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Info sull'Opera
Autore:
Antonio Fogazzaro
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Piccolo mondo antico (II Parte,9,10 )

di Antonio Fogazzaro

9. Per il pane, per l'Italia, per Dio

Otto mesi dopo, nel settembre del 1855, Franco abitava una misera soffitta a Torino, in via Barbaroux. Aveva ottenuto nel febbraio un posto di traduttore all'Opinione, con ottantacinque lire il mese. Più tardi fece anche relazioni del Parlamento e lo stipendio gli fu portato a cento lire il mese. Il Dina, direttore del giornale, gli voleva bene e gli procacciava qualche lavoro straordinario, fuori d'ufficio, tanto da fargli prendere altre venticinque o trenta lire il mese. Franco viveva con sessanta lire il mese. Il resto andava a Lugano e da Lugano, per le mani fedeli d'Ismaele, a Oria. Per vivere un mese con sessanta lire ci voleva una forza d'animo che lo stesso Franco non avrebbe creduto, prima, possedere. Le ore d'ufficio, il tradurre, assai laborioso per un uomo pieno di scrupoli e di timidità letterarie, gli pesavano più delle privazioni; e sessanta lire gli parevano ancora troppe, si rimproverava di non saper vivere con meno.
Si era legato con altri sei emigrati, parte lombardi parte veneti. Mangiavano insieme, passeggiavano insieme, disputavano insieme. Meno Franco e un Udinese, gli altri erano fra i trenta e i quarant'anni. Tutti poverissimi, non avevano mai voluto pigliar un soldo dal governo piemontese a titolo di sussidio. L'Udinese che apparteneva a una famiglia ricca e austriacante e da casa non riceveva niente, conosceva bene il flauto, dava quattro o cinque lezioni la settimana e suonava nelle orchestrine dei teatri di commedia. Un notaio padovano copiava nello studio di Boggio. Un avvocato di Caprino Bergamasco, soldato di Roma del 1849, teneva i registri di un grande negozio di ombrelli e di mazze in via Nuova, per cui gli amici lo chiamavano il «Fante di bastoni». Un quarto, milanese, aveva fatto la campagna del '48 nelle guide di Carlo Alberto; per questo, e per una certa sua boria meneghína, il Padovano gli aveva posto nome «Caval di spade». La professione del Caval di spade era quella di litigare continuamente col Fante di bastoni per antagonismo di provincia, d'insegnare la scherma in due convitti, e, l'inverno, di suonare il piano dietro una cortina misteriosa, nelle sale dove si ballavano polke a due soldi l'una. Gli altri vivevano con miserabili assegni delle loro famiglie. Erano tutti scapoli, meno Franco, e tutti allegri. Si chiamavano e si facevano chiamare «i sette sapienti». Dominavano Torino, nella loro sapienza, dall'alto di sette soffitte sparse per tutta la città da Borgo San Dalmazzo a Piazza Milano.
La più misera era quella di Franco che la pagava sette lire il mese. Meno il Padovano, a cui una sorella del portinaio di casa portava l'acqua nella soffitta, nessuno della compagnia si faceva del tutto servire, e il Padovano avrebbe espiato bene la sua devota Margà con le tormentose celie degli amici, se non fosse stato il pacifico filosofo ch'era. Tutti si lustravano le scarpe da sé. Il più destro di mano era Franco e a lui toccava di attaccare i bottoni agli amici quando non volevano umiliarsi ricorrendo al Padovano e alla sua Margà, la quale, del resto, certe volte, «o mi povra dona!», ne vedeva capitare una processione. L'Udinese aveva bene un'amante, una piccola «tota» del primo baraccone di piazza Castello sull'angolo di Po; ma era geloso e non permetteva che attaccasse bottoni a nessuno. Gli amici se ne vendicavano chiamandola «tota bürattina» perché vendeva fantocci e bambole. Egli era del resto, grazie a «tota burattina», il solo della compagnia che avesse gli abiti sempre in ordine e la cravatta annodata con una grazia speciale. A mangiare andavano in una trattoria di Vanchiglia battezzata «la trattoria del mal de stomi» dove per trenta lire il mese avevano colazione e pranzo. Il loro lusso era il bicierìn, un miscuglio di caffè, latte e cioccolatte che si aveva per quindici centesimi. Lo prendevano la mattina, i veneti al caffè Alfieri, gli altri al caffè Florio. Meno Franco, però. Franco rinunciava al bicierìn e al relativo torcètt, pasta da un soldo, per ammassare tanto che gli bastasse a far una corsa a Lugano e portar un regaluccio a Maria. Andavano a passeggiare, l'inverno, sotto i portici di Po, quelli della Sapienza, dalla parte dell'Università, non quelli della Follia, dalla parte di S. Francesco; e poi sedevano al caffè dove uno della compagnia, per turno, prendeva il caffè mentre gli altri leggevano i giornali e saccheggiavano lo zucchero. Una volta alla settimana, invece che andare al caffè, si cacciavano, per accontentare il Fante di bastoni, in un buco di via Bertola dove si beveva il più puro e squisito Giambava.
A teatro ci andava l'Udinese e in grazia sua, di tanto in tanto, qualche altro, gratis; sempre alla commedia, per lo più al Rossini o al Gerbino. Per Franco il passar davanti ai manifesti del Regio e degli altri teatri di musica, era un supplizio molto maggiore che lustrarsi le scarpe o far colazione con cinque centimetri quadrati di frittata buonissima per osservare le macchie del sole. Fortunatamente aveva conosciuto certo C., veneto, segretario al Ministero dei Lavori Pubblici, il quale lo presentò alla famiglia di un distintissimo maggiore medico dell'esercito, pure veneto, che possedeva un piano, riceveva, la sera, alcuni amici e li ristorava con un caffè eccellente, quasi unico, in quei tempi, a Torino. Quando i sette sapienti, per una ragione o per l'altra, non passavano la sera insieme, Franco andava a casa C., in piazza Milano, a far musica, a conversare d'arte con le signorine, a disputar di politica con la signora, una fiera patriota veneziana di grande ingegno e d'animo antico, che aveva tutte eroicamente affrontate le durezze e le amarezze dell'esilio, incuorando il marito i cui primi passi erano stati assai difficili e amari; perché a lui, già reputatissimo professore dell'Università di Padova, le care, benedette teste oneste e dure della rigida amministrazione piemontese avevano imposto di subire un esame se voleva diventare capitano medico, niente meno.
La corrispondenza fra Torino e Oria non rispecchiava lo stato vero degli animi di Franco e di Luisa, correva liscia, affettuosa, certo con molti ritegni e cautele da una parte e dall'altra. Luisa si era figurata che Franco avrebbe risposto alla sua letterina e sarebbe entrato nel grande argomento. Non vedendo che parlasse mai né della letterina né di ciò ch'era stato fra loro quell'ultima notte, arrischiò un'allusione. Non fu raccolta. In fatto Franco s'era messo più volte a scrivere col proposito di affrontare le idee di sua moglie. Prima di scrivere si sentiva forte, si teneva sicuro che pensandoci avrebbe trovato facilmente argomenti vittoriosi; gliene venivano anche alla penna di quelli che gli sembravan tali ma poi, quand'erano scritti, ne scopriva subito la insufficienza, ne stupiva, se ne doleva, ritentava la prova e sempre con eguale successo. Eppure sua moglie aveva ben torto; di questo non dubitava un momento; dunque vi doveva essere modo di dimostrarglielo. Bisognava studiare. Cosa? Come? Ne domandò a un prete dal quale si era confessato poco dopo il suo arrivo a Torino. Questo prete, un piccolo vecchietto contraffatto, focoso e dottissimo, lo invitò a casa sua, in piazza Paesana, si pose ad aiutarlo con entusiasmo, gli suggerì una quantità di libri, parte da legger lui, parte da mandare a sua moglie. Forte orientalista e gran tomista, provando una vivissima simpatia per Franco, attribuendogli un ingegno e una cultura forse superiori al vero, per poco non gli suggerì di studiar l'ebraico e volle poi assolutamente che leggesse S. Tommaso. Arrivò sino a dargli un abbozzo di lettera a sua moglie con gli argomenti che doveva sviluppare. Franco s'innamorò subito del vecchietto entusiasta che aveva poi, anche nell'aspetto, la purezza d'un Santo. Si mise a studiar S. Tommaso con grande ardore e vi durò poco. Gli parve di mettersi in un mare senza fine e senza principio, di non potervisi dirigere. Il disegno scolastico della trattazione, quella uniformità nella forma dell'argomentare pro e contro, quel gelido latino denso di profondo pensiero e incolore alla superficie, gli schiacciarono in tre giorni tutta la buona volontà. Gli argomenti dell'abbozzo di lettera non li capì che in piccola parte. Se li fece spiegare, li intese meglio, si dispose a scendere in campo con essi e si trovò impacciato come David nell'armatura di Saul. Gli pesavano, non li poteva maneggiare, senti che non erano roba sua e che non lo sarebbero diventati mai. No, egli non poteva presentarsi a sua moglie col tricorno e con la tonaca del professor G., impugnando una lancia di teologia e coprendosi con uno scudo di metafisica. Riconobbe che non era nato per filosofare in nessun modo; gli mancava persino l'organo del rigido ragionamento logico; o almeno il suo bollente cuore, ricco di tenerezze e di sdegni, voleva troppo parlare anche lui, a favore o contro, secondo la propria passione. Suonando una sera a casa C., tutto fremente e con gli occhi sfavillanti, l'andante della suonata op. 28 di Beethoven, gli capitò di dire a mezza voce: «Ah questo, questo, questo!». Nessun Padre, pensava, nessun Dottore potrebbe comunicar il sentimento religioso come Beethoven. Metteva, suonando, tutta l'anima sua nella musica e avrebbe pur voluto esser con Luisa, suonarle il divino andante, unirsi a lei pregando in un inenarrabile spasimo dello spirito, così. Né gli venne in mente che Luisa, la quale del resto sentiva la musica molto meno di lui, avrebbe piuttosto dato all'andante il senso del doloroso conflitto fra il proprio affetto e le proprie idee.
Andò da G., gli riportò S. Tommaso, gli confessò tutta la sua impotenza con parole così umili e commosse che il vecchio prete, dopo qualche momento di silenzio accigliato e inquieto, gli perdonò. «Là là là», diss'egli riprendendosi con rassegnazione il suo primo volume della Somma, «ca s'raccomanda al Sgnour e sperouma ca fassa Chiel.» Così finirono gli studi teologici di Franco.
Tanto meditare sulle idee di sua moglie e sulle proprie e soprattutto il consiglio del professore «ca s'raccomanda al Sgnour» non furono senza frutto. Cominciò a intendere che in qualche cosa Luisa non aveva torto. Rimproverato da lei di non condurre la vita che secondo la sua fede avrebbe dovuto, egli s'era offeso di ciò più che di tutto il resto. Adesso un generoso slancio lo portò all'altro estremo, a giudicarsi sinistramente, a esagerare le proprie colpe d'accidia, d'ira e persin di gola, a tenersi responsabile delle aberrazioni intellettuali di Luisa. E provò una smania di dirlo, di umiliarsi davanti a lei, di separar la causa propria dalla causa di Dio. Quando ebbe il posto all'Opinione e regolò le proprie spese per poter fare un assegno alla famiglia, sua moglie gli scrisse che l'assegno era assolutamente troppo forte in proporzione dei suoi guadagni. Il saper ch'egli viveva a Torino con sessanta lire il mese le rendeva amaro il cibo a lei. Allora egli le rispose, questo non proprio sinceramente, che, anzi tutto, non pativa mai la fame; che, del resto, sarebbe stato felice anche di digiunare perché provava un'avidità intensa di mutar vita, di espiar gli ozi passati, compreso il soverchio tempo dato ai fiori e alla musica, di espiar tutte le passate mollezze, tutte le debolezze, comprese quelle per la cucina raffinata e per i vini scelti. Soggiunse che della vita passata aveva domandato perdono a Dio e che credeva doverlo domandare anche a lei. Insomma il Padovano, cui si era legato di grande amicizia, udito recitarsi da lui, come a riprova di precedenti confessioni, questo brano di lettera, gli disse: «Ciò, la par l'orazion de Manasse re di Giuda».
Luisa scriveva molto affettuosamente, sì, ma con minore effusione. Il silenzio di Franco circa l'argomento del colloquio doloroso le spiaceva; e cominciar lei, di fronte a un silenzio così ostinato, non le parve utile.
I propositi di lavoro e di sacrificio la commossero profondamente; quando lesse quella confessione da gran delinquente con la domanda di perdono a Dio e a lei, ne sorrise e baciò la lettera sentendo ch'era un atto di sottomissione e un'acquiescenza umile alle censure che tanto lo avevano a prima giunta irritato. Povero Franco, ecco gli slanci della sua nobile, generosa natura! Ma durerebbero? Rispose subito e se dalla risposta traspariva la sua commozione, ne traspariva pure il sorriso, del quale Franco non fu contento. Nella chiusa v'eran questi periodi: «Leggendo tutte le accuse che ti fai ho pensato con rimorso a quelle che t'ho fatto io, una triste notte, e ho sentito che ci pensavi anche tu quando scrivevi, benché né questa lettera né alcuna delle altre tue ne abbia parola. Di quelle accuse ho rimorso, Franco mio; ma delle altre cose a cui tanto penso nella mia solitudine, oh come vorrei che parlassimo ancora, da buoni amici!».
Il desiderio di Luisa restò vano. Su questo punto Franco non rispose affatto, anzi la sua prima lettera fu alquanto freddina. Perciò Luisa non ritornò più sull'argomento. Solo una volta, parlando di Maria, scrisse: «Se tu vedessi come recita il Padre nostro, mattina e sera, e come si comporta a Messa, la domenica, saresti contento».
Egli rispose: «Di quanto mi scrivi circa le pratiche religiose di Maria, sono contento e ti ringrazio».
Sì Luisa che Franco scrivevano quasi ogni giorno e spedivano le lettere una volta alla settimana. Ismaele andava alla posta di Lugano ogni martedì, portava la lettera della moglie e riportava quella del marito. In giugno Maria ebbe il morbillo, in agosto lo zio Piero perdette quasi improvvisamente l'occhio sinistro e ne fu, per qualche tempo, molto turbato. Durante questi due periodi, le lettere di Oria spesseggiavano. In settembre la corrispondenza ritornò settimanale. Tolgo dal fascio le ultime lettere scambiate fra Luisa e Franco alla vigilia degli avvenimenti onde furono colti alla fine di settembre.

Luisa a Franco

Oria, 12 settembre 1855

Il riverito signor Ismaele ci ha fatto molto aspettare l'ultima tua, perché da Lugano invece di venire a Oria è andato a Caprino con alcuni amici suoi e delle Potenze Occidentali a festeggiare la presa di Sebastopoli nella cantina dello Scarselon e là ha bevuto «un cicinìn» e quindi è ritornato a Lugano dove un altro «cicinìn» lo ha fatto dormire come un salame fino a mercoledì mattina. Ha pure dimenticato di spedirti il vasetto di lucido e così lo dovrai aspettare una settimana o pagare, a Torino, tanto più caro, se la provvista è finita. Me ne rincresce assai.
Se Dina ti ha offerto di scrivere qualche appendice teatrale, tanto meglio. Così potrai udire gratis un po' di musica; benché sono anch'io dell'opinione del vostro Caval di spade che bisogna ricondurre la musica italiana al tamburo. Quanto all'affare Valle Intelvi, lodo la tua prudenza. Essa è stata però così grande che non sono certissima d'averti inteso bene. Ho inteso che per preparare, in caso di guerra, un movimento alle spalle dei nostri signori, occorrono alcune persone sicure cui far capo con le opportune comunicazioni da Torino, sia direttamente sia per mezzo del Comitato di Como. A ogni modo andrò io stessa domani a Pellio Superiore dove c'è un medico condotto grande amico di V. e sicurissimo. Parlerò con lui, intanto. Per quella fodera sdrucita non ti crucciare. Basta che porti l'abito a Lugano quando verrai. Ci penserò io e posso anche promettere di foderarti le maniche di seta, grazie ad una sottana che mia madre mi diceva essere venuta in casa Ribera da casa Affaitati nel secolo scorso, una sottana gialla a fiorami rossi che né io né Ombretta porteremo certo mai.
Ombretta sta benissimo. Da tre giorni, declinando il caldo, ha ripreso i suoi colori. Stamattina le ho dato la prima lezione di lettura col metodo Lambruschini.
Tutto si trasforma e progredisce nella nostra casa! Questa sorte è toccata ieri all'antico cartellone della tombola, con dolore muto ma palese della Cia. Ne ho fatto strage per tagliarne fuori, oltre a cinque quadratini per le vocali, parecchi altri quadrati più grandi, dove ho disegnato, immagina come! le figure di so-le, lu-na, ca-ne, bu-e, ecc. Maria ha imparate le vocali con prontezza sufficiente. A mezza lezione è entrato lo zio Piero e ha esclamato: «Oh povero me!». Poi, malgrado le mie proteste, ha molto compianto Maria. Ella ha risposto che studiava per scrivere a papà. «Scrivere a papà» è la sua idea fissa e io credo che se la facessi scrivere conducendole la mano, perderei forse il più forte stimolo che posso adoperare con lei come maestra di lettura, poiché sa che prima di scrivere deve imparare a leggere. Il suo affetto per te vien sempre fuori con una mistura di amor proprio. Parla come se fosse un bisogno, non suo ma tuo, mio, dell'universo intero che Ombretta Pipì scriva a papà. Uno di questi giorni mi udì sgridar la Veronica perché ha la cattiva abitudine di buttar dalla cucina l'acqua sporca sul carrubo che n'è intristito. Ricordai alla Veronica, naturalmente, quanto il carrubo è caro a te. Maria l'udiva che brontolava tra sé contro il povero carrubo perché manda ombra in cucina e gli augurava di crepare. «Taci!», le intimò Maria con una forza inesprimibile. «Ti mando via se non taci.» L'altra la rimbeccò e Maria fuori a piangere. Io udii e accorsi. «Perché piangi?» «Perché la Veronica dice brutte parole alla pianta di papà.» Bisognava vedere che visetto irritato! Adesso fa lei la guardia al carrubo, non se ne allontana senza una predica alla Veronica e prende un'aria d'importanza come se la vita del carrubo fosse affidata a lei. Ogni mattina, quando va in giardinetto, corre lì e dice: «Stai bene, pianta?». Oggi ha versato molte lagrime perché la breva soffiava scotendo forte il carrubo, e poi ch'ella gli ebbe fatta la solita domanda, io le dissi: «Vedi che non sta bene il carrubo? Vedi che risponde di no?». Più tardi mi domandò se il carrubo, quando muore, va in Paradiso. Le risposi che siccome il carrubo disturba la Veronica mandando l'ombra in cucina, non può andare in Paradiso. Tacque mortificata.
Lo zio Piero è ormai rassegnato del tutto alla perdita del suo occhio. Si paragona ad un altare dove si dice messa e il chierico ha spento, durante l'ultimo vangelo, una delle due candele. Dopo pranzo egli e Maria fanno in loggia delle conversazioni senza fine, non più interrotte dal corso del Mississipì, oramai dimenticato. Lo zio le racconta tante vecchie cose che non ha mai raccontato neppure a me. Io non entro, allora, in loggia, perché credo che si apra più volentieri con la piccina sola. Si vogliono un gran bene e non si fanno mai o quasi mai baci né carezze, come se Maria fosse una persona grande.

13

Stamattina ho preso con me la Leu, la sorella della Veronica, ch'è clorotica, per condurla a consultare il medico di Pellio; capisci! Abbiamo impiegato due ore e mezzo da Osteno. Tu avresti goduto con entusiasmo la bellezza dei luoghi e della mattina. Io invece non me ne commossi che un momento fra i vecchi castagni di Pellio Superiore, dove voltandosi a guardar giù la valle si scopre, in fondo a quel grande imbuto verde, Porlezza e un pezzetto di lago, una piccola coppa di acqua viva, verde anche quella. Ti ricordi che abbiamo fatto colazione insieme lassù, nel tempo in cui ero ancora signorina e che l'Ester si è accorta di qualche cosa quando mi hai parlato di mia madre?
Ho trovato il mio medico condotto alla fontana di «Pèll sora», fra le pecore, come un patriarca. Gli ho fatto visitare la Leu e poi, allontanata questa, abbiamo parlato. Non sapeva che sei a Torino e al solo nome di Torino mi afferrò e mi strinse le mani come se la moglie d'uno ch'è a Torino fosse già una specie di eroina. Credeva poi che corrispondendo con Torino io avessi il piano di Cavour in una tasca e quello di Napoleone nell'altra. È un bonapartista così sfegatato che gli è amara l'alleanza inglese e dice «la perfida Albione». Si teneva sicurissimo, del resto, della guerra a primavera e non gli piacque udire che ci sono dei dubbi. Credo che mi abbia subito ammirata meno. Quanto ad agire nel momento buono, dice che in Vall'Intelvi si faranno tagliare a pezzi, se occorre, «come micch». Perché parla sempre in plurale, dice «nün chì». Non ha l'aria d'uno spaccamonti. Parlando di venire alle mani coi Croati diventò più rosso dell'asso di cuori e vibrava tutto come un bracco quando gli si mostra un pezzo di pane. «Nün chì», mi disse, «gh'emm poeu anca el Brenta.» Sai, hanno a vendicare il Brenta, fucilato dagli austriaci. Insomma, se la parte mia, quando scoppierà la guerra, non fosse di liberare la «süra Peppina» e di buttare ai cavedini il suo Carlascia, andrei volentieri a battermi insieme al dottore di Pellio.
Ritornammo alle tre. Lo zio giuocava a tarocchi col curato, con Pasotti e col signor Giacomo. Il curato aveva la Gazzetta Ticinese e si era molto parlato di Sebastopoli. Si capisce che Pasotti ha una gran rabbia come tutti i tedesconi. Invece il signor Giacomo era tutto intenerito per il suo Papuzza e il curato propose di bere una bottiglia alla salute di Papuzza. Allora lo zio Piero gli domandò se non aveva vergogna, egli prete, di festeggiare le buone fortune di Papuzza. «Mi l'era per bev», brontola il curato. «L'è ben che ghe n'è minga», risponde lo zio. Il curato brontolò peggio di prima e lo zio, per consolarlo, gli fece una dotta dissertazione sui dialetti lombardi, concludendo: «Ghe n'è no, ghe n'è minga e ghe n'è miga».

14

Non credo che Pasotti verrà più in casa nostra. Me ne rincresce per quella povera Barborin che non potrà più venirci neppur lei, temo; ma non mi pento di quel che ho fatto.
Egli sa benissimo che sei a Torino da un pezzo, come qui lo sanno tutti. Ne ha parlato persino col Ricevitore, me lo disse la Maria Pon che stando alla cappella del Romìt li udì mentre scendevano discorrendo ad Albogasio Superiore. Quando è venuto da noi ha affettato sempre d'ignorarlo e ha domandato le tue notizie con quelle sue solite smancerie di premura e di amicizia. Oggi mi trova sola in giardinetto, mi domanda quanto ancora starai assente e se adesso sei a Milano. Io gli rispondo netto che mi meraviglio della sua domanda. Egli diventa pallido. «Perché?», dice. «Perché Lei va dicendo che Franco è in ben altro luogo.» Si confonde, protesta, freme. «Protesti pure», dico io. «Tanto è inutile. Lo so. Del resto Franco sta benissimo dov'è. Lo dica pure a chi crede.» «Lei mi offende!», diss'egli. Io non stetti tanto a riflettere e risposi: «Sarà!». Allora se n'andò precipitosamente, senza salutarmi, nero come l'asso di picche, poiché sono in vena di simili paragoni. Sono sicura che stasera andrà a Cressogno.
Il Cüstant ci ha mandato a regalare una magnifica tinca presa da lui stamattina con gran dispetto del Biancòn che pesca tutto il giorno, non prende niente e si arrabbia perché le tinche, brave! se ne impipano di S. M. I. R. A. e del suo Carlascia. «Poer omàsc!», dice la súra Peppina. «El se mangia el fidegh!». Gli passerà, gli passerà.

Miti sensi, pace amica
Tornan presto a nobil cor;
Dio conservi e benedica
Ferdinando Imperator.

15

Ho raccontato allo zio l'episodio Pasotti e n'è stato assai malcontento. «Bel profitto», ha detto, «che ne caverai!» Povero zio, parrebbe un utilitario. Invece è un filosofo. In fondo, di fronte agli sdegni miei per tante brutte cose che sono nel mondo, il suo argomento capitale è «ghe voeur alter!».
Oggi la messa parrocchiale è stata ad Albogasio Superiore. Nell'uscire di chiesa con Maria ho avuto uno sguardo desolato della povera Pasotti che aveva evidentemente l'ordine di evitarmi. Invece è discesa con noi Ester e poi è anche salita in casa e mi ha tenuto, a quattr'occhi, un discorso che da qualche tempo mi aspettavo. Ha cominciato pregandomi di non ridere e ridendo lei. Insomma capisci che il professore, dalli e dalli, ha fatto un po' di breccia. E così, quantunque Ester affermi di non poter decifrare i propri sentimenti. Io vedo tutto il cammino ch'egli ha fatto nel suo cuore. Sulle prime, te ne ricordi? lo chiamava valsoldesemente el vecc, el veggiòn, el zücca pelada, l'oreggiàt, el nasòn, el barbarostì. Quando s'accorse della simpatia di lui un sentimento di gratitudine le fece smettere questi titoli, senza riconciliarla però né con il cranio lucido né con le orecchie a ventaglio né col pelo rossiccio né col naso fiorito dell'adoratore. Adesso de' primi tre guai non si parla più; su questi tre punti l'amico ha vinto la battaglia e può portarli in trionfo. Solo intorno al quarto punto vi è ancora del combattimento. «Mi l'è quel nas!», diceva Ester stamattina e rideva rideva, si nascondeva il bel visetto brillante. Il naso scandaloso mi pare che fatalmente prosperi, si colori e ingrossi sempre più.
Quel semplice uomo mi confidò poco fa, forse perché lo ripetessi a Ester, che ha sempre bevuto solamente acqua anche in gioventù e che il rossore e il turgore del suo naso dipendono da frequenti sofferenze viscerali. Ho paura che questo nuovo aspetto delle cose non migliori la situazione.
Credo però che l'amica finirà con superare anche un così grande e grosso ostacolo. Il fatto è che la passione di lui è all'apice. Egli le ha scritto trenta pagine di confessione generale, vuotandosi proprio il cuore e rivoltandone la fodera, per modo da intenerire un croato. Io lo aiutai presso Ester che deciderà entro due giorni e vuole che la risposta gli sia fatta da me. Io poi capisco che la letteratura del professore le mette soggezione e che ha un gran timore di fare sbaglietti di ortografia. Buon segno!

18

Sono stata tre giorni senza scrivere temendo non esser padrona della mia penna, non saper comprimere il mio pensiero dentro parole che devono avere una data misura e non più. Adesso lo posso fare e lo faccio. Sappi però, Franco, che non rispondo esser padrona di me sempre!
È venuto dunque da me, la sera del 15, l'agente di tua nonna. Poiché la rata semestrale de' tuoi interessi scade il 16 ho creduto che avesse le cinquecento svanziche e gli ho detto senz'altro che andavo a preparargli la ricevuta. Allora il gentilissimo signor Bellini mi disse che la ricevuta mia non gli poteva bastare. «Come», rispondo, «se Le è bastata il 16 marzo?» «Ma!», dice. «I miei ordini!» «Ma Franco non c'è.» «Lo so.» «E allora, cosa è venuto a fare?» «Sono venuto a dirle che il signor don Franco, per avere il denaro deve presentarsi all'agenzia della signora marchesa in Brescia.» «E se non potesse andare a Brescia?» Qui il signor Bellini fece un gesto come per dire: pensateci voi. Io gli risposi che andava bene, gli feci portare il caffè e gli dissi che avrei desiderato comperare dalla signora marchesa le librerie del tuo antico studio di Cressogno. Il Bellini diventò giallo e partì mogio mogio come il nostro vecchio cane Patò di casa Rigey quando aveva rubato.
È certo che in questa immondizia vi ha un dito del signor Pasotti.
Ieri è venuto qua il prefetto della Caravina e ha raccontato che il 14 sera Pasotti è andato a Cressogno assai tardi ed è capitato in casa della nonna mentre si diceva il rosario, per cui gli toccò pure di rosarieggiare. Questo faceva ridere il prefetto; secondo lui il Pasotti va a messa perché è I. R. pensionato ma di preghiere dice solo «el Patèr d'i ratt», che io non so cosa sia. Soggiunse poi che quando gli altri partirono, Pasotti restò a confabulare con la nonna e che c'era anche il Bellini. Bellini era arrivato il 15 stesso, da Brescia. Probabilmente aveva recati i denari per te.
Fino all'ottobre, quando arriverà il denaro tuo, c'è da vivere. Altro non dico.
Il ciclamino che troverai qui dentro te lo manda Maria. Devo pure raccontarti questa cosa! Puoi pensare in quale stato d'animo ella mi vede. Mi ode anche spesso discorrere dell'argomento con lo zio. Lo zio è sempre lo zio. In vita sua ha solamente giudicato birbanti quegli appaltatori che gli offrivano quattrini e un altro zio, il suo antipodo, che dopo di essersi servito del nipote per anni, non gli ha lasciato un fico secco. Altri birbanti non ha mai voluto vedere e neanche adesso vuol vederne. Ora, quando io discorro con lui, Maria vorrebbe ascoltare sempre. Io la mando via ma poi tante volte mi accorgo che piano piano ritorna. Stamattina si mette a recitare le sue orazioni. Oh, Franco, tua figlia è ben religiosa nel senso tuo! L'ultima che recita è il requiem per la povera nonna Teresa. «Mamma», dice allora, «voglio recitare il requiem anche per la nonna di Cressogno.» Ho risposto quel che ho risposto, parole amare; avrò fatto anche male, se vuoi, lo confesso. Maria mi guarda e fa: «È proprio cattiva la nonna di Cressogno?». «Sì.» «E perché lo zio dice che non è proprio cattiva?» «Perché lo zio è tanto buono.» «E tu, allora, non sei mica tanto buona?» Cara la mia innocente, me la mangiai di baci, non ne potei proprio a meno. Appena fu libera di parlare, riprese subito: «Non vai mica, sai, in Paradiso, se non sei tanto buona». Quella del Paradiso è la sua fissazione. Povero Franco, non averla con te, tu che saresti così contento di lei! Fai un gran sacrificio! Se ti può far piacere ti dirò che la sola possibilità per me di amare Iddio la trovo in questa bambina perché in essa Iddio mi diventa visibile, intelligibile.
Addio, Franco; ti abbraccio

Luisa

P.S. Sappi che ho licenziato la Veronica per il 1° ottobre. Per economia, prima; e poi perché mi sono accorta che fa all'amore con una guardia di finanza. Oh, mi scordavo quest'altra! Mezz'ora fa è venuta Ester a dirmi che si è decisa per il sì ma che desidera di aspettare ancora un giorno a vedere il professore. Si capisce che il naso è inghiottito ma non ancora passato giù nello stomaco.


Franco a Luisa

Torino, 12 settembre 1855

Iersera Dina mi ha mandato al d'Angennes dove si è data male un'opera vecchiotta che non mi garba, Marin Faliero. Aggiungi l'idea tormentosa di dover scrivere l'appendice e intenderai che non è stato un invitarmi a nozze. Un collega mi propose di presentarmi in un palco dov'erano due dame sfoggiatamente eleganti. Credo l'abbia fatto per desiderio del Dina perché esitava, gittava qualche rapida occhiata ai miei panni i quali mostrano aperto il canchero della borsa. Pensa se mi fu agevole il trarmi d'impaccio!

Panni vetusti
Fedeli e frusti

vi debbo anche per questo una gratitudine che non rifiuto.
In teatro non si parlava che di Sebastopoli. I più credono che la pace non si farà, che l'Inghilterra non vorrà posare le armi prima d'aver levato ai russi per cinquant'anni il prurito delle conquiste. Uscendo dal teatro udii il deputato B., un fiero avversario della spedizione, dire a qualcuno: «Hanno preso la loro tomba. Un piccolo Napoleone, una piccola Mosca!». Io dissi forte: «Hanno preso Verona». B. mi guardò con due occhi fulminei e io guardai lui senza abbassare i miei. Egli si strinse nelle spalle e se n'andò. Salii nella mia soffitta e mi posi a scrivere l'appendice sui margini di un giornale onde non sciupare carta.
Scrivi, cancella, riscrivi e ricancella, ne son venuto a capo alle quattro del mattino. Qui mi dicono che i miei periodi hanno una forma troppo classica e che adopero troppi vocaboli e modi toscani. «Già, Lei, col Suo Giusti!», mi ha detto D. Il guaio è ch'io non so scrivere un italiano piemontese come forse piacerebbe a lui. Intanto mi son buscato un bellissimo e lucentissimo scudo nuovo di zecca con un Vittorio Emanuele così parlante che potrebbe farvi svenire dalla commozione, come svenne ier l'altro all'hôtel della Liguria una signora veneta vedendo passare alla testa d'una colonna di fanteria il generale Giannotti che scambiò, in grazia de' baffi maiuscoli, per il Re. Io serberò lo scudo, ve lo porterò a Lugano, tu lo porrai da parte e sarà la prima pietra della dote di Ombretta. Va bene? L'idea me n'è venuta per un sogno che feci stamattina, appena addormentato, nell'ora in cui l'anima

Alle sue visïon quasi è divina.

Sognai ch'era nella chiesa di S. Sebastiano di Oria, con te e Maria, grande, bella, vestita da sposa; che lo sposo era Michele Steno e che lo zio Piero si stava mettendo cotta e stola per celebrar lui il matrimonio e che Michele Steno si alzò dall'inginocchiatoio per venirmi a dire: «Sì, tutto va bene, ma e la dote, e la dote?».
Maria mia dolcissima, verrà pure per te il gran giorno della dote; quand'anche tu tenessi allora in serbo molti pezzi d'oro sopra lo scudo d'argento, avresti tuttavia lo scudo più caro!

14

Il Fante di bastoni è in pericolo di essere licenziato dal suo principale per le condizioni veramente miserevoli del suo vestito. Il Fante è per verità uno sciupone e non ha ancora appreso, duris in rebus, a maneggiare una spazzola; ma insomma gli altri sapienti hanno deciso che non faranno colazione per una settimana ond'egli si possa rimpannucciare. Vedi bassezza del cuore umano! Il Fante si è sbracciato a ringraziare e poi si disponeva a far colazione lui, come se nulla fosse. Questo gliel'abbiamo proibito. Così oggi invece di andar al «Mal de stomi» passammo una mezz'oretta sulla via del Po, verso il Valentino, a veder l'acqua scendere. L'Udinese portò seco il flauto, perché ad una colazione ideale dove si offrivano le più trimalcioniane idee di cibi e di bevande, la musica non poteva mancare. Egli aveva una lettera de' suoi con magnifiche proposte di ritorno all'ovile. Persino il cavallo da sella gli offrono. Ci narrò di avere risposto che lo vedranno presto arrivare sopra un cavallo del Re Vittorio Emanuele. Allora il Padovano, gran motteggiatore, gli ha detto con tutta flemma: «Ciò, eroe, sonistu anca el trombon, ti?». (Vedi che t'imito, poiché la ferula de' pedanti mi è lontana, nelle tue scandalose familiarità col dialetto.) L'Udinese si è arrabbiato alquanto ma poi vi ha fatto su la sua brava sonatina di flauto. Il fatto strano è che nessuno di noi ha sentito fame. Però, levando la seduta, abbiamo deciso che l'abbigliamento del Fante verrà semplificato e ch'egli potrà benissimo fare a meno del giustacuore, modernamente detto sottoveste.
Ah noi faremmo a meno anche del pranzo per poter passare il Ticino col Re nell'aprile del 1856! Ne parlavamo tornando in città dalla colazione ideale. Il Padovano ha osservato che in aprile l'acqua è troppo fredda e che sarebbe meglio aspettare fino a giugno. Si diceva che gran cosa sarà l'Italia senza tedeschi. Ti assicuro ch'eravamo tutti entusiasti malgrado il vuoto dello stomaco. Tutti meno il Padovano, sempre; del quale va pur detto, a sua scusa, che patisce la fame, o quasi, per non vedere austriaci, e che quantunque bussi all'uscio de' quaranta si batterà meglio di qualche giovane che adesso si mangia un caiserlicchio a colazione e due a pranzo. Egli crede che torneremo un paese di cani e gatti. «Per esempio», diceva, «intendiamoci bene. Partiti i tedeschi, ciascuno a casa sua e guai a voi se venite a rompermi le scatole a Padova!». Mi pareva di udire lo zio Piero, quando noi pure, a Oria, s'è parlato della grandezza, dello splendore futuro d'Italia. «Eh sì sì!», diceva. «Eh sì sì! Il lago diventerà di latte e miele e la Galbiga de formagg de grana!»
Vedremo, vedremo!

21

La tua lettera mi suscita un tumulto di sentimenti che non si scrivono.
Mi addolorano, senza dubbio, l'atto della nonna e la obliqua malevolenza del Pasotti ma più mi affligge lo sdegno tuo troppo forte. Quando un mio procuratore si presenterà a Brescia, il pagamento non potrà venire rifiutato. È vero, tu sei donna e non hai l'obbligo di conoscere queste cose. Anche la collera ti perdono poiché freddo non rimasi nemmeno io, da principio. Quindi mi son detto: Di che ti sdegni e che ti sorprende? Non conoscevi tu quel malanimo e non ne avesti offese maggiori?
Infinitamente mi rattrista che tu non abbia saputo celare i tuoi sentimenti a Maria, infinitamente mi commuove che tu ne sia pentita e infinitamente mi consola che tu ami il Signore nella bambina, che tu me lo scriva. A dir vero, cara, non dovrei appagarmene così perché ad amare Iddio ne invitano i cieli e la terra ed Egli ci è visibile in ogni luce, intelligibile in ogni vero! Ma insomma tu incominci a udire la voce Sua! Nelle mie lettere non ho mai toccato questo punto per sentirmi troppo inetto a parlartene degnamente, efficacemente. E ora lascio che Iddio ti parli nella bambina, torno nel mio silenzio. Sappi soltanto che ascolto palpitante, che prego e spero.
Posso io dirti quello che sento per Maria? Chi potrebbe dire questa commozione, questa tenerezza immensa, questo desiderio che mi strugge di tenermela almeno un momento, un solo momento, sul cuore? Credi tu che io possa attendere fino a novembre? No no no, scriverò appendici, copierò, monterò qualche guardia per altri ma verrò a Lugano prima! Coprila di baci per me, intanto, dille che Papà ha sempre nel cuore la sua Ombretta e che la benedice, domandale cosa le farebbe piacere ch'io le portassi e poi scrivimelo senza pensar poi troppo alla mia povertà.
Ti abbraccio, Luisa mia, con l'anima.

Franco


Luisa a Franco

24 settembre 1855

Finalmente! Da quando sei partito io desiderai sempre, che tu toccassi quel punto. Come mi sarò spiegata, quella notte, nella mia commozione dolorosa? Come mi avrai inteso tu nella tua? Da mesi e mesi sento il bisogno di parlarne con te e non l'ho fatto mai per mancanza di coraggio.
Vedi, per esempio. Tu mi hai accusata d'orgoglio, quella notte. Ti supplico di credere che non sono orgogliosa; non posso neanche comprendere un'accusa simile!
Mi par di capire dalla tua lettera che tu mi supponga ritornata alla fede in Dio. Ma t'ho io mai detto di non credere in Dio? Non posso averti detto questo perché la storia de' pensieri miei mi è tutta scritta nella mente, e lo spavento, l'angoscioso pensiero di non poter forse più credere in Dio mi son venuti dopo la tua partenza; ne so il giorno e l'ora. Avevo udito parlare a S. Mamette di un gran pranzo dato da tua nonna a Brescia e io non potevo assolutamente procurare al nostro diletto zio quel regime di cibi e di vino che il medico, temendo per l'occhio destro, prescriveva. Ho lottato con quelle tenebre spaventose, Franco, e ho vinto. È vero, la vittoria è in gran parte della nostra Maria. Vorrei dire che se tante nere nuvole mi nascondono l'esistenza di una Giustizia Superiore, me ne trapela però un raggio in Maria; e questo raggio mi fa credere e mi fa sperare nell'Astro. Perché sarebbe orribile che l'universo non avesse un governo di giustizia!
Quella notte, dunque, io ti ho potuto solamente dire che intendevo la religione in un modo diverso da te, che gli atti di fede cristiana e le preghiere non mi parevano essenziali all'idea religiosa ma l'amore e l'azione per quelli che soffrono, sì! Ma lo sdegno e l'azione contro coloro che fanno soffrire, sì!
E tu vuoi ritornare nel tuo silenzio? Ma no, non lo devi. Ti senti debole, dici. Debole te o il tuo Credo? Ragioniamo, discutiamo. Confessa che voialtri credenti amate le vostre credenze anche perché sono un comodo riposo dell'intelletto. Vi adagiate in esse come in un'amaca sospesa in aria per tante fila lavorate dagli uomini, annodate dagli uomini a diversi uncini. Voi vi state bene e se si va tentando, saggiando con la mano anche uno solo di questi fili, ve ne turbate e avete paura che si spezzi, perché poi molto facilmente si spezzerà il suo vicino e dopo questo un altro e tutto il vostro letto fragile rovinerà dall'aria in terra con vostro spavento e dolore. Conosco questo spavento e questo dolore, so che si paga così la compiacenza di camminar poi sul solido e perciò non mi trattiene dal discutere teco una pietà che sarebbe falsa. Ma forse mi inganno e sarai tu che mi solleverai a te nel tuo letto di fragili fili e d'aria. Maria non può far tanto. Se Maria mi fa credere in Dio non vuol dire che possa farmi credere anche nella Chiesa. E tu credi sopra tutto nella Chiesa, tu! Cerca di persuadermi dunque e io pure ti ascolterò palpitando; e se non prego, almeno spero, perché adesso più che mai desidero pienamente unirmi a te. Adesso con l'antico affetto sento per te un'ammirazione nuova, una gratitudine nuova.
Ti offenderai di questo mio sfogo? Pensa che otto mesi sono devi aver trovato una mia lettera nella tua borsa da viaggio e che da otto mesi aspettavo risposta!
Il professore ed Ester si vedono in casa nostra, oramai come fidanzati. Quelli son felici, almeno. Ella va in chiesa, egli non ci va, e né l'uno né l'altro si danno pensiero di ciò più che del colore diverso de' loro capelli. E così fanno novecentonovantanove sposi su mille, credo!
Ti abbraccio. Scrivi a lungo, a lungo.

Luisa


Questa lettera non partì da Lugano che il 26 settembre e Franco l'ebbe il 27. Il 29, alle otto della mattina, ricevette il seguente telegramma pure da Lugano:

Bambina malata gravemente. Vieni subito.

Zio


10. Esüsmaria, sciora Lüisa!

Nelle prime ore pomeridiane del 27 settembre Luisa ritornava da Porlezza con alcune carte da copiare per il notaio. In quel tempo gli scogli fra San Michele e Porlezza erano affatto selvaggi, non avevano la sottile briglia che ora li doma. Luisa s'era fatta tragittare in barca per quel breve tratto e poi aveva preso, a piedi, la stradicciuola che, come tutte quelle del mio piccolo mondo, antico e moderno, non comporta altri metodi di viaggiare; la stradicciuola graziosa e perfida che cerca ogni mezzo di non arrivar mai dove il viandante vorrebbe. A Cressogno passa sopra la villa Maironi che nemmanco si vede.
«Se la incontrassi!», pensava Luisa con un ribollimento del sangue; ma non incontrò nessuno. Sull'erta da Cressogno al Campò il sole bruciava. Quando si trovò nel fresco, alto vallone che chiamano il Campò, sedette all'ombra del colossale castagno che vive ancora, ultimo di tre o quattro venerabili patriarchi. Guardava le case del suo nativo Castello appollaiate a tondo sopra un alto spuntone di scogli ombrosi e pensava alla povera mamma compiacendosi che almeno ella fosse in pace, quando sentì esclamare: «Oh, cara Madonna!». Era la süra Peppina che veniva pure da Cressogno, disperata di non aver potuto trovare uova né a S. Mamette né a Loggio né a Cressogno. «Adess el me coppa, el Carlo! El me mazza addirittura, cara Lee!» Avrebbe voluto andare anche a Puria, ma era mezza morta di stanchezza. Che paesi da cani! Che strade! Quanti sassi! «Quand pensi al me Milan, cara Lee!» Sedette anche lei sull'erba presso Luisa, le disse un mondo di tenerezze e volle che indovinasse con chi avesse parlato di lei, allora allora. Ma con la signora marchesa! Ma sicuro! «Ah cara Lee! S'ciao!» Pareva che la Peppina avesse gran cose a dire e non osasse e ne provasse una molestia in gola, volesse pur farsele strappare. «Che roba!», esclamava ogni tanto «Che roba! Che discors! S'ciao, s'ciao!» Luisa taceva sempre. Allora l'altra cedette a quel gran prurito e buttò fuori ogni cosa. Era andata dal cuoco della signora marchesa, per farsi prestare delle uova, e la signora marchesa, udita la sua voce, aveva voluto assolutamente vederla, trattenerla a chiacchierare, e lei si era sentita nel cuore come una ispirazione del cielo che le diceva: Parla di quella povera gente! Forse è il momento buono. Parla della Maria, «de quel car belee, de quel car ratin, de quel car strafoi!». Ah era stata una ispirazione del diavolo e non del cielo. Aveva cominciato a parlarne, voleva dire quanto era bella, quanto era cara, e quella gran meraviglia di un gran talento così spropositato; e lei, la bruttona, con una faccia «che ghe disi nagòtt», a interrompere: «Lasci stare, signora Bianconi; so ch'è molto male educata e altro non può essere». Aveva provato allora a toccare un altro tasto, la disgrazia del signor ingegnere rimasto cieco d'un occhio. E la marchesa: «Quando non si è onesti, signora Bianconi, il Signore castiga». Qui la Peppina, guardando Luisa, si pentì delle sue chiacchiere, si pose ad accarezzarla, ad accusarsi d'aver parlato, a dirle che si desse pace. Luisa l'assicurò ch'era tranquillissima, che di nulla si sorprendeva più da parte di quella persona. La Peppina volle ad ogni modo darle un bacio e partì brontolando fra sé molti «poer a mi!» col vago sospetto di aver fatto, senza uova, una gran frittata.
Luisa si alzò, si voltò a guardar verso Cressogno stringendo il pugno. «Almeno uno scudiscio!», pensò. «Almeno frustarla!» L'idea di un incontro, la vecchia idea che l'aveva fatta balzar di passione quattro anni prima la sera del funerale di sua madre, la stessa idea che le era balenata testé, nel passar da Cressogno, la riafferrò violenta, le fece dare un passo verso la discesa. Si fermò subito e ritornò lentamente indietro, si avviò verso S. Mamette, arrestandosi ogni tanto a riflettere, con la fronte scura e le labbra strette, a sciogliere qualche nodo nella fila di una tela che veniva tessendo nel suo segreto.
A Casarico andò dal professore per offrirgli un ritrovo a casa sua con la fidanzata per l'indomani alle due. Nel congedarsi gli domandò se possedesse ancora le carte Maironi. Il professore, meravigliato della domanda inattesa, rispose di sì e ne aspettava una spiegazione; ma Luisa partì senz'altro. Le premeva di esser a casa, non potendo far conto per la custodia di Maria né sullo zio né sulla Cia e fidandosi poco della servetta licenziata. Trovò la Maria sul sagrato, sola, e sgridò la Veronica. Poi andò in camera, si pose a scrivere a Franco.
Scriveva da cinque minuti quando udì un bussar leggero alla finestra dello stanzino attiguo. Quella finestra guarda sopra una scaletta che mette dal sagrato a certe stalle e quindi ad una scorciatoia per Albogasio Superiore. Luisa andò nello stanzino e vide all'inferriata il viso rosso, scalmanato della Pasotti che le fece segno di tacere e le domandò se avesse visite. Udito che no, la signora Barborin diede due frettolose occhiate in alto e in basso, corse giù per la scaletta ed entrò in casa tutta trepidante.
Povera donna, era in terreno proibito e non aveva in mente che lo spettro di Pasotti furibondo. Pasotti era a Lugano. Oh Signore, sì, era a Lugano! Dato a Luisa quest'annuncio, la disgraziata creatura cominciò a stralunar gli occhi e a contorcersi. Pasotti era a Lugano per il gran pranzo dell'indomani, per le provviste. Come, Luisa non sapeva di questo pranzo? Non sapeva chi ci sarebbe venuto? Ma la marchesa, la signora marchesa Maironi! Luisa trasalì.
La Pasotti fraintese l'espressione dei suoi occhi, credette leggervi un rimprovero e si mise a piangere con le mani sul viso, a dirsi nelle mani, scotendo quei due poveri riccioloni neri, che ci aveva una rabbia, una rabbia! Avrebbe vissuto un anno a pane ed acqua piuttosto che invitar a pranzo la marchesa! Questa del pranzo era certo una gran croce per lei, in causa di tanti pensieri, della fatica di preparar tante cose e delle tremende strapazzate di Pasotti; ma la croce suprema era di far dispiacere a Luisa! Almeno fosse una croce buona da offrire al Signore! Ma no, ci aveva troppa rabbia. Era venuta apposta per dire alla sua cara Luisa quanto soffriva per questo pranzo.
«Perdònem, Lüisa», diss'ella con la sua voce velata che pareva venire da una vecchia spinetta chiusa. «Ghe n'impodi propri no, propri no, propri no!»
Eran sedute accanto sopra un canapè. La Pasotti si levò di tasca un fazzolettone, se ne coperse gli occhi con una mano e con l'altra cercò, senza volgere il capo, quella di Luisa. Ma Luisa si alzò, andò alla scrivania e scrisse sopra un pezzo di carta: "A che ora viene la marchesa? Che via tiene?". La Pasotti rispose che il pranzo era alle tre e mezzo, che la marchesa doveva scendere verso le tre allo sbarco della Calcinera, che Pasotti vi si sarebbe trovato a riceverla con quattro uomini e la famosa portantina che aveva servito nel secolo scorso per un arcivescovo di Milano.
Luisa ascoltò attentissimamente ogni cosa, in silenzio. Prima di andarsene, la Pasotti le disse che sarebbe stata felice di baciare quel caro amore della Maria ma che temeva non sapesse poi tacere. Qui la buona donna si cacciò mezzo il braccio sinistro in tasca, ne cavò una barchetta di metallo, pregò Luisa di darla alla sua figliuola nel nome di un'altra vecchia barca sdruscita che non voleva essere nominata. Poi scappò giù per le scale e scomparve.
Luisa tornò alla lettera incominciata per Franco e dopo aver meditato lungamente con la penna in mano, la ripose senz'avervi scritto parola, prese le carte del notaio, si mise a copiare.
A pranzo non parlò mai. Il pranzo fu triste anche perché la Cia fece un'osservazione inopportuna sulla mancanza di formaggio nella minestra che così non poteva piacere al suo padrone; e il suo padrone s'arrabbiò, le disse ch'era una fatua e che se la minestra era senza formaggio, lei era senza sale. «Già», mormorò la Cia, «s'arrabbia solo con me.» L'argomento suggeriva tante cose amare e inutili a dire che nessuno parlò più. Solo Maria uscì, dopo qualche minuto, a osservare con una piccola aria di sapienza: «Perché non abbiamo denari, non è vero, mamma, non bisogna mettere il formaggio nella minestra?». Sua madre la baciò e le disse di tacere. La piccina tacque, contenta di se stessa. La finestra era aperta, si udirono alcune voci schiamazzar forte nella strada verso la scalinata del Pomodoro e Luisa riconobbe quella di Pasotti che certo ritornava allora da Lugano con le provvigioni e parlava così forte apposta per farsi udire a casa Ribera.
Dopo pranzo lo zio Piero sedette nella sua poltrona, in loggia, e si prese Maria sulle ginocchia. Luisa uscì sola in terrazza. In faccia al Bisgnago dorato dal sole, la costiera della Valsolda era quasi tutta nell'ombra. Lontano lontano il santuario della Caravina brillava sulla punta verde protesa oltre i sassi del Tentiòn e gli oliveti di Cressogno, fuori dell'ombra, nel lago ceruleo. Luisa guardava laggiù con una espressione di contentezza fiera. Ah signor Pasotti, se il vostro pranzo è una vendetta, l'avete pensata male!
La sua risoluzione era presa. Glielo offriva il destino questo incontro con la vecchia canaglia! Non ebbe un dubbio né uno scrupolo. La passione da tanto tempo concepita, accarezzata e covata, aveva accumulato in lei quella forza che, quando è piena, trasforma di colpo il pensiero in atto, per modo che ne par tolta la responsabilità dell'agente e n'è invece solamente risospinta più indietro, ad un primo interno moto di consenso alla tentazione.
Sì, l'indomani, o allo sbarco, o sulla Calcinera, o sul sagrato dell'Annunciata ell'affronterebbe la marchesa, con disprezzo, le romperebbe la guerra in faccia, la consiglierebbe di guardarsi perché si volevano adoperare contro di lei tutte le legittime armi. Sì, le direbbe così e così farebbe, da sé, da sola, poiché Franco non voleva. Se Franco aveva promesso qualche cosa, ella non aveva promesso niente. Rientrò in loggia, si mise a discorrere con lo zio, a scherzare con Maria, più allegramente che non avesse fatto da molti mesi. Più tardi scrisse un biglietto all'amico avvocato V. pregandolo di venire appena gli fosse possibile. Voleva saper da lui come avrebbe potuto usare delle carte possedute dal Gilardoni. Quindi si rimise a copiare per il notaio di Porlezza. Maria non era contenta di tanto scrivere che faceva la mamma; però, quando la mamma le disse che scriveva per mettere il formaggio nella minestra dello zio, s'affrettò a dire: «e anche nella mia, non è vero, mamma?». Appena fu posta a letto, vedendo che la mamma tornava a scrivere, le venne in mente di chiedere se la nonna di Cressogno avesse il formaggio nella minestra. «Ne ha troppo», rispose Luisa, «e bisogna cavarglielo perché non le faccia male.»
«Oh no, cavarglielo, poveretta!»
«Taci, dormi.»
Ma la bambina non si addormentò.
Dopo un pezzetto parve a Luisa di udirla piangere. Si alzò, andò a vedere. Piangeva veramente, sottovoce.
«Cos'hai?»
«Il papà!», singhiozzò la povera piccina. «Il mio papà!»
«Verrà, cara, verrà presto il tuo papà. Dormi e fa un bel sogno che viene papà insieme col Re Vittorio Emanuele e che la mamma e la Cia fanno un gran risotto, che ti piace tanto, e che tu dici: viva il Re! e che il Re dice: niente affatto, viva invece Ombretta Pipì e il suo papà! Fa questo sogno, sai.»
«Sì, mamma, sì.»

L'indomani il professore Beniamino capitò a Oria un'ora prima di quella che Luisa gli aveva indicato. Dopo il sì di Ester l'uomo era trasfigurato. Pareva molto più giovane di prima. Il colore giallognolo della sua pelle, irradiato da una rosea luce interiore, era scomparso quasi del tutto, non gli si vedeva più che sul cranio dove Luisa si attendeva che tornassero a spuntare, un giorno o l'altro, i capelli. Egli non camminava, non respirava più come prima. Il passo e il respiro erano sempre inquieti, nervosi, rotti da sussulti che rispondevano al balenar d'immagini, Dio sa di quali immagini, sotto quel cranio lucido. Gli occhi non è a dire come brillassero. Solo quando guardavano Ester si stringevano, si velavano di una tenerezza pia, come se il professore avesse avuto paura d'incenerire la diletta saettandole addosso senza precauzioni tutto il fuoco dell'anima. Esser guardata a quel modo non piaceva a Ester; e Luisa, la consigliera del professore, ebbe il coraggio di dirgli che non bisognava guardar la sua fidanzata stringendo gli occhi come fanno i cani affettuosi.
Il pover uomo promise che avrebbe cercato di non farlo più e lo fece ancora. Luisa era sempre il suo nume tutelare, l'oracolo che interrogava persino per sapere come dovesse comportarsi nei colloqui con la fidanzata. Nella sua umiltà egli era felice di venir accettato per un sentimento di stima. Pensare ch'Ester potesse amarlo d'amore gli pareva una presunzione ridicola. Per questo egli temeva sempre di sbagliare, con lei, di offenderla. Un dubbio che lo tormentava era questo: sarebbe o non sarebbe da arrischiare un bacio? Appena venutogli questo dubbio, l'aveva sottoposto a Luisa e Luisa, la sapienza incarnata, gli aveva risposto: «No, adesso è troppo presto. Bisogna che il primo bacio non venga né troppo presto né troppo tardi». La possibilità del «troppo tardi» parve terribile e insopportabile al professore, il quale, ne' suoi colloqui con l'oracolo, dopo averlo consultato su cento diverse cose, capitava regolarmente ogni volta alla domanda fatale: «E sto basìn?». Luisa in parte ci si divertiva per la sua propensione a cogliere il comico anche nelle persone cui voleva bene; in parte dubitava realmente di una ripugnanza fisica che si manifestasse in Ester, data l'occasione, con violenza e mandasse tutto a monte. Ella si accorse, per fortuna, che il professore pareva sempre meno brutto alla sua fidanzata. Perciò quando lo vide comparire così per tempo, sapendo che più tardi lo avrebbe lasciato solo con Ester per andare a incontrar la nonna, le venne subito in mente che quello poteva essere il giorno del «basìn». Ma il professore si presentò tutto accigliato. Aveva cattive notizie. A San Mamette si diceva che fosse stato arrestato e condotto a Como il medico di Pellio, che gli avessero trovato lettere e note compromettenti per altre persone fra le quali si nominava don Franco Maironi.
«Per Franco non ho angustie», disse Luisa. «Del resto, senta, professore: vuol dire che porremo nel conto dell'imperatore d'Austria anche il dottore di Pellio ch'è bello grosso e pesa un mucchio di libbre, ma non pensiamo a malinconie in un giorno come questo. Oggi e il giorno del Suo basìn.»
«Ah sì? Ah sì?», fece il professore tutto rosso e ansante. «Dice davvero, signora Luisina? Dice davvero?»
Sì, ell'aveva parlato sul serio. Gli spiegò che se Ester veniva come aveva detto, alle due, li avrebbe, dopo una mezz'ora, lasciati soli. In loggia c'era sempre lo zio ma non conveniva seccarlo. Potevano restare in sala.
«E allora, con buon garbo, si fa il colpo», diss'ella. «Ma prima io voglio avere da Lei una promessa.»
«Che promessa?»
«Mi occorrono le famose carte.»
«Quando vorrà.»
«Guardi che le domando io, non Franco.»
«Sì, sì, quello che Lei fa è tutto bene. Domani Le porterò le carte.»
«Bravo.»
Luisa discorreva con la sua calza fra le mani, sferruzzando sempre, con un'apparenza di tranquillità ilare che non riusciva a coprir del tutto la sovreccitazione interna, predisposta dal giorno prima, cresciuta coll'insonnia, crescente a misura che si avvicinava il momento di partire. Nello stesso tono scherzoso della sua voce vibrava una corda insolita. Ne' suoi capelli, sempre correttissimi, era un'ombra di disordine, come il tocco di un lieve soffio che le avesse sfiorato la fronte. Il professore non si accorse di nulla e andò in loggia a discorrere con l'ingegnere, a prendere consiglio anche da lui per una darsena che intendeva costruire in capo al suo giardino onde potervi tenere una barchetta. Maria era pure in loggia e pigliò molto interesse a questa futura barchetta del signor Ladroni. Gli raccontò che ne possedeva una anche lei, corse a prenderla per fargliela vedere e il professore scherzò, la pregò di accompagnarlo a Lugano con la sua barca. «Sei troppo grande, tu!», diss'ella. «La mia bambola sì che la condurrò a spasso in barca!» «Ma cosa mai!», fece lo zio. «Quella barca lì è buona per andare al fondo.»
«No!»
«Sì!»
Ombretta si impazientì e corse in camera per provar la barchetta nel catino, ma nel catino non c'era acqua e la piccina ritornò in sala mogia mogia, con la sua barchetta in braccio, e non andò più dallo zio.
Ester capitò al tocco e tre quarti. Disse che aveva udito il tuono e che perciò era venuta prima. Il tuono? Luisa uscì subito sulla terrazza a guardar il cielo. Minacce grosse non ne vide. Sopra il Picco di Cressogno e sopra la Galbiga il cielo era tutto sereno fino ai monti del lago di Como. Dall'altra parte, sopra Carona, sì, era scuro, ma non poi tanto. Se la marchesa non venisse per paura del tempo! Prese il piccolo vecchio cannocchiale che stava sempre in loggia. Non si vedeva niente. Già, era troppo presto. Per arrivare alla Calcinera alle tre, la marchesa, colla pesante gondola, doveva partire verso le due e mezzo; Luisa ritornò in sala dov'erano Ester, il professore e Maria. Avrebbe preferito che Maria restasse in loggia con lo zio, ma la signorina Ombretta, quando veniva gente, si appiccicava sempre a sua madre, stava lì tutta occhi, tutta orecchi. Luisa pensò che al momento di partire l'avrebbe mandata via e intanto la tenne con sé. Già, i fidanzati stavan da parte e discorrevano quasi sottovoce.
Alle due Luisa uscì ancora sulla terrazza, guardò col cannocchiale se per caso la gondola spuntasse al Tentiòn. La marchesa poteva forse anticipare, per il cattivo tempo. Nulla. Guardò poi a ponente. Il cielo non era più scuro di prima. Solamente, fra il monte Bisgnago e il monte Caprino, sopra la leggera insenatura che chiamano la Zocca d'i Ment, era fumato su dalla Vall'Intelvi e si affacciava fermo un nuvolone azzurrognolo, sinistro come un sopracciglio aggrottato sopra un occhio cieco. Pareva aver veduto il branco dei compagni torvi che si affacciavano al lago sopra Carona e voler essere della partita anche lui. Luisa cominciò a sentirsi inquieta, ad aver paura che la marchesa non venisse. Andò in giardinetto a guardar il Boglia. Il Boglia non aveva che nuvole bianche, leggere. Ritornò in sala e trovò Maria piantata davanti al professore e ad Ester, che ridevano, molto rossi in viso, l'uno e l'altra. «Sei malata?», aveva detto la piccina ad Ester. «No; perché?» «Perché vedo che ti tasta il polso.» Le cose erano avviate bene, pareva. Luisa portò via la piccina, le proibì di avvicinarsi mai più a quei signori. Un momento dopo passò lo zio Piero, disse che andava di sopra a scrivere alcune lettere e avvertì Luisa di badare alle finestre della loggia, perché veniva un temporale. «Addio, signorina Ombretta!», diss'egli. «Addio, signor Pipì», rispose la bambina, petulante. Egli se ne andò, ridendo.
Luisa, che ormai durava fatica a star ferma, uscì per la terza volta sulla terrazza, guardò col cannocchiale. Il cuore le diede un balzo; la gondola spuntava al Tentiòn.
Erano le due e un quarto.
Una persona che veniva da Albogasio s'era fermata a discorrere sul sagrato con qualcuno che scendeva dalla scaletta sul fianco di casa Ribera. Diceva: «È passata giù in questo momento col signor Pasotti, la portantina. C'era dietro una quantità di ragazzi».
Il cielo era coperto, adesso, anche sul Picco di Cressogno e sulla Galbiga. Solo i monti del lago di Como avevano ancora un po' di sole. La minaccia del furioso vento temporalesco che in Valsolda si chiama caronasca si era fatta più seria. Sopra Carona il color delle nuvole andava confondendosi a quello dei monti. Il nuvolone della Zocca d'i Ment era diventato turchino cupo e anche il Boglia cominciava ad aggrottar le ciglia. Il lago era immobile, plumbeo.
Luisa aveva stabilito di partire quando la gondola fosse arrivata in faccia a S. Mamette. Ritornò in sala. Maria le aveva obbedito in parte, non s'era mossa dal suo pos
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