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Info sull'Opera
Autore:
Vittorio Alfieri
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

VITA ( 2 )

di Vittorio Alfieri

CAPITOLO OTTAVO
Secondo viaggio, per la Germania, la Danimarca e la Svezia.

Ottenuta la solita indispensabile e dura permissione del re, partii nel maggio del 1769 a bella prima alla volta di Vienna. Nel viaggio, abbandonando l'incarico noioso del pagare al mio fidatissimo Elia, io cominciava a fortemente riflettere su le cose del mondo; ed in vece di una malinconia fastidiosa ed oziosa, e di quella mera impazienza di luogo, che mi aveano sempre incalzato nel primo viaggio, in parte da quel mio innamoramento, in parte da quella applicazione continua di sei mesi in cose di qualche rilievo, ne avea ricavata un'altra malinconia riflessiva e dolcissima. Mi riuscivano in ciò di non picciolo aiuto (e forse devo lor tutto, se alcun poco ho pensato dappoi) i sublimi Saggi del familiarissimo Montaigne, i quali divisi in dieci tometti, e fattisi miei fidi e continui compagni di viaggio, tutte esclusivamente riempivano le tasche della mia carrozza. Mi dilettavano ed instruivano, e non poco lusingavano anche la mia ignoranza e pigrizia, perché aperti cosí a caso, qual che si fosse il volume, lettane una pagina o due, lo richiudeva, ed assai ore poi su quelle due pagine sue io andava fantasticando del mio. Ma mi facea bensí molto scorno quell'incontrare ad ogni pagine di Montaigne uno o piú passi latini, ed essere costretto a cercarne l'interpretazione nella nota, per la totale impossibilità in cui mi era ridotto d'intendere neppure le piú triviali citazioni di prosa, non che le tante dei piú sublimi poeti. E già non mi dava neppur piú la briga di provarmici, e asinescamente leggeva a dirittura la nota. Dirò piú; che quei sí spessi squarci dei nostri poeti primari italiani che vi s'incontrano, anco venivano da me saltati a piè pari, perché alcun poco mi avrebbero costato fatica a benissimo intenderli. Tanta era in me la primitiva ignoranza, e la desuetudíne poi di questa divina lingua, la quale in ogni giorno piú andava perdendo.
Per la via di Milano e Venezia, due città ch'io volli rivedere; poi per Trento, Inspruck, Augusta, e Monaco, mi rendei a Vienna, pochissimo trattenendomi in tutti i suddetti luoghi. Vienna mi parve avere gran parte delle picciolezze di Torino, senza averne il bello della località. Mi vi trattenni tutta l'estate, e non vi imparai nulla. Dimezzai il soggiorno, facendo nel luglio una scorsa fino a Buda, per aver veduta una parte dell'Ungheria. Ridivenuto oziosissimo, altro non faceva che andare attorno qua e là nelle diverse compagnie; ma sempre ben armato contro le insidie d'amore. E mi era a questa difesa un fidissimo usbergo il praticare il rimedio commendato da Catone. Io avrei in quel soggiorno di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare il celebre poeta Metastasio, nella di cui casa ogni giorno il nostro ministro, il degnissimo conte di Canale, passava di molte ore la sera in compagnia scelta di altri pochi letterati, dove si leggeva seralmente alcuno squarcio di classici o greci, o latini, o italiani. E quell'ottimo vecchio conte di Canale, che mi affezionava, e moltissimo compativa i miei perditempi, mi propose piú volte d'introdurmivi. Ma io, oltre all'essere di natura ritrosa, era anche tutto ingolfato nel francese, e sprezzava ogni libro ed autore italiano. Onde quell'adunanza di letterati di libri classici mi parea dover essere una fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sí servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta all'autorità despotica da me sí caldamente abborrita. In tal guisa io andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore; e queste disparate accoppiandosi poi con le passioni naturali all'età di vent'anni e le loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e risibile.
Proseguii nel settembre il mio viaggio verso Praga e Dresda, dove mi trattenni da un mese; indi a Berlino, dove dimorai altrettanto. All'entrare negli stati del gran Federico, che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l'orrore per quell'infame mestier militare, infamissima e sola base dell'autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti. Fui presentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d'indegnazione bensí e di rabbia; moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere. Il conte di Finch, ministro del re, il quale mi presentava, mi domandò perché io, essendo pure in servizio del mio re, non avessi quel giorno indossato l'uniforme. Risposigli: "Perché in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza". Il re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l'osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi negli occhi; e ringraziai il cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii di quella universal caserma prussiana verso il mezzo novembre, abborrendola quanto bisognava.
Partito alla volta di Amburgo, dopo tre giorni di dimora, ne ripartii per la Danimarca. Giunto a Copenhaguen ai primi di decembre, quel paese mi piacque bastantemente, perché mostrava una certa somiglianza coll'Olanda; ed anche v'era una certa attività, commercio, ed industria, come non si sogliono vedere nei governi pretti monarchici: cose tutte, dalle quali ne ridonda un certo ben essere universale, che a primo aspetto previene chi arriva, e fa un tacito elogio di chi vi comanda; cose tutte, di cui neppur una se ne vede negli stati prussiani; benché il gran Federico vi comandasse alle lettere e all'arti e alla prosperità, di fiorire sotto l'uggia sua. Onde la principal ragione per cui non mi dispiacea Copenhaguen si era il non esser Berlino né Prussia; paese, di cui niun altro mi ha lasciato una piú spiacevole e dolorosa impressione, ancorché vi siano, in Berlino massimamente, molte cose belle e grandiose in architettura. Ma quei perpetui soldati, non li posso neppur ora, tanti anni dopo, ingoiare senza sentirmi rinnovare lo stesso furore che la loro vista mi cagionava in quel punto.
In quell'inverno mi rimisi alcun poco a cinguettare italiano con il ministro di Napoli in Danimarca, che si trovava essere pisano; il conte Catanti, cognato del celebre primo ministro in Napoli, marchese Tanucci, già professore nell'Università pisana. Mi dilettava molto il parlare e la pronunzia toscana, massimamente paragonandola col piagnisteo nasale e gutturale del dialetto danese che mi toccava di udire per forza, ma senza intenderlo, la Dio grazia. Io malamente mi spiegava col prefato conte Catanti, quanto alla proprietà dei termini, e alla brevità ed efficacia delle frasi, che è somma nei toscani; ma quanto alla pronunzia di quelle mie parole barbare italianizzate, ell'era bastantemente pura e toscana; stante che io deridendo sempre tutte le altre pronunzie italiane, che veramente mi offendeano l'udito, mi ero avvezzo a pronunziar quanto meglio poteva e la u, e la z, e gi, e ci, ed ogni altra toscanità. Onde alquanto inanimito dal suddetto conte Catanti a non trascurare una sí bella lingua, e che era pure la mia, dacché di essere io francese non acconsentiva a niun modo, mi rimisi a leggere alcuni libri italiani. Lessi, tra' molti altri, i Dialoghi dell'Aretino, i quali benché mi ripugnassero per le oscenità, mi rapivano pure per l'originalità, varietà, e proprietà dell'espressioni. E mi baloccava cosí a leggere, perché in quell'inverno mi toccò di star molto in casa ed anche a letto, atteso i replicati incomoducci che mi sopravvennero per aver troppo sfuggito l'amore sentimentale. Ripigliai anche con piacere a rileggere per la terza e quarta volta il Plutarco; e sempre il Montaigne; onde il mio capo era una strana mistura di filosofia, di politica, e di discoleria. Quando gl'incomodi mi permetteano d'andar fuori, uno dei maggiori miei divertimenti in quel clima boreale era l'andare in slitta; velocità poetica, che molto mi agitava e dilettava la non men celebre fantasia.
Verso il fin di marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund affatto libero dai ghiacci, indi la Scania libera dalla neve; tosto ch'ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo un ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i laghi rappresi, a segno che non potendo piú proseguire colle ruote, fui costretto di smontare il legno e adattarlo come ivi s'usa sopra due slitte; e cosí arrivai a Stockolm. La novità di quello spettacolo, e la greggia maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano; e benché non avessi mai letto l'Ossian, molte di quelle sue immagini mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte allorché piú anni dopo le lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti.
La Svezia locale, ed anche i suoi abitatori d'ogni classe, mi andavano molto a genio; o sia perché io mi diletto molto piú degli estremi, o altro sia ch'io non saprei dire; ma fatto si è, che s'io mi eleggessi di vivere nel settentrione, preferirei quella estrema parte a tutte l'altre a me cognite. La forma del governo della Svezia, rimestata ed equilibrata in un certo tal qual modo che pure una semilibertà vi trasparisce, mi destò qualche curiosità di conoscerla a fondo. Ma incapace poi di ogni seria e continuata applicazione, non la studiai che alla grossa. Ne intesi pure abbastanza per formare nel mio capino un'idea: che stante la povertà delle quattro classi votanti, e l'estrema corruzione della classe dei nobili e di quella dei cittadini, donde nasceano le venali influenze dei due corruttori paganti, la Russia e la Francia, non vi potea allignare né concordia fra gli ordini, né efficacità di determinazioni, né giusta e durevole libertà. Continuai il divertimento della slitta con furore, per quelle cupe selvone, e su quei lagoni crostati, fino oltre ai 20 di aprile; ed allora in soli quattro giorni con una rapidità incredibile seguiva il dimoiare d'ogni qualunque gelo, attesa la lunga permanenza del sole su l'orizzonte, e l'efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate forse in dieci strati l'una su l'altra, compariva la fresca verdura; spettacolo veramente bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi.



CAPITOLO NONO
Proseguimento di viaggi. Russia, Prussia di bel nuovo, Spa, Olanda e Inghilterra.

Io sempre incalzato dalla smania dell'andare, benché mi trovassi assai bene in Stockolm, volli partirne verso il mezzo maggio per la Finlandia alla volta di Pietroborgo. Nel fin d'aprile aveva fatto un giretto sino ad Upsala, famosa università, e cammin facendo aveva visitate alcune cave del ferro, dove vidi varie cose curiosissime; ma avendole poco osservate, e molto meno notate, fu come se non le avessi mai vedute. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell'entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l'inverno, dietro cui pareva ch'io avessi appostato di correre. Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest'entratura del suddetto golfo) attesa l'immobilità totale dell'acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il poeta nostro, quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d'intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e disseci il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io subito volli tentare, benché avendo una barca assai piú spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l'ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea piú robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E cosí per l'appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l'aspetto di quell'orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque; ma il vento essendo, la Dio mercè, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l'ascia, castigatrice d'ogni insolente. Piú d'una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll'impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi in dieci e piú ore. La novità di un tal viaggio mi divertí moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo io nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il lettore. La descrizione di cosa insolita per gl'italiani, mi vi ha indotto. Fatto in tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molto piú brevi, ed oltre ciò oramai fatti piú liberi dai ghiacci, riuscirono assai piú facili. Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d'Europa che mi siano andati piú a genio, e destate piú idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell'atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo.
Sbarcato per l'ultima volta in Abo, capitale della Finlandia svezzese, continuai per ottime strade e con velocissimi cavalli il mio viaggio sino a Pietroborgo, dove giunsi verso gli ultimi di maggio; e non saprei dire se di giorno vi giungessi o di notte; perché sendo in quella stagione annullate quasi le tenebre della notte in quel clima tanto boreale, e ritrovandomi assai stanco del non aver per piú notti riposato se non se disagiatamente in carrozza, mi si era talmente confuso il capo, ed entrata una tal noia del veder sempre quella trista luce, ch'io non sapea piú né qual dí della settimana, né qual ora del giorno, né in qual parte del mondo mi fossi in quel punto; tanto piú che i costumi, abiti, e barbe dei moscoviti mi rappresentavano assai piú tartari che non europei.
Io aveva letta la storia di Pietro il Grande nel Voltaire; mi era trovato nell'Accademia di Torino con vari moscoviti, ed avea udito magnificare assai quella nascente nazione. Onde, queste cose tutte, ingrandite poi anche dalla mia fantasia che sempre mi andava accattando nuovi disinganni, mi tenevano al mio arrivo in Pietroborgo in una certa straordinaria palpitazione dell'aspettativa. Ma, oimè, che appena io posi il piede in quell'asiatico accampamento di allineate trabacche, ricordatomi allora di Roma, di Genova, di Venezia, e di Firenze mi posi a ridere. E da quant'altro poi ho visto in quel paese, ho sempre piú ricevuto la conferma di quella prima impressione; e ne ho riportato la preziosa notizia ch'egli non meritava d'esser visto. E tanto mi vi andò a contragenio ogni cosa (fuorché le barbe e i cavalli), che in quasi sei settimane ch'io stetti fra quei barbari mascherati da europei, ch'io non vi volli conoscere chicchessia, neppure rivedervi due o tre giovani dei primi del paese, con cui era stato in Accademia a Torino, e neppure mi volli far presentare a quella famosa autocratrice Caterina Seconda; ed infine neppure vidi materialmente il viso di codesta regnante, che tanto ha stancata a' giorni nostri la fama. Esaminatomi poi dopo, per ritrovare il vero perché di una cosí inutilmente selvaggia condotta, mi son ben convinto in me stesso che ciò fu una mera intolleranza di inflessibil carattere, ed un odio purissimo della tirannide in astratto, appiccicato poi sopra una persona giustamente tacciata del piú orrendo delitto, la mandataria e proditoria uccisione dell'inerme marito. E mi ricordava benissimo di aver udito narrare, che tra i molti pretesti addotti dai difensori di un tal delitto, si adduceva anche questo: che Caterina Seconda nel subentrare all'impero, voleva, oltre i tanti altri danni fatti dal marito allo stato, risarcire anche in parte i diritti dell'umanità lesa sí crudelmente dalla schiavitú universale e totale del popolo in Russia, col dare una giusta costituzione. Ora, trovandoli io in una servitú cosí intera dopo cinque o sei anni di regno di codesta Clitennestra filosofessa; e vedendo la maladetta genía soldatesca sedersi sul trono di Pietroborgo piú forse ancora che su quel di Berlino; questa fu senza dubbio la ragione che mi fe' pur tanto dispregiare quei popoli, e sí furiosamente abborrirne gli scellerati reggitori. Spiaciutami dunque ogni moscoviteria, non volli altrimenti portarmi a Mosca, come avea disegnato di fare, e mi sapea mill'anni di rientrare in Europa. Partii nel finir di giugno, alla volta di Riga per Narva, e Rewel; nei di cui piani arenosi ignudi ed orribili scontai largamente i diletti che mi aveano dati le epiche selve immense della Svezia scoscesa. Proseguii per Konisberga e Danzica; questa città, fin allora libera e ricca, in quell'anno per l'appunto cominciava ad essere straziata dal mal vicino despota prussiano, che già vi avea intrusi a viva forza i suoi vili sgherri. Onde io bestemmiando e Russi e Prussi, e quanti altri sotto mentita faccia di uomini si lasciano piú che bruti malmenare in tal guisa dai loro tiranni; e sforzatamente seminando il mio nome, età, qualità, e carattere, ed intenzioni (che tutte queste cose in ogni villaggiuzzo ti son domandate da un sergente all'entrare, al trapassare, allo stare, e all'uscire), mi ritrovai finalmente esser giunto una seconda volta in Berlino, dopo circa un mese di viaggio, il piú spiacevole, tedioso e oppressivo di quanti mai se ne possano fare; inclusive lo scendere all'Orco, che piú buio e sgradito ed inospito non può esser mai. Passando per Zorendorff, visitai il campo di battaglia tra' russi e prussiani, dove tante migliaia dell'uno e dell'altro armento rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l'ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto e misero e rado. Dovei fare allora una trista, ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son veramente nati a far concio. Tutte queste prussianerie mi faceano sempre piú e conoscere e desiderare la beata Inghilterra.
Mi sgabellai dunque in tre giorni di questa mia berlinata seconda, né per altra ragione mi vi trattenni che per riposarmivi un poco di un sí disagiato viaggio. Partii sul finir di luglio per Magdebourg, Brunswich, Gottinga, Cassel, e Francfort. Nell'entrare in Gottinga, città come tutti sanno di Università fioritissima, mi abbattei in un asinello, ch'io moltissimo festeggiai per non averne piú visti da circa un anno dacché m'era ingolfato nel settentrione estremo dove quell'animale non può né generare, né campare. Di codesto incontro di un asino italiano con un asinello tedesco in una cosí famosa Università, ne avrei fatto allora una qualche lieta e bizzarra poesia, se la lingua e la penna avessero in me potuto servire alla mente, ma la mia impotenza scrittoria era ogni dí piú assoluta. Mi contentai dunque di fantasticarvi su fra me stesso, e passai cosí festevolissima giornata soletto sempre, con me e il mio asino. E le giornate festive per me eran rare, passandomele io di continuo solo solissimo, per lo piú anche senza leggere né far nulla, e senza mai schiuder bocca.
Stufo oramai di ogni qualunque tedescheria, lasciai dopo due giorni Francfort, e avviatomi verso Magonza, mi v'imbarcai sopra il Reno, e disceso con quell'epico fiumone sino a Colonia, un qualche diletto lo ebbi navigando fra quelle amenissime sponde. Di Colonia per Aquisgrana ritornai a Spa, dove due anni prima avea passato qualche settimane, e quel luogo mi avea sempre lasciato un qualche desiderio di rivederlo a cuor libero; parendomi quella essere una vita adattata al mio umore, perché riunisce rumore e solitudine, onde vi si può stare inosservato ed ignoto infra le pubbliche veglie e festini. Ed in fatti talmente mi vi compiacqui, che ci stetti sin quasi al fin di settembre dal mezzo agosto; spazio lunghissimo di tempo per me che in nessun luogo mi potea posar mai. Comprai due cavalli da un irlandese, dei quali l'uno era di non comune bellezza, e vi posi veramente il cuore. Onde cavalcando mattina e giorno e sera, pranzando in compagnia di otto o dieci altri forestieri d'ogni paese, e vedendo seralmente ballare gentili donne e donzelle, io passava (o per dir meglio logorava) il mio tempo benissimo. Ma guastatasi la stagione, ed i piú dei bagnanti cominciando ad andarsene, partii anch'io e volli ritornare in Olanda per rivedervi l'amico D'Acunha, e ben certo di non rivedervi la già tanto amata donna, la quale sapeva non essere piú all'Haia, ma da piú d'un anno essere stabilita con marito in Parigi. Non mi potendo staccare dai miei due ottimi cavalli, avviai innanzi Elia con il legno, ed io, parte a piedi parte a cavallo, mi avviai verso Liegi. In codesta città, presentandomisi l'occasione di un ministro di Francia mio conoscente, mi lasciai da esso introdurre al principe vescovo di Liegi, per condiscendenza e stranezza; ché se non avea veduta la famosa Caterina Seconda, avessi almeno vista la corte del principe di Liegi. E nel soggiorno di Spa era anche stato introdotto ad un altro principe ecclesiastico, assai piú microscopico ancora, l'abate di Stavelò nell'Ardenna. Lo stesso ministro di Francia a Liegi mi avea presentato alla corte di Stavelò, dove allegrissimamente si pranzò, ed anche assai bene. E meno mi ripugnavano le corti del pastorale che quelle dello schioppo e tamburo, perché di questi due flagelli degli uomini non se ne può mai rider veramente di cuore. Di Liegi proseguii in compagnia de' miei cavalli a Brusselles, Anversa, e varcato il passo del Mordick, a Roterdamo, ed all'Haia. L'amico, col quale io sempre avea carteggiato dappoi, mi ricevé a braccia aperte; e trovandomi un pocolin migliorato di senno egli sempre piú mi andò assistendo de' suoi amorevoli, caldi e luminosi consigli. Stetti con esso circa due mesi, ma poi infiammato come io era della smania di riveder l'Inghilterra, e stringendo anche la stagione, ci separammo verso il fin di novembre. Per la stessa via fatta da me due e piú anni prima giunsi, felicemente sbarcato in Harwich in pochi giorni a Londra. Ci ritrovai quasi tutti quei pochi amici che io avea praticati nel primo viaggio; tra i quali il principe di Masserano ambasciator di Spagna, ed il marchese Caraccioli ministro di Napoli, uomo di alto sagace e faceto ingegno. Queste due persone mi furono piú che padre in amore nel secondo soggiorno ch'io feci in Londra di circa sette mesi, nel quale mi trovai in alcuni frangenti straordinari e scabrosi, come si vedrà.



CAPITOLO DECIMO
Secondo fierissimo intoppo amoroso a Londra.

Fin dal primo mio viaggio erami in Londra andata sommamente a genio una bellissima signora delle primarie, la di cui immagine tacitamente forse nel cuore mio introdottasi mi avea fatto in gran parte trovare sí bello e piacevole quel paese, ed anche accresciutami ora la voglia di rivederlo. Con tutto ciò, ancorché quella bellezza mi si fosse mostrata fin d'allora piuttosto benigna, la mia ritrosa e selvaggia indole mi avea preservato dai di lei lacci. Ma in questo ritorno, ingentilitomi io d'alquanto, ed essendo in età piú suscettibil d'amore, e non abbastanza rinsavito dal primo accesso di quell'infausto morbo, che sí male mi era riuscito nell'Haia, caddi allora in quest'altra rete, e con sí indicibil furore mi appassionai, che ancora rabbrividisco, pensandovi adesso che lo sto descrivendo nel primo gelo del nono mio lustro. Mi si presentava spessissimo l'occasione di veder quella bella inglese, massimamente in casa del principe di Masserano, con la di cui moglie essa era compagna di palco al Teatro dell'Opera Italiana. Non la vedeva in casa sua, perché allora le dame inglesi non usavano ricevere visite, e principalmente di forestieri. Oltre ciò, il marito ne era gelosissimo, per quanto il possa e sappia essere un oltramontano. Questi ostacoletti vieppiú mi accendevano; onde io ogni mattina ora all'Hyde-park, ora in qualche altro passeggio mi incontrava con essa; ogni sera in quelle affollate veglie, o al teatro, la vedea parimente; e la cosa si andava sempre piú ristringendo. E venne finalmente a tale, che io, felicissimo dell'essere o credermi riamato, mi teneva pure infelicissimo, ed era dal non vedere modo con cui si potesse con securità continuare gran tempo quella pratica. Passavano, volavano i giorni; inoltratasi la primavera, il fin di giugno al piú al piú era il termine, in cui, attesa la partenza per la campagna dove ella solea stare sette e piú mesi, diveniva assolutamente impossibile il vederla né punto né poco. Io quindi vedeva arrivare quel giugno come l'ultimo termine indubitalmente della mia vita; non ammettendo io mai nel mio cuore, né nella mente mia inferma, la possibilità fisica di sopravvivere a un tale distacco, sendosi in tanto piú lungo spazio di tempo rinforzata questa mia seconda passione tanto superiormente alla prima. In questo funesto pensiere del dover senza dubbio perire quando la dovrei lasciare, mi si era talmente inferocito l'animo, ch'io non procedeva in quella mia pratica altrimenti che come chi non ha oramai piú nulla che perdere. Ed a ciò contribuiva parimente non poco il carattere dell'amata donna, la quale pareva non gustar punto né intendere i partiti di mezzo. Essendo le cose in tal termine, e raddoppiandosi ogni giorno le imprudenze sí mie che sue, il di lei marito avvistosene già da qualche tempo avea piú volte accennato di volermene fare un qualche risentimento; ed io nessun'altra cosa al mondo bramava quanto questa, poiché dal solo uscir esso dei gangheri potea nascere per me o alcuna via di salvamento, ovvero una total perdizione. In tale orribile stato io vissi circa cinque mesi, finché finalmente scoppiò la bomba nel modo seguente. Piú volte già in diverse ore del giorno con grave rischio d'ambedue noi io era stato da essa stessa introdotto in casa; inosservato sempre, attesa la piccolezza delle case di Londra, e il tenersi le porte chiuse, e la servitú stare per lo piú nel piano sotterraneo, il che dà campo di aprirsi la porta di strada da chi è dentro, e facilmente introdursi l'estraneo ad una qualche camera terrena contigua immediatamente alla porta. Quindi quelle mie introduzioni di contrabbando erano tutte francamente riuscite; tanto piú ch'era in ore ove il marito era fuor di casa, e per lo piú la gente di servizio a mangiare. Questo prospero esito ci inanimí a tentare maggiori rischi. Onde, venuto il maggio, avendola il marito condotta in una villa vicina, sedici miglia di Londra, per starci otto o dieci giorni e non piú, subito si appuntò il giorno e l'ora in cui parimente nella villa verrei introdotto di furto; e si colse il giorno d'una rivista delle truppe a cui il marito, essendo uffiziale delle guardie, dovea intervenir senza fallo, e dormire in Londra. Io dunque mi ci avviai quella sera stessa soletto, a cavallo; ed avendo avuto da essa l'esatta topografia del luogo, lasciato il mio cavallo ad un'osteria distante circa un miglio dalla villa, proseguii a piedi, sendo già notte, fino alla porticella del parco, di dove introdotto da essa stessa passai nella casa, non essendo, o credendomi tuttavia non essere, stato osservato da chi che fosse. Ma cotali visite erano zolfo sul fuoco, e nulla ci bastava se non ci assicurava del sempre. Si presero dunque alcune misure per replicare e spesseggiar quelle gite, finché durasse la villeggiatura breve, disperatissimi poi se si pensava alla villeggiatura imminente e lunghissima che ci sovrastava. Ritornato io la mattina dopo in Londra, fremeva e impazziva pensando che altri due giorni dovrei stare senza vederla, e annoverava l'ore e i momenti. Io viveva in un continuo delirio, inesprimibile quanto incredibile da chi provato non l'abbia, e pochi certamente l'avranno provato a un tal segno. Non ritrovava mai pace se non se andando sempre, e senza saper dove; ma appena quetatomi o per riposarmi, o per nutrirmi, o per tentar di dormire, tosto con grida ed urli orribili era costretto di ribalzare in piedi, e come un forsennato mi dibatteva almeno per la camera, se l'ora non permetteva di uscire. Aveva piú cavalli, e tra gli altri quel bellissimo comprato a Spa, e fatto poi trasportare in Inghilterra. E su quello io andava facendo le piú pazze cose, da atterrire i piú temerari cavalcatori di quel paese, saltando le piú alte e larghe siepi di slancio, e fossi stralarghi, e barriere quante mi si affacciavano. Una di quelle mattine intermedie tra una e l'altra mia gita in quella sospirata villa, cavalcando io col marchese Caraccioli, volli fargli vedere quanto bene saltava quel mio stupendo cavallo, e adocchiata una delle piú alte barriere che separava un vasto prato dalla pubblica strada, ve lo cacciai di carriera; ma essendo io mezzo alienato, e poco badando a dare in tempo i debiti aiuti e la mano al cavallo, egli toccò coi piè davanti la sbarra, ed entrambi in un fascio precipitati sul prato, ribalzò egli primo in piedi, io poi; né mi parve di essermi fatto male alcuno. Del resto il mio pazzo amore mi aveva quadruplicato il coraggio, e pareva ch'io a bella posta mendicassi ogni occasione di rompermi il collo. Onde, per quanto il Caraccioli, rimasto su la strada di là dalla mal per me saltata barriera, gridassemi di non far altro, e di andar cercar l'uscita naturale del prato per riunirmi a lui, io che poco sapeva quel che mi facessi, correndo dietro il cavallo che accennava di voler fuggire pel prato, ne afferrai in tempo le redini, e saltatovi su di bel nuovo, lo rispinsi spronando contro la stessa barriera, e ristorando egli ampiamente il mio onore ed il suo la passò di volo. La giovenile superbia mia non godé lungamente di quel trionfo, che dopo fatti alcuni passi adagino, freddandomisi a poco a poco la mente e il corpo, cominciai a provare un fiero dolore nella sinistra spalla, che era in fatti slogata, e rotto un ossuccio che collega la punta di essa col collo. Il dolore andava crescendo, e le poche miglia che mi trovava esser distante da casa mi parvero fieramente lunghe prima di ricondurmivi a cavallo ad oncia ad oncia. Venuto il chirurgo, e straziatomi per assai tempo, disse di aver riallogato ogni cosa, e fasciatomi, ordinò ch'io stessi in letto. Chi intende d'amore si rappresenti le mie smanie e furore nel vedermi io cosí inchiodato in un letto, la vigilia per l'appunto di quel beato giorno ch'era prefisso alla mia seconda gita in villa. La slogatura del braccio era accaduta nella mattina del sabato; pazientai per quel giorno, e la domenica, sino verso la sera, onde quel poco di riposo mi rendé alcuna forza nel braccio, e piú ardire nell'animo. Onde verso le ore sei del giorno mi volli a ogni conto alzare, e per quanto mi dicesse il mio semi-aio Elia, entrai alla meglio in un carrozzino di posta soletto, e mi avviai verso il mio destino. Il cavalcare mi si era fatto impossibile atteso il dolore del braccio, e l'impedimento della stringatissima fasciatura, onde non dovendo né potendo arrivare sino alla villa in quel carrozzino col postiglione, mi determinai di lasciare il legno alla distanza di circa due miglia, e feci il rimanente della strada a piedi con l'un braccio impedito, e l'altro sotto il pastrano con la spada impugnata, andando solo di notte in casa d'altri, non come amico. La scossa del legno mi avea frattanto rinnovato e raddoppiato il dolore della spalla, e scompostami la fasciatura a tal segno che la spalla in fatti non si riallogò poi in appresso mai piú. Pareami pur tuttavia di essere il piú felice uomo del mondo avvicinandomi al sospirato oggetto. Arrivai finalmente, e con non poco stento (non avendo l'aiuto di chicchessia, poiché dei confidenti non v'era) pervenni pure ad accavalciare gli stecconi del parco per introdurmivi, poiché la porticella che la prima volta ritrovai socchiusa, in quella seconda mi riuscí inapribile. Il marito, al solito per cagione della rivista dell'indomani lunedí, era ito anche quella sera a dormire in Londra. Pervenni dunque alla casa, trovai chi mi vi aspettava, e senza molto riflettere né essa né io all'accidente dell'essersi ritrovata chiusa la porticella ch'essa pure avea già piú ore prima aperta da sé, mi vi trattenni fino all'alba nascente. Uscitone poi nello stesso modo, e tenendo per fermo di non essere stato veduto da anima vivente, per la stessa via fino al mio legno, e poi salito in esso mi ricondussi in Londra verso le sette della mattina assai mal concio fra i due cocentissimi dolori dell'averla lasciata e di trovarmi assai peggiorata la spalla. Ma lo stato dell'animo mio era sí pazzo e frenetico, ch'io nulla curava qualunque cosa potesse accadere, prevedendole pure tutte. Mi feci dal chirurgo ristringere di nuovo la fasciatura senza altrimenti toccare al riallogamento o slogamento che fosse. E martedí sera trovatomi alquanto meglio, non volli neppur piú stare in casa, e andai al Teatro Italiano nel solito palco del principe di Masserano, che vi era con la sua moglie, e che credendomi mezzo stroppio ed in letto, molto si maravigliarono di vedermi col solo braccio al collo.
Frattanto io me ne stava in apparenza tranquillo, ascoltando la musica, che mille tempeste terribili mi rinnovava nel cuore; ma il mio viso era, come suol essere, di vero marmo. Quand'ecco ad un tratto io sentiva, o pareami, pronunziato il mio nome da qualcuno, che sembrava contrastare con un altro alla porta del chiuso palco. Io, per un semplice moto machinale, balzo alla porta, l'apro, e richiudola dietro di me in un attimo, e agli occhi mi si presenta il marito della mia donna, che stava aspettando che di fuori gli venisse aperto il palco chiuso a chiave da quegli usati custodi dei palchi, che nei teatri inglesi si trattengono a tal effetto nei corridoi. Io già piú e piú volte mi era aspettato a quest'incontro, e non potendolo onoratamente provocare io primo, l'avea pure desiderato piú che ogni cosa al mondo. Presentatomi dunque in un baleno fuori del palco, le parole furon queste brevissime, "Eccomi qua" gridai io. "Chi mi cerca?" "Io," mi rispos'egli, "la cerco, che ho qualche cosa da dirle." "Usciamo," io replico; "sono ad udirla." Né altro aggiungendovi, uscimmo immediatamente dal teatro. Erano circa le ore ventitré e mezzo d'Italia; nei lunghissimi giorni di maggio cominciando in Londra i teatri verso le ventidue. Dal Teatro dell'Haymarket per un assai buon tratto di strada andavamo al Parco di San Giacomo, dove per un cancello si entra in un vasto prato, chiamato Green-Park. Quivi, già quasi annottando, in un cantuccio appartato si sguainò senza dir altro le spade. Era allor d'uso il portarla anch'essendo infrack, onde io mi era trovato d'averla, ed egli appena tornato di villa era corso da uno spadaio a provvedersela. A mezzo la via di Pallmall che ci guidava al Parco San Giacomo, egli due o tre volte mi andò rimproverando ch'io era stato piú volte in casa sua di nascosto, ed interrogavami del come. Ma io, malgrado la frenesia che mi dominava, presentissimo a me, e sentendo nell'intimo del cuor mio quanto fosse giusto e sacrosanto lo sdegno dell'avversario, null'altro mai mi veniva fatto di rispondere, se non se: "Non è vera tal cosa; ma quand'ella pure la crede son qui per dargliene buon conto". Ed egli ricominciava ad affermarlo, e massimamente di quella mia ultima gita in villa egli ne sminuzzava sí bene ogni particolarità, ch'io rispondendo sempre, "Non è vero", vedea pure benissimo ch'egli era informato a puntino di tutto. Finalmente egli terminava col dirmi: "A che vuol ella negarmi quanto mi ha confessato e narrato la stessa mia moglie?". Strasecolai di un sí fatto discorso, e risposi (benché feci male, e me ne pentii poi dopo): "Quand'ella il confessi, non lo negherò io". Ma queste parole articolai, perché oramai era stufo di stare sí lungamente sul negare una cosa patente e verissima; parte che troppo mi ripugnava in faccia ad un nemico offeso da me; ma pure violentandomi, lo faceva per salvare, se era possibile, la donna. Questo era stato il discorso tra noi prima di arrivar sul luogo ch'io accennai. Ma allorché nell'atto di sguainar la spada, egli osservò ch'io aveva il manco braccio sospeso al collo, egli ebbe la generosità di domandarmi se questo non m'impedirebbe di battermi. Risposi ringraziandolo, ch'io sperava di no, e subito lo attaccai. Io sempre sono stato un pessimo schermidore; mi ci buttai dunque fuori d'ogni regola d'arte come un disperato; e a dir vero io non cercava altro che di farmi ammazzare. Poco saprei descrivere quel ch'io mi facessi, ma convien pure che assai gagliardamente lo investissi, poiché io al principiare mi trovava aver il sole, che stava per tramontare, direttamente negli occhi a segno che quasi non ci vedeva; e in forse sette o otto minuti di tempo io mi era talmente spinto innanzi ed egli ritrattosi e nel ritrarsi descritta una curva sí fatta, ch'io mi ritrovai col sole direttamente alle spalle. Cosí, martellando gran tempo, io sempre portandogli colpi, ed egli sempre ribattendoli, giudico che egli non mi uccise perché non volle, e ch'io non lo uccisi perché non seppi. Finalmente egli nel parare una botta, me ne allungò un'altra e mi colse nel braccio destro tra l'impugnatura ed il gomito, e tosto avvisommi ch'io era ferito; io non me n'era punto avvisto, né la ferita era in fatti gran cosa. Allora abbassando egli primo la punta in terra, mi disse ch'egli era soddisfatto, e domandavami se lo era anch'io. Risposi, che io non era l'offeso, e che la cosa era in lui. Ringuainò egli allora, ed io pure. Tosto egli se n'andò; ed io, rimasto un altro poco sul luogo voleva appurare cosa fosse quella mia ferita; ma osservando l'abito essere, squarciato per lo lungo, e non sentendo gran dolore, né sentendomi sgocciolare gran sangue la giudicai una scalfittura piú che una piaga. Del resto non mi potendo aiutare del braccio sinistro, non sarebbe stato possibile di cavarmi l'abito da me solo. Aiutandomi dunque co' denti mi contentai di avvoltolarmi alla peggio un fazzoletto e annodarlo sul braccio destro per diminuire cosí la perdita del sangue. Quindi uscito dal parco, per la stessa strada di Palmall, e ripassando davanti al Teatro, di donde era uscito tre quarti d'ora innanzi, ed al lume di alcune botteghe avendo veduto che non era insanguinato né l'abito, né le mani, scioltomi co' denti il fazzoletto dal braccio e non provatone piú dolore, mi venne la pazza voglia puerile di rientrare al Teatro, e nel palco donde avea preso le mosse. Tosto entrando fui interrogato dal principe di Masserano, perché io mi fossi scagliato cosí pazzamente fuori del suo palco, e dove fossi stato. Vedendo che non aveano udito nulla del breve diverbio seguito fuori del loro palco, dissi che mi era sovvenuto a un tratto di dover parlar con qualcuno, e che perciò era uscito cosí: né altro dissi. Ma per quanto mi volessi far forza, il mio animo trovavasi pure in una estrema agitazione, pensando qual potesse essere il seguito di un tal affare, e tutti i danni che stavano per accadere all'amata mia donna. Onde dopo un quarticello me n'andai, non sapendo quel che farei di me. Uscito dal Teatro mi venne in pensiero (già che quella ferita non m'impediva di camminare) di portarmi in casa d'una cognata della mia donna, la quale ci secondava, e in casa di cui ci eramo anche veduti qualche volta.
Opportunissimo riuscí quel mio accidentale pensiero, poiché entrando in camera di quella signora il primo oggetto che mi si presentò agli occhi, fu la stessa stessissima donna mia. Ad una vista sí, inaspettata, ed in tanto e sí diverso tumulto di affetti, io m'ebbi quasi a svenire. Tosto ebbi da lei pienissimo schiarimento del fatto, come pareva dover essere stato; ma non come egli era in effetto; che la verità poi mi era dal mio destino riserbata a sapersi per tutt'altro mezzo. Ella dunque mi disse, che il marito sin dal primo mio viaggio in villa n'avea avuta la certezza, dalla persona in fuori; avendo egli saputo soltanto che qualcun c'era stato, ma nessuno mi avea conosciuto. Egli avea appurato, che era stato lasciato un cavallo tutta la notte in tale albergo, tal giorno, e ripigliato poi in tal ora da persona che largamente avea pagato, né articolato una sola parola. Perciò all'occasione di questa seconda rivista, avea segretamente appostato alcun suo familiare perché vegliasse, spiasse, ed a puntino poi lunedí sera al suo ritorno gli desse buon conto d'ogni cosa. Egli era partito la domenica il giorno, per Londra; ed io come dissi, la domenica al tardi di Londra per la villa sua, dove era giunto a piedi su l'imbrunire. La spia (o uno o piú ch'ei si fossero), mi vide traversare il cimitero del luogo, accostarmi alla porticella del parco, e non potendola aprire, accavalciarne gli stecconi di cinta. Cosí poi m'avea visto uscire su l'alba, ed avviarmi a piedi su la strada maestra verso Londra. Nessuno si era attentato né di mostrarmisi pure, non che di dirmi nulla; forse perché vedendomi venire in aria risoluta con la spada sotto il braccio, e non ci avendo essi interesse proprio, gli spassionati non si pareggiando mai cogli innamorati, pensarono esser meglio di lasciarmi andare a buon viaggio. Ma certo si è, che se all'entrare o all'uscire a quel modo ladronesco dal parco, mi avessero voluto in due o tre arrestare, la cosa si riducea per me a mal partito; poiché se tentava fuggire, avea aspetto di ladro, se attaccarli o difendermi, aveva aspetto di assassino: ed in me stesso io era ben risoluto di non mi lasciar prender vivo. Onde bisognava subito menar la spada, ed in quel paese di savie e non mai deluse leggi queste cose hanno immancabilmente severissimo gastigo. Inorridisco anche adesso, scrivendolo: ma punto non titubava io nell'atto d'espormivi. Il marito dunque nel ritornare il lunedí giorno in villa, già dallo stesso mio postiglione, che alle due miglia di là mi avea aspettato tutta notte, gli venne raccontato il fatto come cosa insolita, e dal ritratto che gli avea fatto di mia statura, forme, e capelli, egli mi avea benissimo riconosciuto. Giunto poi a casa sua, ed avuto il referto della sua gente, ottenne al fine la tanto desiderata certezza dei danni suoi.
Ma qui, nel descrivere gli effetti stranissimi di una gelosia inglese, la gelosia italiana si vede costretta di ridere, cotanto son diverse le passioni nei diversi caratteri e climi, e massime sotto diversissime leggi. Ogni lettore italiano qui sta aspettando pugnali, veleni, battiture, o almeno carcerazion della moglie, e simili ben giuste smanie. Nulla di questo. L'inglese marito, ancorché assaissimo al modo suo adorasse la moglie, non perdé il tempo in invettive, in minacce, in querele. Subito la raffrontò con quei testimoni di vista, che facilmente la convinsero del fatto innegabile. Venuta la mattina del martedí, il marito non celò alla moglie, ch'egli già da quel punto non la tenea piú per sua, e che ben tosto il divorzio legittimo lo libererebbe di lei. Aggiunse, che non gli bastando il divorzio, voleva anche che io scontassi amaramente l'oltraggio fattogli; ch'egli in quel giorno ripartirebbe per Londra, dove mi troverebbe senz'altro. Allora essa immediatamente per mezzo di un qualche suo affidato mi avea segretamente scritto, e spedito l'avviso di quanto seguiva. Il messaggiere, largamente pagato, avea quasi che ammazzato il cavallo venendo a tutt'andare in meno di du' ore a Londra, e certamente vi giunse forse un'ora prima che non giungesse il marito. Ma per mia somma fortuna, non avendomi piú trovato in casa né il messaggiero, né il marito, io non fui avvisato di nulla, ed il marito vedendomi uscito, s'immaginò ed indovinò ch'io fossi al Teatro Italiano; e là, come io narrai, mi trovò. La fortuna in quest'accidente mi fece due sommi benefici: che io non mi fossi slogato il braccio destro in vece del manco; e ch'io non ricevessi quella lettera dell'amata donna, se non se dopo l'incontro. Non so se non avrei in qualche parte forse operato men bene, ove l'una di queste due cose mi fosse accaduta. Ma intanto, partito appena il marito per Londra, per altra via era anche partita la moglie, e venuta direttamente a Londra in casa di quella sua cognata, che non molto lontana abitava dalla casa del suo marito; quivi già avea saputo che il marito meno d'un'ora prima era tornato a casa in un fiacre; dal quale slanciatosi dentro si era chiuso in camera, senza voler né vedere né favellare con chi che si fosse di casa. Onde essa tenea per fermo ch'egli mi avesse contrato ed ucciso. Tutta questa narrazione a pezzi e bocconi mi veniva fatta da lei; interrotta, come si può credere, dall'immensa agitazione dei sí diversi affetti che ambedue ci travagliavano. Ma per allora però, il fine di tutto questo schiarimento scioglievasi in una felicità per noi inaspettata e quasi incredibile; poiché, atteso l'imminente inevitabil divorzio, io mi trovava nell'impegno (e null'altro bramava) di sottentrare ai lacci coniugali ch'ella stava per rompere. Ebro di un tal pensiero, quasi non mi ricordava piú punto della mia ferituccia; ma in somma poi, alcune ore dopo, visitatomi il braccio in presenza dell'amata donna, si trovò la pelle scalfitta in lungo, e molto sangue raggrumato nei pieghi della camicia, senz'altro danno. Medicato il braccio, ebbi la giovenile curiosità di visitare anche la mia spada, e la trovai, dalle gran ribattiture di colpi fatte dall'avversario, ridotta dai due terzi in giú della lama a guisa d'una sega addentellatissima; e la conservai poi quasi trofeo per piú anni in appresso. Separatomi finalmente in quella notte del martedí assai inoltrata dalla mia donna, non volli tornare a casa mia senza passare dal marchese Caraccioli, per informarlo d'ogni cosa. Ed egli pure, dal modo in cui avea saputo il fatto in confuso, mi tenea fermamente per ucciso, e che fossi rimasto nel parco, che verso la mezz'ora di notte suol chiudersi. Come risuscitato dunque mi accolse, ed abbracciò caldamente, ed in vari discorsi si passarono ancora forse du' altre ore piú della notte; talché arrivai a casa quasi al giorno. Corcatomi dopo tante e sí strane peripezie d'un sol giorno, non ho dormito mai d'un sonno piú tenace e piú dolce.



CAPITOLO UNDECIMO
Disinganno orribile.

Ecco intanto a puntino come erano veramente accadute le cose del giorno dianzi. Il fidato mio Elia, avendo veduto arrivare quel messaggiero col cavallo fradicio di sudore e trafelatissimo, e che tanto e poi tanto gli avea raccomandato di farmi avere immediatamente quella lettera, era subito uscito per rintracciarmi; e cercatomi prima dal principe di Masserano dove mi credeva esser ito, poi dal Caraccioli, che abitavano a piú miglia di distanza, avea cosí consumato piú ore; finalmente riaccostandosi verso casa mia che era in Suffolk street, vicinissima all'Haymarket dov'è il Teatro dell'Opera Italiana, gli venne in capo di veder se io ci fossi; benché non lo credesse, atteso che avea tuttora il braccio slogato fasciato al collo. Appena entrato egli al teatro, e chiesto di me a que' custodi dei palchi che benissimo mi conoscevano, gli fu detto che un dieci minuti prima era uscito con tal persona, che era venuta a cercarmi espressamente nel palco dov'io era. Elia sapeva benissimo (benché non lo sapesse da me) quel mio disperato amore; onde udito appena il nome della persona che mi era venuta cercare, e combinato la lettera di donde veniva, subito entrò in chiaro di ogni cosa. Allora Elia, sapendo benissimo quanto mal destro spadaccino io mi fossi, ed inoltre vedendomi impedito il braccio sinistro, mi reputò anch'egli certamente per un uomo morto; e subito corse al Parco San Giacomo, ma non essendosi rivolto verso il Greenpark, non ci rinvenne; intanto annottò; ed egli fu costretto di uscir del parco, come ogni altra persona. Non sapendo che si fare per venir in chiaro della mia sorte, si avviò verso la casa del marito, credendo quivi poter raccapezzare qualcosa; e forse avendo egli azzeccato cavalli migliori al suo fiacre, che non erano stati quelli del marito; o che questi forse in quel frattempo fosse andato in qualch'altro luogo; fatto si è, che Elia si combinò di arrivar egli nel suo fiacre vicino alla porta del marito, nel punto istesso in cui esso marito era giunto a casa sua; e l'avea benissimo veduto ritornare colla spada, e slanciarsi in casa, e far chiuder la porta subito, ed in aspetto e modi molto turbati. Sempre piú si confermò Elia nel sospetto ch'egli m'avesse ucciso, e non potendo piú far altro, era corso dal Caraccioli, e gli avea dato conto di quanto sapeva, e di quel che temeva.
Io dunque, dopo una sí penosa giornata, rinfrancato da molte ore di placidissimo sonno, rimedicate alle meglio le mie due ferite, di cui quella della spalla mi dolea piú che mai, e l'altra sempre meno, subito corsi dalla mia donna, e vi passai tutto intero quel giorno. Per via dei servitori si andava sentendo quello che faceva il marito, la di cui casa, come dissi, era assai vicina di quella della cognata, dove abitava per allora la mia donna. E benché io riputassi in me stesso ogni nostro guai terminato col prossimo divorzio; e ancorché il padre di lei (persona a me già notissima da piú anni) fosse venuto in quel giorno del mercoledí a veder la figlia, e nella di lei disgrazia si congratulasse pur seco, che almeno ad uom degno (cosí volle dire) le toccasse di riunirsi in un secondo matrimonio; con tutto ciò io scorgeva una foltissima nube su la bellissima fronte della mia donna, che un qualche sinistro mi vi parea presagire. Ed ella, sempre piangente, e sempre protestandomi che mi amava piú d'ogni cosa; che lo scandalo dell'avvenimento suo e il disonore che glie ne ridondava nella di lei patria, le venivano largamente compensati s'ella potea pur vivere per sempre con me; ma ch'ella era piú che certa che io non l'avrei mai presa per moglie mia. Questa sua perseverante e stranissima asserzione mi disperava veramente; e sapendo io benissimo ch'ella non mi reputava né mentitore né simulato, non poteva assolutamente intendere questa sua diffidenza di me. In queste funeste perplessità, che purtroppo turbavano ed annichilivano ogni mia soddisfazione del vederla liberamente dalla mattina alla sera; ed inoltre fra le angustie d'un processo già intavolato ed assai spiacente per chiunque abbia onore e pudore; cosí si passarono i tre giorni dal mercoledí a tutto il venerdí, finché il venerdí sera insistendo io fortemente per estrarre dalla mia donna una qualche piú luce nell'orrido enimma dei di lei discorsi, delle sue malinconie, e diffidenze; finalmente con grave e lungo stento, previo un doloroso proemio interrotto da sospiri e singhiozzi amarissimi, ella mi veniva dicendo che sapea purtroppo non poter essere in conto nessuno omai degna di me; e che io non la dovea né poteva né vorrei sposar mai... perché già prima... di amar me... ella avea amato... "E chi mai?" soggiungeva io interrompendo con impeto. "Un jockey" (cioè un palafreniere) "che stava... in casa... di mio marito." "Ci stava? e quando? Oh Dio, mi sento morire! Ma perché dirmi tal cosa? crudel donna; meglio era uccidermi." Qui mi interrompe ancor essa; e a poco a poco alla per fine esce l'intera confessione sozzissima di quel brutto suo amore; di cui sentendo io le dolorose incredibili particolarità, gelido, immobile, insensato mi rimango qual pietra. Quel mio degnissimo rival precursore stava tuttavia in casa del marito in quel punto in cui si parlava; egli era stato quello che avea primo spiato gli andamenti della amante padrona; egli avea scoperto la mia prima gita in villa, e il cavallo lasciato tutta notte nell'albergo di campagna; ed egli con altri di casa, mi avea poi visto e conosciuto nella seconda gita fatta in villa la domenica sera. Egli finalmente, udito il duello del marito con me, e la disperazione di esso di dover far divorzio con una donna ch'egli mostrava amar tanto, si era indotto nel giorno del giovedí a farsi introdurre presso al padrone, e per disingannar lui, vendicar sé stesso, e punire la infida donna e il nuovo rivale, quell'amante palafreniere avea spiattellatamente confessato e individuato tutta la storia de' suoi triennali amori con la padrona, ed esortato avea caldamente il padrone a non si disperar piú a lungo per aver perduta una tal moglie, il che si dovea anzi recare a ventura. Queste orribili e crudeli particolarità, le seppi dopo; da essa non seppi altro che il fatto, e menomato quanto piú si potea.
Il mio dolore e furore, le diverse mie risoluzioni, e tutte false e tutte funeste e tutte vanissime ch'io andai quella sera facendo e disfacendo, e bestemmiando, e gemendo, e ruggendo, ed in mezzo a tant'ira e dolore amando pur sempre perdutamente un cosí indegno oggetto; non si possono tutti questi affetti ritrarre con parole: ed ancora vent'anni dopo mi sento ribollire il sangue pensandovi.
La lasciai quella sera, dicendole: ch'ella troppo bene mi conosceva nell'avermi detto e replicato sí spesso che io non l'avrei mai fatta mia moglie; e che se io mai fossi venuto in chiaro di tale infamia dopo averla sposata, l'avrei certamente uccisa di mia mano, e me stesso forse sovr'essa, se pure l'avessi ancor tanto amata in quel punto, quanto purtroppo in questo l'amava. Aggiunsi che io pure la dispregiava un po' meno, per l'aver essa avuto la lealtà e il coraggio di confessarmi spontaneamente tal cosa; che non l'abbandonerei mai come amico, e che in qualunque ignorata parte d'Europa o d'America io era pronto ad andare con essa e conviverci, purch'essa non mi fosse né paresse mai d'esser moglie.
Cosí lasciatala il venerdí sera, agitato da mille furie alzatomi all'alba del sabato, e vistomi sul tavolino uno di quei tanti foglioni pubblici che usano in Londra, vi slancio cosí a caso i miei occhi, e la prima cosa che mi vi capita sotto è il mio nome. Gli spalanco, leggo un ben lunghetto articolo, in cui tutto il mio accidente è narrato, individuato minutamente e con verità, e vi imparo di piú le funeste e risibili particolarità del rivale palafreniere, di cui leggo il nome, l'età, la figura, e l'ampissima confessione da lui stesso fatta al padrone. Io ebbi a cader morto ad una tal lettura; ed allora soltanto riacquistando la luce della mente, mi avvidi e toccai con mano, che la perfida donna mi avea spontaneamente confessato ogni cosa dopo che il gazzettiere, in data del venerdí mattina, l'avea confessata egli al pubblico. Perdei allora ogni freno e misura, corsi a casa sua, dove dopo averla invettivata con tutte le piú amare furibonde e spregianti espressioni, miste sempre di amore, di dolor mortalissimo, e di disperati partiti, ebbi pure la vile debolezza di ritornarvi qualche ore dopo averle giurato ch'ella non mi rivedrebbe mai piú. E tornatovi, mi vi trattenni tutto quel giorno; e vi tornai il susseguente, e piú altri, finché risolvendosi essa di uscir d'Inghilterra, dove ell'era divenuta la favola di tutti, e di andare in Francia a porsi per alcun tempo in un monastero, io l'accompagnai, e si errò intanto per varie provincie dell'Inghilterra per prolungare di stare insieme, fremendo io e bestemmiando dell'esservi, e non me ne potendo pure a niun conto separare. Colto finalmente un istante in cui poté piú la vergogna e lo sdegno che l'amore, la lasciai in Rochester, di dove essa con quella di lei cognata si avviò per Douvres in Francia, ed io me ne tornai a Londra.
Giungendovi seppi che il marito avea proseguito il processo divorziale in mio nome, e che in ciò mi avea accordata la preferenza sul nostro triumviro terzo, il proprio palafreniere, che anzi gli stava ancora in servizio, tanto è veramente generosa ed evangelica la gelosia degli inglesi. Ma ed io pure mi debbo non poco lodare del procedere di quell'offeso marito. Non mi volle uccidere, potendolo verisimilmente fare; né mi volle multare in danari, come portano le leggi di quel paese, dove ogni offesa ha la sua tariffa, e le corna ve l'hanno altissima; a segno che s'egli in vece di farmi cacciare la spada mi avesse voluto far cacciar la borsa, mi avrebbe impoverito o dissestato di molto; perché tassandosi l'indennità in proporzione del danno, egli l'avea ricevuto sí grave, atteso l'amore sviscerato ch'egli portava alla moglie, ed atteso anche l'aggiunta del danno recatogli dal palafreniere, che per essere nullatenente non glie l'avrebbe potuto ristorare, ch'io tengo per fermo che a recarla a zecchini io non ne sarei potuto uscir netto a meno di dieci o dodici mila zecchini, e forse anche piú. Quel bennato e moderato giovine si comportò dunque meco in questo sgradevole affare assai meglio ch'io non avea meritato. E proseguitosi in mio nome il processo, la cosa essendo troppo palpabile dai molti testimoni, e dalle confessioni dei diversi personaggi, senza neppure il mio intervento, né il menomo impedimento alla mia partenza dall'Inghilterra, seppi poi dopo ch'era stato ratificato il totale divorzio.
Indiscretamente forse, ma pure a bell'apposta ho voluto sminuzzare in tutti i suoi amminicoli questo straordinario e per me importante accidente, sí perché se ne fece gran rumore in quel tempo, sí perché essendo stata questa una delle principali occasioni in cui mi è venuto fatto di ben conoscere e porre alla prova diversamente me stesso, mi è sembrato che analizzandolo con verità e minutezza verrei anche a dar luogo a chi volesse piú intimamente conoscermi, di ritrovarne in questo fatto un ampissimo mezzo.



CAPITOLO DUODECIMO
Ripreso il viaggio in Olanda, Francia, Spagna, Portogallo, e ritorno in patria.

Dopo aver sopportata una sí feroce borrasca, non potendo io piú trovar pace finché mi cadeano giornalmente sotto gli occhi quei luoghi stessi ed oggetti, mi lasciai facilmente persuadere da quei pochi che sentivano una qualche amichevole pietà del mio violentissimo stato, e mi indussi al partire. Lasciai dunque l'Inghilterra verso il finir di giugno, e cosí infermo di animo come io mi sentiva, ricercando pur qualche appoggio, volli dirigere i miei primi passi verso l'amico D'Acunha in Olanda. Giunto nell'Haia, alcune settimane mi trattenni con lui, e non vedeva assolutamente altri che lui solo; ed egli alcun poco mi consolava; ma era profondissima la mia piaga. Sentendomi dunque di giorno in giorno anzi crescere la malinconia che scemare, e pensando che il moto machinale, e la divagazione inseparabile dal mutar luogo continuamente ed oggetti, mi dovrebbero giovare non poco, mi rimisi in viaggio alla volta di Spagna; gita che fin da prima mi era prefisso di fare, essendo quel paese quasi il solo dell'Europa che mi rimanesse da vedere. Avviatomi verso Brusselles per luoghi che rinacerbivano sempre piú le ferite del mio troppo lacerato cuore, massimamente allorché io metteva a confronto quella mia prima fiamma olandese con questa seconda inglese, sempre fantasticando, delirando, piangendo e tacendo, arrivai finalmente soletto in Parigi. Né quella immensa città mi piacque piú in questa seconda visita che nella prima; né punto né poco mi divagò. Ci stetti pure circa un mese per lasciare sfogare i gran caldi prima d'ingolfarmi nelle Spagne. In questo mio secondo soggiorno in Parigi avrei facilmente potuto vedere ed anche trattare il celebre Gian-Giacomo Rousseau, per mezzo d'un italiano mio conoscente che avea contratto seco una certa familiarità, e dicea di andar egli molto a genio al suddetto Rousseau. Quest'italiano mi ci volea assolutamente introdurre, entrandomi mallevadore che ci saremmo scambievolmente piaciuti l'uno l'altro, Rousseau ed io. Ancorché io avessi infinita stima del Rousseau piú assai per il suo carattere puro ed intero e per la di lui sublime e indipendente condotta, che non pe' suoi libri, di cui que' pochi che avea potuti pur leggere mi aveano piuttosto tediato come figli di affettazione e di stento; con tutto ciò, non essendo io per mia natura molto curioso, né punto sofferente, e con tanto minori ragioni sentendomi in cuore tanto piú orgoglio e inflessibilità di lui; non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad un uomo superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta una mezza scortesia glie n'avrei restituite dieci, perché sempre cosí ho operato per istinto ed impeto di natura di rendere con usura sí il male che il bene. Onde non se ne fece altro.
Ma in vece del Rousseau, intavolai bensí allora una conoscenza per me assai piú importante con sei o otto dei primi uomini dell'Italia e del mondo. Comprai in Parigi una raccolta dei principali poeti e prosatori italiani in trentasei volumi di picciol sesto, e di graziosa stampa, dei quali neppur uno me ne trovava aver meco dopo quei due anni del secondo mio viaggio. E questi illustri maestri mi accompagnarono poi sempre da allora in poi da per tutto; benché in quei primi due o tre anni non ne facessi a dir vero grand'uso. Certo che allora comprai la raccolta piú per averla che non per leggerla, non mi sentendo nessuna né voglia né possibilità di applicar la mente in nulla. E quanto alla lingua italiana sempre piú m'era uscita dall'animo e dall'intendimento a tal segno, che ogni qualunque autore sopra il Metastasio mi dava molto imbroglio ad intenderlo. Tuttavia, cosí per ozio e per noia, squadernando alla sfuggita que' miei trentasei volumetti mi maravigliai del gran numero di rimatori che in compagnia dei nostri quattro sommi poeti erano stati collocati a far numero; gente, di cui (tanta era la mia ignoranza) io non avea mai neppure udito il nome; ed erano: un Torracchione, un Morgante, un Ricciardetto, un Orlandino, un Malmantile, e che so io; poemi, dei quali molti anni dopo deplorai la triviale facilità, e la fastidiosa abbondanza. Ma carissima mi riuscí la mia nuova compra, poiché mi misi d'allora in poi in casa per sempre que' sei luminari della lingua nostra,
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