disse placidamente:
«Buona notte».
Franco rispose «buona notte» e riprese la Gazzetta di Milano.
Appena uscita la nonna, gittò via il foglio, strinse i pugni, si sfogò senza parole, con un furibondo sbuffo, e saltò in piedi, dicendo forte:
«Ah, meglio, meglio, meglio! Meglio così», fremeva in sé «meglio non condurla mai, la mia Luisa, in questa maledetta casa, meglio non farle soffrir mai questo impero, questa superbia, questa voce, questo viso, meglio viver di pane e d'acqua e aspettar il resto da qualunque lavoro cane, piuttosto che dalle mani della nonna: meglio far l'ortolano, maledetto sia, far il barcaiuolo, far il carbonaio!»
Salì nella sua camera, risoluto di romperla con tutti i riguardi. «I conti con Dio?», esclamò sbattendosi l'uscio dietro. «I conti con Dio se sposo Luisa? Ah vada tutto, cosa me ne importa, mi vedano, mi sentano, mi facciano la spia, glielo dicano, glielo contino, gliela cantino che mi fanno un piacerone!»
Si vestì in fretta e in furia, urtando nelle seggiole, aprendo e chiudendo il cassettone a colpi. Mise un abito nero, per sfida; discese le scale rumorosamente, chiamò il vecchio domestico, gli disse che sarebbe stato fuori tutta la notte, e senza badare alla faccia tra sbalordita e sgomenta del pover'uomo, a lui molto devoto, si slanciò in istrada, si perdette nelle tenebre.

Egli era fuori da due o tre minuti, quando la marchesa, già coricata, mandò Carlotta a vedere chi fosse venuto giù correndo dalle scale. Carlotta riferì ch'era stato don Franco e dovette subito ripartire con una seconda missione. «Cosa voleva don Franco?». Stavolta la risposta fu che don Franco era uscito per un momento. Questo momento fu pietosamente aggiunto dal vecchio servitore. La marchesa ordinò a Carlotta di andarsene lasciando il lume acceso. «Ritornate quando suonerò», diss'ella.
Dopo mezz'ora ecco il campanello.
La cameriera corre dalla padrona.
«È ancora fuori don Franco?»
«Sì, signora marchesa.»
«Spegnete il lume, prendete la calza, mettetevi in anticamera e quando sarà rientrato venite a dirmelo.»
Ciò detto la marchesa si girò sul fianco verso la parete, voltando all'attonita e malcontenta cameriera l'enigma bianco, uguale, impenetrabile del suo berretto da notte.
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