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Info sull'Opera
Autore:
Vittorio Alfieri
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

VITA ( 3 )

di Vittorio Alfieri

CAPITOLO SESTO
Donazione intera di tutto il mio alla sorella. Seconda avarizia.

Cominciai dunque allora a lavorar lietamente, cioè con animo pacato e securo, come di chi ha ritrovato al fine e scopo ed appoggio. Già era fermo in me stesso di non mi muover piú di Firenze, fintanto almeno che ci rimarrebbe la mia donna a dimora. Quindi mi convenne mandare ad effetto un disegno ch'io già da gran tempo avea, direi, abbozzato nella mia mente, e che poi mi si era fatto necessità assoluta dacché avea sí indissolubilmente posto il cuore in sí degno oggetto.
Mi erano sempre oltre modo pesate e spiaciute le catene della mia natia servitú; e quella tra l'altre, per cui, con privilegio non invidiabile, i nobili feudatari sono esclusivamente tenuti a chiedere licenza al re di uscire per ogni minimo tempo dagli stati suoi: e questa licenza si otteneva talvolta con qualche difficoltà, o sgarbetto, dal ministro, e sempre poi si ottenea limitata. Quattro o cinque volte mi era accaduto di doverla chiedere, e benché sempre l'avessi ottenuta, tuttavia trovandola io ingiusta (poiché né i cadetti, né i cittadini di nessuna classe, quando non fossero stati impiegati, erano costretti di ottenerla) sempre con maggior ribrezzo mi vi era piegato, quanto piú in quel frattempo, mi si era rinforzata la barba. L'ultima poi, che mi era, venuta chiesta, e che, come di sopra accennai mi era stata accordata con una spiacevol parola, mi era riuscita assai dura a inghiottirsi. Crescevano, oltre ciò, di giorno in giorno i miei scritti. La Virginia, ch'io avea distesa in quella dovuta libertà e forza che richiede il soggetto; l'avere steso quel libro della Tirannide come se io fossi nato e domiciliato in paese di giusta e verace libertà; il leggere, gustare, e sentir vivamente e Tacito e il Machiavelli, e i pochi altri simili sublimi e liberi autori; il riflettere e conoscere profondamente quale si fosse il mio vero stato, e quanta l'impossibilità di rimanere in Torino stampando, o di stampare rimanendovi; l'essere pur troppo convinto che anche con molti guai e pericoli mi sarebbe avvenuto di stampar fuori, dovunque ch'io mi trovassi, finché rimaneva pur suddito di una legge nostra, che quaggiú citerò; aggiunto poi finalmente a tutte queste non lievi e manifeste ragioni la passione che di me nuovamente si era, con tanta mia felicità ed utilità, impadronita; non dubitai punto, ciò visto, di lavorare con la maggior pertinacia ed ardore all'importante opera di spiemontizzarmi per quanto fosse possibile; ed a lasciare per sempre, ed anche a qualunque costo il mio mal sortito nido natio.
Piú d'un modo di farlo mi si presentava alla mente. Quello di andar prolungando, d'anno in anno la licenza, chiedendola; ed era forse il piú savio, ma rimaneva anche dubbio, né mai mi vi potea pienamente affidare, dipendendo dall'arbitrio altrui. Quello di usar sottigliezze, raggiri, e lungaggini, simulando dei debiti, con vendite clandestine, e altri simili compensi per realizzare il fatto mio, ed estrarlo da quel nobil carcere. Ma questi mezzi eran vili, ed incerti; né mi piacevano punto, fors'anche perché estremi non erano. Del resto, avvezzo io per carattere a sempre presupporre le cose al peggio, assolutamente voleva anticipando schiarire e decidere questo fatto, al quale mi conveniva poi a ogni modo un giorno o l'altro venirci, o rinunziare all'arte e alla gloria di indipendente e veridico autore. Determinato dunque di appurar la cosa, e fissare se avrei potuto salvare parte del mio per campare e stampare fuor di paese, mi accinsi vigorosamente all'impresa. E feci saviamente, ancorché giovine fossi, ed appassionato in tante maniere. E certo, se io mai (visto il dispotico governo sotto cui mi era toccato di nascere) s'io mai mi fossi lasciato avvantaggiare dal tempo, e trovatomi nel caso di avere stampato fuori paese anche i piú innocenti scritti, la cosa diveniva assai problematica allora, e la mia sussistenza, la mia gloria, la mia libertà, rimanevano interamente ad arbitrio di quell'autorità assoluta, che necessariamente offesa dal mio pensare, scrivere, ed operare dispettosamente generoso e libero, non mi avrebbe certamente poi favorito nell'impresa di rendermi indipendente da essa.
Esisteva in quel tempo una legge in Piemonte, che dice: "Sarà pur anche proibito a chicchessia di fare stampar libri o altri scritti fuori de' nostri Stati, senza licenza de' revisori, sotto pena di scudi sessanta, od altra maggiore, ed eziandio corporale, se cosí esigesse qualche circostanza per un pubblico esempio". Alla qual legge aggiungendo quest'altra: "I vassalli abitanti de' nostri Stati non potranno assentarsi dai medesimi senza nostra licenza in iscritto". E fra questi due ceppi si vien facilmente a conchiudere, che io non poteva essere ad un tempo vassallo ed autore. Io dunque prescelsi di essere autore. E, nemicissimo com'io era d'ogni sotterfugio ed indugio, presi per disvassallarmi la piú corta e la piú piana via, di fare una interissima donazione in vita d'ogni mio stabile sí infeudato che libero (e questo era piú che i due terzi del tutto) al mio erede naturale, che era la mia sorella Giulia, maritata come dissi col conte di Cumiana. E cosí feci nella piú solenne e irrevocabile maniera, riserbandomi una pensione annua di lire quattordici mila di Piemonte, cioè zecchini fiorentini mille quattrocento, che venivano ad essere poco piú in circa della metà della mia totale entrata d'allora. E contentone io rimanevami di perdere l'altra metà, o di comprare con essa l'indipendenza della mia opinione, e la scelta del mio soggiorno, e la libertà dello scrivere. Ma il dare stabile e intero compimento a codest'affare mi cagionò molte noie e disturbi, attese le molte formalità legali, che trattandosi l'affare da lontano per lettere, consumarono necessariamente assai piú tempo. Ci vollero oltre ciò le consuete permissioni del re; che in ogni piú privata cosa in quel benedetto paese sempre c'entra, il re. E fu d'uopo che il mio cognato, facendo per sé e per me, ottenesse dal re la licenza di accettare la mia donazione, e venisse autorizzato a corrispondermene quell'annuale prestazione in qualsivoglia paese mi fosse piaciuto dimorare. Agli occhi pur anche dei meno accorti manifestissima cosa era, che la principal cagione della mia donazione era stata la determinazione di non abitar piú nel paese: quindi era necessarissimo di ottenerne la permissione dal governo, il quale ad arbitrio suo si sarebbe sempre potuto opporre allo sborso della pensione in paese estero. Ma, per mia somma fortuna, il re d'allora, il quale certamente avea notizia del mio pensare (avendone io dati non pochi cenni) egli ebbe molto piú piacere di darmi l'andare che non di tenermi. Onde egli consentí subito a quella mia spontanea spogliazione; ed ambedue fummo contentissimi: egli di perdermi, io di ritrovarmi.
Ma mi par giusto di aggiungere qui una particolarità bastantemente strana, per consolare con essa i malevoli miei, e nello stesso tempo far ridere alle spalle mie chiunque esaminando sé stesso si riconoscerà meno infermo d'animo, e meno bambino ch'io non mi fossi. In questa particolarità, la quale in me si troverà accoppiata con gli atti di forza che io andava pure facendo, si scorgerà da chi ben osserva e riflette, che talvolta l'uomo, o almeno, che io riuniva in me, per cosí dire, il gigante ed il nano. Fatto si è, che nel tempo stesso ch'io scriveva la Virginia, e il libro della Tirannide; nel tempo stesso ch'io scuoteva cosí robustamente e scioglieva le mie originarie catene, io continuava pure di vestire l'uniforme del re di Sardegna, essendo fuori paese, e non mi trovando piú da circa quattr'anni al servizio. E che diran poi i saggi, quand'io confesserò candidamente la ragione perché lo portassi? Perché mi persuadeva di essere in codesto assetto assai piú snello e avvenente della persona. Ridi, o lettore, che tu n'hai ben donde. Ed aggiungi del tuo: che io dunque in ciò fare, puerilmente e sconclusionatamente preferiva di forse parere agli altrui occhi piú bello, all'essere stimabile ai miei.
La conclusione di quel mio affare andò frattanto in lunga dal gennaio al novembre di quell'anno '78; atteso che intavolai poi e ultimai come un secondo trattato la permuta di lire cinquemila della prestazione annuale in un capitale di lire centomila di Piemonte, da sborsarmisi dalla sorella. E questo soffrí qualche difficoltà piú che il primo. Ma finalmente consentí anche il re che mi fosse mandata tal somma; ed io poi con altre la collocai in uno di quei tanti insidiosi vitalizi di Francia. Non già ch'io mi fidassi molto piú nel cristianissimo che nel sardo re; ma perché mi pareva intanto che dimezzato cosí il mio avere tra due diverse tirannidi, ne riuscirei alquanto meno precario, e che salverei in tal guisa, se non la borsa, almeno l'intelletto e la penna.
Di questo passo della donazione, epoca per me decisiva e importante (e di cui ho sempre dappoi benedetto il pensiero e l'esito), io non ne feci parte alla donna mia, se non se dopo che l'atto principale fu consolidato e perfetto. Non volli esporre il delicato suo animo al cimento di dovermi, o biasimare di ciò, e come contrario al mio utile, impedirmelo; ovvero di lodarlo e approvarmelo, come giovevole in qualche aspetto al sempre piú dar base e durata al nostro reciproco amore; poiché questa sola determinazione mia potevami porre in grado di non la dovere abbandonare mai piú. Quand'essa lo seppe, biasimollo con quella candida ingenuità tutta sua. Ma non potendolo pure piú impedire, ella vi si acquetò, perdonandomi d'averglielo taciuto. E tanto piú forse mi riamò, né mi stimò niente meno. Frattanto, mentre io stava scrivendo lettere a Torino, e riscrivendo, e tornando a scrivere, perché si conchiudessero codeste noie e stitichezze reali, legali, e parentevoli; io, risoluto di non dar addietro, qualunque fosse per essere l'esito, avea ordinato al mio Elia che avea lasciato in Torino, di vendere tutti i mobili ed argenti. Egli in due mesi di tempo, lavorando indefessamente a ciò mi avea messi insieme da sei e piú mila zecchini, che tosto gli ordinai di farmi sborsare per mezzo di cambiali in Firenze. Non so per qual caso nascesse, che fra l'avermi egli scritto d'aver questa mia somma nelle mani, e l'eseguire poi l'incarico ch'io gli avea dato rispondendogli a posta corrente di mandar le cambiali, corsero piú di tre settimane in cui non ricevei piú né lettere di lui, né altro; né avviso di banchiere nessuno. Benché io non sia per carattere molto diffidente, tuttavia poteva pur ragionevolmente entrare in qualche sospetto, vedendo in circostanze cosí urgenti una sí strana tardanza per parte d'un uomo sí sollecito ed esatto come l'Elia. Mi entrò dunque non poca diffidenza nel cuore; e la fantasia (in me sempre ardentissima) mi fabbricò questo danno che era tra i possibili, come se veramente già mi fosse accaduto. Onde io credei fermamente per piú di quindici giorni che i miei sei mila zecchini fossero iti all'aria insieme con l'ottima opinione ch'io mi era sempre giustamente tenuta di quell'Elia. Ciò posto io mi trovava allora in due circostanze. L'affare con la sorella non era sistemato ancora; e sempre ricevendo nuove cavillazioni dal cognato, che tutte le sue private obbiezioni me le andava sempre facendo in nome e autorità del re; io gli avea finalmente risposto con ira e disprezzo: che se essi non voleano Donato, pigliassero pure Pigliato; perché io a ogni modo non ci tornerei mai, e poco m'importava di essi e dei lor danari e del loro re, che si tenessero il tutto e fosse cosa finita. Ed io era in fatti risolutissimo all'espatriazione perpetua, a costo pur anche del mendicare. Dunque per questa parte trovandomi in dubbio d'ogni cosa, e per quella dei mobili realizzati non mi vedendo sicuro di nulla, io me la passai cosí fantasticando e vedendomi sempre la squallida povertà innanzi agli occhi, finché mi pervennero le cambiali d'Elia, e vistomi possessore di quella piccola somma non dovei piú temere per la sussistenza. In quei deliri di fantasia, l'arte che mi si prepresentava come la piú propria per farmi campare, era quella del domacavalli, in cui sono o mi par d'essere maestro; ed è certamente una delle meno servili. Ed anche mi sembrava che questa dovesse riuscirmi la piú combinabile con quella di poeta, potendosi assai piú facilmente scriver tragedie nella stalla che in corte.
Ma già, prima di trovarmi in queste angustie piú immaginate che vere, appena ebbi fatta la donazione, io avea congedato tutti i miei servi meno uno per me, ed uno per cucinarmi; che poco dopo anche licenziai. E da quel punto in poi, benché io fossi già assai parco nel vitto, contrassi l'egregia e salutare abitudine di una sobrietà non comune; lasciato interamente il vino, il caffè, e simili, e ristrettomi ai semplicissimi cibi di riso, e lesso, ed arrosto, senza mai variare le specie per anni interi. Dei cavalli, quattro ne avea rimandati a Torino perché si vendessero con quelli che ci avea lasciati partendone; ed altri quattro li regalai ciascuno a diversi signori fiorentini, i quali benché fossero semplicemente miei conoscenti e non già amici, avendo tuttavia assai meno orgoglio di me gli accettarono. Tutti gli abiti parimenti donai al mio cameriere, ed allora poi anche sagrificai l'uniforme; e indossai l'abito nero per la sera, e un turchinaccio per la mattina, colori che non ho poi deposti mai piú, e che mi vestiranno fino alla tomba. E cosí in ogni altro genere mi andai sempre piú restringendo anche anche grettamente al semplicissimo necessario, a tal segno ch'io mi ritrovai ad un medesimo tempo e donator d'ogni cosa ed avaro.
Dispostissimo in questa guisa a tutto ciò che mai mi potrebbe accadere di peggio, non mi tenendo aver altro che quei sei mila zecchini, che subito inabissai in uno dei vitalizi di Francia; ed essendo la mia natura sempre inclinata agli estremi, la mia economia e indipendenza andò a poco a poco tant'oltre, che ogni giorno inventandomi una nuova privazione, caddi nel sordido quasi; e dico quasi, perché pur sempre mutai la camicia ogni giorno, e non trascurai la persona; ma lo stomaco, se a lui toccasse di scrivere la mia vita, tolto ogni quasi, direbbe ch'io m'era fatto sordidissimo. E questo fu il secondo, e crederei l'ultimo accesso di un sí fastidioso e sí turpe morbo che degrada pur tanto l'animo, e l'intelletto restringe. Ma benché ogni giorno andassi sottilizzando per negarmi o diminuirmi una qualche cosa, io andava pure spendendo in libri, e non poco. Raccolsi allora quasi tutti i libri nostri di lingua, ed in copia le piú belle edizioni dei classici latini. E in tutti l'un dopo l'altro, e replicatamente li lessi, ma troppo presto e con troppa avidità, onde non mi fecero quel frutto che me ne sarebbe ridondato leggendoli pacatamente, e ingoiandomi le note. Cosa alla quale mi son poi piegato tardissimo, avendo sempre da giovane anteposto l'indovinare i passi difficili, o il saltarli a piè pari, all'apianarmeli colla lettura e meditazione dei commenti.
Le mie composizioni frattanto nel decorso di quell'anno borsale 1778, non dirò che fossero tralasciate, ma elle si risentivano dei tanti disturbi antiletterari in cui m'era ingolfato di necessità. E circa poi al punto principale per me, cioè la padronanza della lingua toscana, mi si era aggiunto anche un nuovo ostacolo, ed era, che la mia donna non sapendo allora quasi punto l'italiano, io mi era trovato costretto a ricader nel francese, parlandolo e sentendolo parlare continuamente in casa sua. Nel rimanente del giorno io cercava poi il contravveleno dei gallicismi nei nostri ottimi e noiosi prosatori trecentisti, e feci su questo proposito delle fatiche niente poetiche, ma veramente da asino. A poco a poco pure spuntai, che l'amata imparasse perfettamente l'italiano sí per leggere che per parlare; e vi riuscí quanto e piú ch'altra mai forestiera che vi si accingesse; e lo parlò anzi con una assai migliore pronunzia che non lo parlano le donne d'Italia non toscane, che tutte, o sian lombarde, o veneziane o napoletane o anche romane, lacerano quale in un modo quale nell'altro, ogni orecchio che siasi avvezzo al soavissimo, e vibratissimo accento toscano. Ma per quanto la mia donna non parlasse tosto altra lingua con me, tuttavia la casa sua sempre ripiena di oltramontaneria era per il mio povero toscanismo un continuo martirio; talché, oltre parecchie altre, io ebbi anche questa contrarietà, di esser stato presso che tre anni allora in Firenze, e d'avervi assai piú dovuto ingoiare dei suoni francesi, che non dei toscani. E in quasi tutto il decorso della mia vita, finora, mi è toccata in sorte questa barbaria di gallicheria; onde, se io pure sarò potuto riuscire a scrivere correttamente, puramente, e con sapore di toscanità (senza però ricercarla con affettazione e indiscrezione), ne dovrò riportar doppia lode, attesi gli ostacoli; e se riuscito non ci sono, ne meriterò ampia scusa.



CAPITOLO SETTIMO
Caldi studi in Firenze

Nell'aprile del '78, dopo aver verseggiata la Virginia, e quasi che tutto l'Agamennone, ebbi una breve ma forte malattia infiammatoria, con un'angina, che costrinse il medico a dissanguarmi; il che mi lasciò una lunga convalescenza, e fu epoca per me di un notabile indebolimento di salute in appresso. L'agitazione, i disturbi, lo studio, e la passione di cuore mi aveano fatto infermare, e benché poi nel finir di quell'anno cessassero interamente i disturbi d'interesse domestico, lo studio e l'amore che sempre andarono crescendo, bastarono a non mi lasciar piú godere in appresso di quella robustezza d'idiota ch'io mi era andata formando in quei dieci anni di dissipazione, e di viaggi quasi continui. Tuttavia nel venir poi dell'estate, mi riebbi, e moltissimo lavorai. L'estate è la mia stagione favorita; e tanto piú mii si confà, quanto piú eccessiva riesce; massimamente pel comporre. Fin dal maggio di quell'anno avea dato principio ad un poemetto in ottava rima, su la uccisione del duca Alessandro da Lorenzino de' Medici; fatto, che essendomi piaciuto molto, ma non lo trovando suscettibile di tragedia, mi si affacciò piuttosto come poema. Lo andava lavorando a pezzi, senza averne steso abbozzo nessuno, per esercitarmi al far rime, da cui gli sciolti delle oramai già tante tragedie mi andavano deviando. Andava anche scrivendo alcune rime d'amore, sí per lodare la mia donna, che per isfogare le tante angustie in cui, attese le di lei circostanze domestiche, mi conveniva passare molt'ore. E hanno cominciamento le mie rime per essa, da quel sonetto (tra gli stampati da me) che dice:

Negri, vivaci, in dolce fuoco ardenti;

dopo il quale tutte le rime amorose che seguono, tutte sono per essa, e ben sue, e di lei solamente, poiché mai d'altra donna per certo non canterò. E mi pare che in esse (siano con piú o meno felicità ed eleganza concepite e verseggiate), vi dovrebbe pure per lo piú trasparire quell'immenso affetto che mi sforzava di scriverle, e ch'io ogni giorno piú mi sentiva crescer per lei; e ciò massimamente, credo, si potrà scorgere nelle rime scritte quando poi mi trovai per gran tempo disgiunto da essa.
Torno alle occupazioni del '78. Nel luglio distesi con una febbre frenetica di libertà la tragedia de' Pazzi; quindi immediatamente il Don Garzia. Tosto dopo ideai e distribuii in capitoli i tre libri Del principe e delle lettere, e ne distesi i primi tre capitoli. Poi, non mi sentendo lingua abbastanza per ben esprimere i miei pensamenti, lo differii per non averlo poi a rifonder tutto allorché ci tornerei per correggerlo. Nell'agosto di quell'anno stesso, a suggerimento e soddisfazione dell'amata, ideai la Maria Stuarda. Dal settembre in giú verseggiai l'Oreste, con cui terminai quell'anno per me travagliatissimo.
Passavano allora i miei giorni in una quasi perfetta calma; e sarebbe stata intera, se non fossi stato spesso angustiato del vedere la mia donna angustiata da continui dispiaceri domestici cagionatile dal querulo, sragionevole, e sempre ebro attempato marito. Le sue pene eran mie; e vi ho successivamente patito dolori di morte. Io non la poteva vedere se non la sera, e talvolta a pranzo da lei; ma sempre presente lo sposo, o al piú standosi egli di continuo nella camera contigua. Non già ch'egli avesse ombra di me piú che d'altri; ma era tale il di lui sistema; ed in nove anni e piú che vissero insieme quei due coniugi, mai e poi mai e poi mai non è uscito egli di casa senza di lei, né ella senz'esso; continuità che riuscirebbe stucchevole perfino fra due coetanei amanti. Io dunque tutto l'intero giorno me ne stava in casa studiando, dopo aver cavalcato la mattina per un par d'ore un ronzino d'affitto per mera salute. La sera poi io trovava il sollievo della sua vista, ma amareggiato pur troppo dal vederla come dissi quasi sempre afflitta, ed oppressa. Se io non avessi avuta la tenacissima occupazione dello studio, non mi sarei potuto piegare al vederla sí poco, e in tal modo. Ma anche, se io non avessi avuto quell'unico sollievo della sua dolcissima vista per contravveleno all'asprezza della mia solitudine non avrei mai potuto resistere a uno studio cosí continuo, e cosí, direi, arrabbiato.
In tutto il '79 verseggiai la Congiura de' Pazzi; ideai la Rosmunda, l'Ottavia, e il Timoleone; stesi la Rosmunda, e Maria Stuarda; verseggiai il Don Garzia; terminai il primo canto del poema, e inoltrai non poco il secondo.
In mezzo a sí calde e faticose occupazioni della mente, mi trovava anche soddisfatti gli affetti del cuore, tra l'amata donna presente, e due amici lontani, con cui mi andava sfogando per lettere. Era l'uno di questi, il Gori di Siena, il quale anche due o tre volte era venuto in Firenze a vedermi; l'altro era l'ottimo abate di Caluso, il quale verso la metà di quell'anno '79 venne poi in Firenze, chiamatovi in parte dall'intenzione di godersi per un anno quella beatissima lingua toscana, ed in parte (me ne lusingo) chiamatovi dal piacere di essere con chi gli volea tanto bene quanto io; ed anche per darsi ai suoi studi piú quetamente e liberamente che non gli veniva fatto in Torino, dove fra i suoi tanti e fratelli, e nipoti, e cugini, e indiscreti d'altro genere la di lui mansueta e condiscendente natura lo costringeva ad essere assai piú d'altri che suo. Un anno presso che intero egli stette dunque in Firenze; ci vedevamo ogni giorno, e si passava insieme di molte ore del dopo pranzo. Ed io nella di lui piacevole ed erudita conversazione imparai senza quasi avvedermene piú cose assai che non avrei fatto in molti anni sudando su molti libri. E tra l'altre, quella di cui gli avrò eterna gratitudine, si è di avermi egli insegnato a gustare e sentire e discernere la bella ed immensa varietà dei versi di Virgilio, da me fin allora soltanto letti ed intesi; il che per la lettura di un poeta di tal fatta, e per l'utile che ne dee ridondare a chi legge, viene a dir quanto nulla. Ho tentato poi (non so con quanta felicità) di trasportare nel mio verso sciolto di dialogo quella incessante varietà d'armonia, per cui raramente due versi somigliantisi si accoppino; quelle diverse sedi d'interrompimento, e quelle trasposizioni (per quanto l'indole della lingua nostra il concede), dalle quali il verseggiar di Virgilio riesce sí maraviglioso, e sí diverso da Lucano, da Ovidio, e da tutti. Differenze difficili ad esprimersi con parole, e poco concepibili da chi dell'arte non è. Ed era pur necessario ch'io mi andassi aiutando qua e là per far tesoro di forme e di modi, per cui il meccanismo del mio verso tragico assumesse una faccia sua propria, e si venisse a rialzare da per sé, per forza di struttura; mentre non si può in tal genere di composizione aiutare il verso, né gonfiarlo con i lunghi periodi, né con le molte immagini, né con le troppe trasposizioni, né con la soverchia pompa o stranezza dei vocaboli, né con ricercati epiteti: ma la sola semplice e dignitosa sua giacitura di parole infonde in esso la essenza del verso, senza punto fargli perdere la possibile naturalezza del dialogo. Ma tutto questo, ch'io forse qui mal esprimo, e ch'io aveva fin d'allora, e ogni dí piú caldamente, scolpito nella mente mia non lo acquistai nella penna se non se molti anni dopo, se pur mai lo acquistai: e forse fu quando poi ristampai le tragedie in Parigi. Che se il leggere, studiare, gustare, e discernere, e sviscerare le bellezze ed i modi del Dante e Petrarca mi poterono infonder forse la capacità di rimare sufficientemente e con qualche sapore; l'arte del verso sciolto tragico (ove ch'io mi trovassi poi d'averla o avuta o accennata) non la ripeterò da altri che da Virgilio, dal Cesarotti, e da me medesimo. Ma intanto, prima che io pervenissi a dilucidare in me l'essenza di questo stile da crearsi, mi toccò in sorte di errare assai lungamente brancolando, e di cadere anche spesso nello stentato ed oscuro, per voler troppo sfuggire il fiacco e il triviale; del che ho ampiamente parlato altrove quando mi occorse di dare ragione del mio scrivere.
Nell'anno susseguente, 1780, verseggiai la Maria Stuarda; stesi l'Ottavia e il Timoleone; di cui, questa era frutto della lettura di Plutarco, ch'io avea anche ripigliato; quella, era figlia mera di Tacito, ch'io leggeva e rileggeva con trasporto. Riverseggiai inoltre tutto intero il Filippo, per la terza volta, sempre scemandolo di parecchi versi; ma egli era pur sempre quello che si risentiva il piú della sua origine bastarda, pieno di tante forme straniere ed impure. Verseggiai la Rosmunda, e gran parte dell'Ottavia, ancorché verso il finir di quell'anno la dovessi poi interrompere, attesi i fieri disturbi di cuore che mi sopravvennero.



CAPITOLO OTTAVO
Accidente per cui di nuovo rivedo Napoli, e Roma, dove mi fisso.

La donna mia (come piú volte accennai) vivevasi angustiatissima; e tanto poi crebbero quei dispiaceri domestici, e le continue vessazioni del marito si terminarono finalmente in una sí violenta scena baccanale nella notte di Sant'Andrea, ch'ella per non soccombere sotto sí orribili trattamenti fu alla per fine costretta di cercare un modo per sottrarsi a sí fatta tirannia, e salvare la salute e la vita. Ed ecco allora, che io di bel nuovo dovei (contro la natura mia) raggirare presso i potenti di quel governo, per indurli a favorire la liberazione di quell'innocente vittima da un giogo sí barbaro e indegno. Io, assai ben conscio a me stesso che in codesto fatto operai piú pel bene d'altri che non per il mio; conscio ch'io mai non diedi consiglio estremo alla mia donna, se non quando i mali suoi divennero estremi davvero, perché questa è sempre stata la massima ch'io ho voluta praticare negli affari altrui, e non mai ne' miei propri; e conscio finalmente ch'era cosa oramai del tutto impossibile di procedere altrimenti, non mi abbassai allora, né mi abbasserò mai, a purgarmi delle stolide e maligne imputazioni che mi si fecero in codesta occorrenza. Mi basti il dire, che io salvai la donna mia dalla tirannide d'un irragionevole e sempre ubriaco padrone, senza che pure vi fosse in nessunissimo modo compromessa la di lei onestà, né leso nella minima parte il decoro di tutti. Il che certamente a chiunque ha saputo o viste dappresso le circostanze particolari della prigionia durissima in cui ella di continuo ad oncia ad oncia moriva, non parrà essere stata cosa facile a ben condursi, e riuscirla, come pure riuscí a buon esito.
Da prima dunque essa entrò in un monastero in Firenze, condottavi dallo stesso marito come per visitar quel luogo, e dovutavela poi lasciare con somma di lui sorpresa, per ordine e disposizioni date da chi allora comandava in Firenze. Statavi alcuni giorni, venne poi dal di lei cognato, chiamata in Roma, dove egli abitava; e quivi pure si ritirò in altro monastero. E le ragioni di sí fatta rottura tra lei e il marito furono tante e sí manifeste, che la separazione fu universalmente approvata.
Partita essa dunque per Roma verso il finir di decembre, io me ne rimasi come orbo derelitto in Firenze; ed allora fui veramente convinto nell'intimo della mente e del cuore, ch'io senza di lei non rimanea neppur mezzo, trovandomi assolutamente quasi incapace d'ogni applicazione, e d'ogni bell'opera, né mi curando piú punto né della tanto ardentemente bramata gloria, né di me stesso. In codesto affare io avea dunque sí caldamente lavorato per l'util suo, e pel danno mio; poiché niuna infelicità mi potea mai toccare maggiore, che quella di non punto vederla. Io non potea decentemente seguitarla sí tosto in Roma. Per altra parte non mi era possibile piú di campare in Firenze. Vi stetti tuttavia tutto il gennaio dell'81, e mi parvero quelle settimane, degli anni, né potei poi proseguire nessun lavoro, né lettura, né altro. Presi dunque il compenso di andarmene a Napoli; e scelsi, come ben vede ciascuno, espressamente Napoli, perché ci si va passando di Roma.
Già da un anno e piú mi si era di bel nuovo diradata la sozza caligine della seconda accennata avarizia. Aveva collocato in due volte piú di centosessanta mila franchi nei vitalizi di Francia; il che mi facea tenere sicura oramai la sussistenza indipendentemente dal Piemonte. Onde io era tornato ad una giusta spesa; ed avea ricomperato cavalli, ma soli quattro, che ad un poeta n'avanzano. Il caro abate di Caluso era anche tornato a Torino da piú di sei mesi; quindi io senza nessuno sfogo d'amicizia, e privo della mia donna, non mi sentendo piú esistere, il bel primo di febbraio mi avviai bel bello a cavallo verso Siena, per abbracciarvi l'amico Gori, e sgombrarmi un po' il cuore con esso. Indi proseguii verso Roma, la di cui approssimazione mi facea palpitare; tanto è diverso l'occhio dell'amante da tutti gli altri. Quella regione vuota insalubre, che tre anni innanzi mi parea quel ch'era, in questo venire mi si presentava come il piú delizioso soggiorno del mondo.
Giunsi; la vidi (oh Dio, mi si spacca ancora il cuore pensandovi), la vidi prigioniera dietro una grata, meno vessata però che non l'avea vista in Firenze, ma per altra cagione non la rividi meno infelice. Eramo in somma disgiunti; e chi potea sapere per quanto il saremmo? Ma pure, io mi appagava piangendo, ch'ella si potesse almeno a poco a poco ricuperare in salute; e pensando, ch'ella potrebbe pur respirare un'aria piú libera, dormire tranquilli i suoi sonni, non sempre tremare di quella indivisibile ombra dispettosa dell'ebro marito, ed esistere in somma; tosto mi pareano e men crudeli e men lunghi gli orribili giorni di lontananza, a cui mi era pur forza di assoggettarmi.
Pochissimi giorni mi trattenni in Roma; ed in quelli, Amore mi fece praticare infinite pieghevolezze e destrezze, ch'io non avrei poste in opera né per ottenere l'imperio dell'universo: pieghevolezze, ch'io ferocemente ricusai praticare dappoi, quando presentandomi al limitare del tempio della Gloria, ancorché molto dubbio se vi potrei ottenere l'accesso, non ne volli pur mai lusingare né incensare coloro che n'erano, o si teneano, custodi di esso. Mi piegai allora al far visite, al corteggiare per anche il di lei cognato, dal quale soltanto dipendeva oramai la di lei futura total libertà, di cui ci andavamo entrambi lusingando. Io non mi estenderò gran fatto sul proposito di questi due personaggi fratelli, perché furono in quel tempo notissimi a ciascheduno; e sebbene poi verisimilmente l'obblio gli avrà sepolti del tutto col tempo, a me non si aspetta di trarneli, laudare non li potendo né li volendo biasimare. Ma intanto l'aver io umiliato il mio orgoglio a costoro, può riuscire bastante prova dell'immenso mio amore per essa.
Partii per Napoli, come promesso l'avea, e come, delicatamente operando, il dovea. Questa separazione seconda mi riuscí ancor piú dolorosa della prima in Firenze. E già in quella prima lontananza di circa quaranta giorni, io avea provato un saggio funesto delle amarezze che mi aspettavano in questa seconda, piú lunga ed incerta.
In Napoli la vista di quei bellissimi luoghi non essendo nuova per me, ed avendo io una sí profonda piaga nel cuore, non mi diede quel sollievo ch'io me ne riprometteva. I libri erano quasi che nulla per me; i versi e le tragedie andavan male, o si stavano; ed in somma io non campava che di posta spedita, e di posta ricevuta, a null'altro potendo rivolger l'animo se non se alla mia donna lontana. E me n'andava sempre solitario cavalcando per quelle amene spiagge di Posilipo e Baia, o verso Capova e Caserta, o altrove, per lo piú piangendo, e sí fattamente annichilato, che col cuore traboccante d'affetti non mi veniva con tutto ciò neppur voglia di tentare di sfogarlo con rime. Passai in tal guisa il rimanente di febbraio, sin al mezzo maggio.
Tuttavia in certi momenti meno gravosi facendomi forza, qualche poco andai lavorando. Terminai di verseggiare l'Ottavia; e riverseggiai piú che mezzo il Polinice, che mi parve di una pasta di verso alquanto migliorata. Avendo finito l'anno innanzi il secondo canto del poemetto, mi volli accingere al terzo; ma non potei procedere oltre la prima stanza, essendo quello un tema troppo lieto per quel mio misero stato d'allora. Sicché lo scrivere lettere, e il rileggere cento volte le lettere ch'io riceveva di lei, furono quasi esclusivamente le mie occupazioni di quei quattro mesi. Gli affari della mia donna si andavano frattanto rischiarando alquanto, e verso il fin di marzo ella avea ottenuto licenza dal papa di uscire di monastero, e di starsene tacitamente come divisa dal marito in un appartamento che il cognato (abitante sempre fuori di Roma) le rilasciava nel di lui palazzo in città. Io avrei voluto tornar a Roma, e sentiva pure benissimo che per allora non si doveva. I contrasti che prova un cuor tenero ed onorato fra l'amore e il dovere, sono la piú terribile e mortal passione ch'uomo possa mai sopportare. Io dunque indugiai tutto l'aprile, e tutto il maggio m'era anche proposto di strascinarlo cosí, ma verso il dodici d'esso mi ritrovai, quasi senza saperlo, in Roma. Appena giuntovi, addottrinato ed inspirato dalla Necessità e da Amore, diedi proseguimento e compimento al già intrapreso corso di pieghevolezze e astuziole cortigianesche per pure abitare la stessa città e vedervi l'adorata donna. Onde dopo tante smanie, fatiche, e sforzi per farmi libero, mi trovai trasformato ad un tratto in uomo visitante, riverenziante, e piaggiante in Roma, come un candidato che avrebbe postulato inoltrarsi nella prelatura. Tutto feci, a ogni cosa mi piegai, e rimasi in Roma, tollerato da quei barbassori, e aiutato anco da quei pretacchiuoli che aveano o si pigliavano una qualche ingerenza negli affari della donna mia. Ma buon per essa, che non dipendeva dal cognato, e dalla di lui trista sequela, se non se nelle cose di mera convenienza, e nulla poi nelle di lei sostanze, le quali essa aveva in copia per altra parte, ed assai onorevoli, e per allora sicurissime.



CAPITOLO NONO
Studi ripresi ardentemente in Roma. Compimento delle quattordici prime tragedie.

Tosto ch'io un tal poco respirai da codesti esercizi di semiservitú, contento oltre ogni dire di un'onesta libertà per cui mi era dato di visitare ogni sera l'amata, mi restituii tutto intero agli studi. Ripreso dunque il Polinice, terminai di riverseggiarlo; e senza piú pigliar fiato, proseguii da capo l'Antigone, poi la Virginia, e successivamente l'Agamennone, l'Oreste, i Pazzi, il Garzia; poi il Timoleone che non era stato ancor posto in versi; ed in ultimo, per la quarta volta, il renitente Filippo. E mi andava tal volta sollevando da quella troppo continuità di far versi sciolti, proseguendo il terzo canto del poemetto; e nel decembre di quell'anno stesso composi d'un fiato le quattro prime lodi dell'America libera. A queste m'indusse la lettura di alcune bellissime e nobili odi del Filicaia, che altamente mi piacquero. Ed io stesi le mie quattro in sette soli giorni, e la terza intera in un giorno solo, ed esse con picciole mutazioni sono poi rimaste quali furono concepite. Tanta è la differenza (almeno per la mia penna) che passa tra il verseggiare in rima liricamente, o il far versi sciolti di dialogo.
Nel principio dell'anno '82, vedendomi poi tanto inoltrate le tragedie, entrai in speranza, che potrei dar loro compimento in quell'anno. Fin dalla prima io mi era proposto di non eccedere il numero di dodici; e me le trovava allora tutte concepite, e distese, e verseggiate; e riverseggiate le piú. Senza discontinuare dunque proseguiva a riverseggiare, e limare quelle che erano rimaste; sempre progredendole successivamente nell'ordine stesso con cui elle erano state concepite, e distese.
In quel frattempo, verso il febbraio dell'82, tornatami un giorno fra le mani la Merope del Maffei per pur vedere s'io c'imparava qualche cosa quanto allo stile, leggendone qua e là degli squarci mi sentii destare improvvisamente un certo bollore d'indegnazione e di collera nel vedere la nostra Italia in tanta miseria e cecità teatrale che facessero credere o parere quella come l'ottima e sola delle tragedie, non che delle fatte fin allora (che questo lo assento anch'io), ma di quante se ne potrebber far poi in Italia. E immediatamente mi si mostrò quasi un lampo altra tragedia dello stesso nome e fatto, assai piú semplice e calda e incalzante di quella. Tale mi si appresentò nel farsi ella da me concepire, direi per forza. S'ella sia poi veramente riuscita tale, lo decideranno quelli che verran dopo noi. Se mai con qualche fondamento chi schicchera versi ha potuto dire est Deus in nobis, lo posso certo dir io, nell'atto che io ideai, distesi, e verseggiai la mia Merope, che non mi diede mai tregua né pace finch'ella non ottenesse da me l'una dopo l'altra queste tre creazioni diverse, contro il mio solito di tutte l'altre, che con lunghi intervalli riceveano sempre queste diverse mani d'opera. E lo stesso dovrò dire pel vero, risguardo al Saulle. Fin dal marzo di quell'anno mi era dato assai alla lettura della Bibbia, ma non però regolatamente con ordine. Bastò nondimeno perch'io m'infiammassi del molto poetico che si può trarre da codesta lettura, e che non potessi piú stare a segno, s'io con una qualche composizione biblica non dava sfogo a quell'invasamento che n'avea ricevuto. Ideai dunque, e distesi, e tosto poi verseggiai anche il Saulle, che fu la decimaquarta, e secondo il mio proposito d'allora l'ultima dovea essere di tutte le mie tragedie. E in quell'anno mi bolliva talmente nella fantasia la facoltà inventrice, che se non l'avessi frenata con questo proponimento, almeno altre due tragedie bibliche mi si affacciavano prepotentemente, e mi avrebbero strascinato; ma stetti fermo al proposito, e parendomi essere le quattordici anzi troppo che poche, lí feci punto. Ed anzi (nemico io sempre del troppo, ancorché ad ogni altro estremo la mia natura mi soglia trasportare) nello stendere la Merope e il Saulle mi facea tanto ribrezzo l'eccedere il numero che avea fissato, ch'io promisi a me stesso di non le verseggiare, se non quando avrei assolutamente finite e strafinite tutte l'altre; e se non riceveva da esse in intero l'effetto stessissimo, ed anche maggiore, che avea provato nello stenderle, promisi anche a me di non proseguirle altrimenti. Ma che valsero e freni, e promesse, e propositi? Non potei mai far altro, né ritornar su le prime, innanzi che quelle due ultime avessero ricevuto il loro compimento. Cosí son nate queste due; spontanee piú che tutte l'altre; dividerò con esse la gloria, s'esse l'avranno acquistata e meritata; lascierò ad esse la piú gran parte del biasimo, se lo incontreranno; poiché e nascere e frammischiarsi coll'altre a viva forza han voluto. Né alcuna mi costò meno fatica, e men tempo di queste due.
Intanto verso il fin del settembre di quell'anno stesso '82, tutte quattordici furono dettate, ricopiate, e corrette; aggiungerei, e limate, ma in capo a pochi mesi m'avvidi e convinsi, che da ciò ell'erano ancor molto lontane. Ma per allora il credei, e mi tenni essere il primo uomo del mondo; vedendomi avere in dieci mesi verseggiate sette tragedie; inventatene, stese, e verseggiate due nuove; e finalmente, dettatene quattordici, correggendole. Quel mese di ottobre, per me memorabile, fu dunque dopo sí calde fatiche un riposo non men delizioso che necessario; ed alcuni giorni impiegai in un viaggetto a cavallo sino a Terni per veder quella famosa cascata. Pieno turgido di vanagloria, non lo dicevo però ad altri mai che a me stesso, spiattellatamente, e con un qualche velame di moderazione lo accennava anche alla dolce metà di me stesso; la quale, parendo anch'essa (forse per l'affetto che mi portava) propensa a potermi tenere per un grand'uomo; essa piú ch'altra cosa sempre piú m'impegnava a tutto tentare per divenirlo. Onde dopo un par di mesi di ebbrezza di giovenile amor proprio, da me stesso mi ravvidi nel ripigliar ad esame le mie quattordici tragedie, quanto ancora di spazio mi rimanesse a percorrere prima di giungere alla sospirata meta. Tuttavia, trovandomi in età di non ancora trentaquattr'anni, e nell'aringo letterario trovandomi giovine di soli otto anni di studio, sperai piú fortemente di prima, che acquisterei pure una volta la palma; e di sí fatta speranza non negherò che me n'andasse tralucendo un qualche raggio sul volto, ancorché l'ascondessi in parole.
In diverse occasioni io era andato leggendo a poco a poco tutte codeste tragedie in varie società sempre miste di uomini e donne, di letterati e d'idioti, di gente accessibile ai diversi affetti e di tangheri. Nel leggere io le mie produzioni, avea ricercato (parlando pel vero) non men che la lode il vantaggio. Io conosceva abbastanza e gli uomini ed il bel mondo, per non mi fidare né credere stupidamente in quelle lodi del labro, che non si negano quasi mai ad un autore leggente, che non chiede nulla, e si sfiata in un ceto di persone ben educate e cortesi: onde a sí fatte lodi io dava il loro giusto valore, e non piú. Ma molto badava, ed apprezzava le lodi ed il biasimo, ch'io per contrapposto al labro le appellerei del sedere, se non fosse sconcia espressione; cotanto ella mi par vera e calzante. E mi spiego. Ogniqualvolta si troveranno riuniti dodici o quindici individui, misti come dissi, lo spirito collettivo che si verrà a formare in questa varia adunanza, si accosterà e somiglierà assai al totale di una pubblica udienza teatrale. E ancorché questi pochi non vi assistano pagando, e la civiltà voglia ch'essi vi stiano in piú composto contegno; pure, la noia ed il gelo di chi sta ascoltando non si possono mai nascondere, né (molto meno) scambiarsi con una vera attenzione, ed un caldo interesse, e viva curiosità di vedere a qual fine sia per riuscire l'azione. Non potendo dunque l'ascoltatore né comandare al proprio suo viso, né inchiodarsi direi in su la sedia a sedere; queste due indipendenti parti dell'uomo faranno la giustissima spia al leggente autore, degli affetti e non affetti de' suoi ascoltanti. E questo era (quasi esclusivamente) quello che io sempre osservava leggendo. E m'era sembrato sempre (se io pure non travedeva) di avere sul totale di una intera tragedia ottenuto piú che i due terzi del tempo una immobilità e tenacità d'attenzione, ed una calda ansietà di schiarire lo scioglimento; a che mi provava bastantemente ch'egli rimaneva, anche nei piú noti soggetti di tragedia, tuttavia pendente ed incerto sino all'ultimo. Ma confesserò parimente, che di molte lunghezze, o freddezze, che vi poteano essere qua e là, oltre che io medesimo mi era spesso tediato nel rileggerle ad altri, ne ricevei anche il sincerissimo tacito biasimo, da quei benedetti sbadigli, e involontarie tossi, e irrequieti sederi, che me ne davano, senza avvedersene, certezza ad un tempo ed avviso. E neppur negherò, che anche degli ottimi consigli, e non pochi, mi siano stati suggeriti dopo quelle diverse letture, da uomini letterati, da uomini di mondo, e spezialmente circa gli affetti, da varie donne. I letterati battevano su l'elocuzione e le regole dell'arte; gli uomini di mondo, su l'invenzione, la condotta e i caratteri, e perfino i giovevolissimi tangheri, col loro piú o meno russare o scontorcersi; tutti in somma, quanto a me pare, mi riuscirono di molto vantaggio. Onde io, tutti ascoltando, di tutto ricordandomi, nulla trascurando, e non disprezzando individuo nessuno (ancorché pochissimi ne stimassi), ne trassi poi forse e per me stesso e per l'arte quel meglio che conveniva. Aggiungerò a tutte queste confessioni per ultima, che io benissimo mi avvedeva, che quell'andar leggendo tragedie in semi-pubblico, un forestiere fra gente non sempre amica, mi poteva e doveva anzi esporre a esser messo in ridicolo. Non me ne pento però di aver cosí fatto, se ciò poi ridondò in beneficio mio e dell'arte; il che se non fu, il ridicolo delle letture anderà poi con quello tanto maggiore, dell'averle recitate, e stampate.



CAPITOLO DECIMO
Recita dell'Antigone in Roma. Stampa delle prime quattro tragedie. Separazione dolorosissima. Viaggio per la Lombardia.

Io dunque me ne stava cosí in un semiriposo, covando la mia tragica fama, ed irresoluto tuttavia se stamperei allora, o se indugierei dell'altro. Ed ecco, che mi si presentava spontanea un'occasione di mezzo tra lo stampare e il tacermi; ed era, di farmi recitare da una eletta compagnia di dilettanti signori. Era questa società teatrale già avviata da qualche tempo a recitare in un teatro privato esistente nel palazzo dell'ambasciatore di Spagna, allora il duca Grimaldi. Si erano fin allora recitate delle commedie e tragedie, tutte traduzioni, e non buone, dal francese; e tra queste assistei ad una rappresentazione del Conte d'Essex di Tommaso Corneille, messa in verso italiano non so da chi, e recitata la parte di Elisabetta dalla duchessa di Zagarolo, piuttosto male. Con tutto ciò, vedendo io questa signora essere assai bella e dignitosa di personale, ed intendere benissimo quel che diceva, argomentai che con un po' di buona scuola si sarebbe potuta assaissimo migliorare. E cosí d'una in altra idea fantasticando, mi entrò in capo di voler provare con questi attori una delle troppe mie. Voleva convincermi da me stesso, se potrebbe riuscire quella maniera che io avea preferita a tutt'altre; la nuda semplicità dell'azione; i pochissimi personaggi; ed il verso rotto per lo piú su diverse sedi, ed impossibile quasi a cantilenarsi. A quest'effetto prescelsi l'Antigone, riputandola io l'una delle meno calde tra le mie, e divisando fra me e me, che se questa venisse a riuscire, tanto piú il farebbero l'altre in cui si sviluppan affetti tanto piú vari e feroci. La proposta di provar quest'Antigone fu accettata con piacere dalla nobile compagnia; e fra quei loro attori non si trovando allora alcun altro che si sentisse capace di recitare in tragedia una parte capitale oltre il duca di Ceri, fratello della predetta duchessa di Zagarolo, mi trovai costretto di assumermi io la parte di Creonte, dando al duca di Ceri quella di Emone; e alla di lui consorte, quella di Argia: la parte principalissima dell'Antigone spettando di dritto alla maestosa duchessa di Zagarolo. Cosí distribuite le quattro parti, si andò in scena; né altro aggiungerò circa all'esito di quelle rappresentazioni, avendo avuto occasione di parlarne assai lungamente in altri miei scritti.
Insuperbito non poco dal prospero successo della recita, verso il principio del seguente anno mi indussi a tentare per la prima volta la terribile prova dello stampare. E per quanto già mi paresse scabrosissimo questo passo, ben altrimenti poi lo conobbi esser tale, quando imparai per esperienza cosa si fossero le letterarie inimicizie e raggiri; e gli asti librarii, e le decisioni giornalistiche, e le chiacchiere gazzettarie, e tutto in somma il tristo corredo che non mai si scompagna da chi va sotto i torchi; e tutte queste cose mi erano fin allora state interamente ignote; ed a segno, ch'io neppur sapeva che si facessero giornali letterari, con estratti e giudizi critici delle nuove opere, sí era rozzo, e novizio, e veramente purissimo di coscienza nell'arte scrivana.
Decisa dunque la stampa, e visto che in Roma le stitichezze della revisione eran troppe, scrissi all'amico in Siena, di volersi egli addossar quella briga. Al che ardentissimamente egli in capite, con altri miei conoscenti ed amici, si prestò di vegliarvi da sé, e fare con diligenza e sollecitudine progredire la stampa. Non volli avventurare a bella prima che sole quattro tragedie; e di quelle mandai all'amico un pulitissimo manoscritto quanto al carattere e correzione; ma quanto poi alla lindura, chiarezza, ed eleganza dello stile, mi riuscí purtroppo difettoso. Innocentemente allora io mi credeva, che nel dare un manoscritto allo stampatore fosse terminata ogni fatica dell'autore. Imparai poi dopo a mie spese, che allora quasi si riprincipia.
In quei due e piú mesi che durava la stampa di codeste quattro tragedie, io me ne stava molto a disagio in Roma in una continua palpitazione e quasi febbre dell'animo, e piú volte, se non fosse stata la vergogna mi sarei disdetto, ed avrei ripreso il mio manoscritto. Ad una per volta mi pervennero finalmente tutte quattro in Roma, correttissimamente stampate, grazie all'amico; e sudicissimamente stampate, come ciascun le ha viste, grazie al tipografo: e barbaramente verseggiate (come io seppi poi), grazie all'autore. La ragazzata di andare attorno attorno per le varie case di Roma, regalando ben rilegate quelle mie prime fatiche, affine di accattar voti, mi tenne piú giorni occupato, non senza parer risibile agli occhi miei stessi, non che agli altrui. Le presentai, fra gli altri, al papa allora sedente Pio VI, a cui già mi era fatto introdurre fin dall'anno prima, allorché mi posi a dimora in Roma. E qui, con mia somma confusione, dirò di qual macchia io contaminassi me stesso in quella udienza beatissima. Io non molto stimava il papa come papa; e nulla il Braschi come uomo letterato né benemerito delle lettere, che non lo era punto. Eppure, quell'io stesso, previa una ossequiosa presentazione del mio volume, che egli cortesemente accettava, apriva, e riponeva sul suo tavolino, molto lodandomi, e non acconsentendo ch'io procedessi al bacio del piede, egli medesimo anzi rialzandomi in piedi da genuflesso ch'io m'era; nella qual umil positura Sua Santità si compiacque di palparmi come con vezzo paterno la guancia; quell'io stesso, che mi teneva pure in corpo il mio sonetto su Roma, rispondendo allora con blandizia e cortigianeria alle lodi che il pontefice mi dava su la composizione e recita dell'Antigone, di cui egli avea udito, disse, maraviglie; io, colto il momento in cui egli mi domandava se altre tragedie farei, molto encomiando un'arte sí ingegnosa e sí nobile; gli risposi che molte altre eran fatte, e tra quelle un Saul, il quale come soggetto sacro avrei, se egli non lo sdegnava, intitolato a Sua Santità. Il papa se ne scusò, dicendomi ch'egli non poteva accettar dedica di cose teatrali quali ch'elle si fossero; né io altra cosa replicai su ciò. Ma qui mi convien confessare, ch'io provai due ben distinte, ed ambe meritate, mortificazioni: l'una del rifiuto ch'io m'era andato accattare spontaneamente; l'altra di essermi pur visto costretto in quel punto a stimare me medesimo di gran lunga minore del papa, poiché io avea pur avuto la viltà, o debolezza, o doppiezza (che una di queste tre fu per certo, se non tutte tre, la motrice del mio operare in quel punto) di voler tributare come segno di ossequio e di stima una mia opera ad un individuo ch'io teneva per assai minore di me in linea di vero merito. Ma mi conviene altresí (non per mia giustificazione, ma per semplice schiarimento di tale o apparente o verace contraddizione tra il mio pensare, sentire e operare) candidamente espor la sola e verissima cagione, che m'avea indotto a prostituire cosí il coturno alla tiara. La cagione fu dunque, che io sentendo già da qualche tempo bollir dei romori preteschi che uscivano di casa il cognato dell'amata mia donna, per cui mi era nota la scontentezza di esso e di tutta la di lui corte circa alla mia troppa frequenza in casa di essa; e questo scontentamento andando sempre crescendo; io cercai coll'adulare il sovrano di Roma, di crearmi in lui un appoggio contro alle persecuzioni ch'io già parea presentire nel cuore, e che poi in fatti circa un mese dopo mi si scatenarono contro. E credo che quella stessa recita dell'Antigone, col far troppo parlare di me, mi suscitasse e moltiplicasse i nemici. Io fui dunque allora e dissimulato, e vile, per forza d'amore; e ciascuno in me derida se il può, ma riconosca ad un tempo, sé stesso. Ho voluto di questa particolarità, ch'io poteva lasciar nelle tenebre in cui si stava sepolta, fare il mio e l'altrui pro, disvelandola. Non l'avea mai raccontata a chicchessia in voce, vergognandomene non poco. Alla sola mia donna la raccontai qualche tempo dopo. L'ho scritta anche in parte per consolazione dei tanti altri autori presenti e futuri, i quali per una qualche loro fatal circostanza si trovano, e si troveranno pur troppo sempre i piú, vergognosamente sforzati a disonorar le lor opere e sé stessi con dediche bugiarde; ed affinché i malevoli miei possan dire con verità e sapore, che se io non mi sono avvilito con niuna di sí fatte simulazioni non fu che un semplice effetto della sorte, la quale non mi costrinse ad esser vile o parerlo.
Nell'aprile di quell'anno 1783 infermò gravemente in Firenze il consorte della mia donna. Il di lui fratello partí a precipizio, per ritrovarlo vivo. Ma il male allentò con pari rapidità, ed egli lo ritrovò riavutosi, ed affatto fuor di pericolo. Nella convalescenza, trattenendosi il di lui fratello circa quindici giorni in Firenze, si trattò fra i preti venuti con esso di Roma, ed i preti che aveano assistito il malato in Firenze, che bisognava assolutamente per parte del marito persuadere e convincere il cognato, ch'egli non poteva né dovea piú a lungo soffrire in Roma nella propria casa la condotta della di lui cognata. E qui, non io certamente farò l'apologia della vita usuale di Roma e d'Italia tutta, quale si suole vedere di presso che tutte le donne maritate. Dirò bensí, che la condotta di quella signora in Roma a riguardo mio era piuttosto molto al di qua, che non al di là degli usi i piú tollerati in quella città. Aggiungerò, che i torti, e le feroci e pessime maniere del marito con essa, erano cose verissime, ed a tutti notissime. Ma terminerò con tutto ciò, per amor del vero e del retto, col dire, che il marito, e il cognato, e i loro rispettivi preti aveano tutte le ragioni di non approvare quella mia troppa frequenza, ancorché non eccedesse i limiti dell'onesto. Mi spiace soltanto, che quanto ai preti (i quali furono i soli motori di tutta la macchina), il loro zelo in ciò non fosse né evangelico, né puro dai secondi fini, poiché non pochi di essi coi lor tristi esempi faceano ad un tempo l'elogio della condotta mia, e la satira della loro propria. La cosa era dunque, non figlia di vera religione e virtú, ma di vendette e raggiri. Quindi, appena ritornò in Roma il cognato, egli per l'organo de' suoi preti intimò alla signora: che era cosa oramai indispensabile, e convenuta tra lui e il fratello, che s'interrompesse quella mia assiduità presso lei; e ch'egli non la sopporterebbe ulteriormente. Quindi codesto personaggio, impetuoso sempre ed irriflessivo, quasi che s'intendesse con questi modi di trattare la cosa piú decorosamente, ne fece fare uno scandaloso schiamazzio per la città tutta, parlandone egli stesso con molti, e inoltrandone le doglianze sino al papa. Corse allora grido, che il papa su questo riflesso mi avesse fatto o persuadere o ordinare di uscir di Roma; il che non fu vero; ma facilmente avrebbe potuto farlo, mercè la libertà italica. Io però, ricordatomi allora, come tanti anni prima essendo in Accademia, e portando, com'io narrai, la parrucca, sempre aveva antivenuto i nemici sparruccandomi da me stesso, prima ch'essi me la levasser di forza; antivenni allora l'affronto dell'esser forse fatto partire, col determinarmivi spontaneamente. A quest'effetto io fui dal ministro nostro di Sardegna, pregandolo di far partecipe il segretario di Stato, che io informato di tutto questo scandalo, troppo avendo a cuore il decoro, l'onore, e la pace di una tal donna, aveva immediatamente presa la determinazione di allontanarmene per del tempo, affine di far cessare le chiacchiere; e che verso il principio del prossimo maggio sarei partito. Piacque al ministro, e fu approvata dal segretario di Stato, dal papa e da tutti quelli che seppero il vero, questa mia spontanea, e dolorosa risoluzione. Onde mi preparai alla crudelissima dipartenza. A questo passo m'indusse la trista ed orribile vita alla quale prevedeva di dover andare incontro, ove io mi fossi pure rimasto in Roma, ma senza poter continuare di vederla in casa sua, ed esponendola ad infiniti disgusti e guai, se in altri luoghi con affettata pubblicità, ovvero con inutile e indecoroso mistero, l'avessi assiduamente combinata. Ma il rimaner poi entrambi in Roma senza punto vederci, era per me un tal supplizio, ch'io per minor male, d'accordo con essa, mi elessi la lontananza aspettando migliori tempi.
Il dí quattro di maggio dell'anno 1783, che sempre mi sarà ed è stato finora di amarissima ricordanza, io mi allontanai adunque da quella piú che metà di me stesso. E di quattro o cinque separazioni che mi toccarono da essa, questa fu la piú terribile per me, essendo ogni speranza di rivederla pur troppo incerta e lontana.
Questo avvenimento mi tornò a scomporre il capo per forse due anni, e m'impedí, ritardò e guastò anche notabilmente sotto ogni aspetto i miei studi. Nei due anni di Roma io aveva tratto una vita veramente bella. La Villa Strozzi, posta alle Terme Diocleziane, mi avea prestato un delizioso ricovero. Le lunghe intere mattinate io ve le impiegava studiando, senza muovermi punto di casa se non se un'ora o due cavalcando per quelle solitudini immense che in quel circondario disabitato di Roma invitano a riflettere, piangere, e poetare. La sera scendeva nell'abitato, e ristorato dalle fatiche dello studio con l'amabile vista di quella per cui sola io esisteva e studiava, me ne ritornava poi contento al mio eremo, dove al piú tardi all'undici della sera io era ritirato. Un soggiorno piú gaio e piú libero e piú rurale, nel recinto d'una gran città, non si potea mai trovare; né il piú confacente al mio umore, carattere ed occupazioni. Me ne ricorderò, e lo desidererò, finch'io viva.
Lasciata dunque in tal modo la mia unica donna, i miei libri, la villa, la pace, e me stesso in Roma, io me n'andava dilungando in atto d'uomo quasi stupido ed insensato. M'avviai verso Siena, per ivi lagrimare almeno liberamente per qualche giorni in compagnia dell'amico. Né ben sapeva ancora in me stesso, dove anderei, dove mi starei, quel che mi farei. Mi riuscí d'un grandissimo sollievo il conversar con quell'uomo incomparabile; buono, compassionevole, e con tanta altezza e ferocia di sensi, umanissimo. Né mai si può veramente ben conoscere il pregio e l'utilità d'un amico verace, quanto nel dolore. Io credo, che senz'esso sarei facilmente impazzato. Ma egli, vedendo in me un eroe cosí sconciamente avvilito e minor di sé stesso; ancorché ben intendesse per prova i nomi e la sostanza di fortezza e virtú, non volle con tutto ciò crudelmente ed inopportunamente opporre ai deliri miei la di lui severa e gelata ragione; bensí seppe egli scemarmi, e non poco, il dolore, col dividerlo meco. Oh rara, oh celeste dote davvero; chi sappia ragionare ad un tempo, e sentire!
Ma io frattanto, menomate o sopite in me tutte le mie intellettuali facoltà, altra occupazione, altro pensiero non ammetteva, che lo scrivere lettere, e in questa terza lontananza che fu la piú lunga, scrissi veramente dei volumi, né quello ch'io mi scrivessi, il saprei: io sfogava il dolore, l'amicizia, l'amore, l'ira e tutti in somma i cotanti e sí diversi, e sí indomiti affetti d'un cuor traboccante, e d'un animo mortalmente piagato. Ogni cosa letteraria mi si andava ad un tempo stesso estinguendo nella mente, e nel cuore; a tal segno, che varie lettere ch'io avea ricevute di Toscana nel tempo de' miei disturbi in Roma, le quali mi mordeano non poco su le stampate tragedie, non mi fecero la minima impressione per allora, non piú che se delle tragedie d'un altro mi avessero favellato. Erano queste lettere, qualcuna scritta con sale e gentilezza, le piú insulsamente e villanamente; alcune firmate, altre no; e tutte concordavano nel biasimare quasi che esclusivamente il mio stile, tacciandomelo di durissimo, oscurissimo, stravagantissimo, senza però volermi, o sapermi, individuare gran fatto il come, il dove, il perché. Giunto poi in Toscana, l'amico per divagarmi dal mio unico pensamento, mi lesse nei foglietti di Firenze e di Pisa, chiamati Giornali, il commento delle predette lettere, che mi erano state mandate in Roma. E furono codesti i primi cosí detti giornali letterari che in qualunque lingua mi fossero capitati mai agli orecchi né agli occhi. E allora soltanto penetrai nei recessi di codesta rispettabile arte, che biasima o loda i diversi libri con eguale discernimento, equità, e dottrina, secondo che il giornalista è stato prima o donato, o vezzeggiato, o ignorato, o sprezzato dai rispettivi autori. Poco m'importò, a dir vero, di codeste venali censure, avendo io allora l'animo interamente preoccupato da tutt'altro pensiero.
Dopo circa tre settimane di soggiorno in Siena, nel qual tempo non trattai né vidi altri che l'amico, la temenza di rendermi troppo molesto a lui, poiché tanto pur l'era a me stesso; l'impossibilità di occuparmi in nulla, e la solita impazienza di luogo che mi dominava tosto di bel nuovo al riapparire della noia e dell'ozio: tutte queste ragioni mi fecero risolvere di muovermi viaggiando. Si avvicinava la festa solita dell'Ascensa in Venezia, che io avea già veduta molti anni prima; e là mi avviai. Passai per Firenze di volo, ché troppo mi accorava l'aspetto di quei luoghi che mi aveano già fatto beato, e che ora mi rivedevano sí angustiato ed oppresso. Il moto del cavalcare massimamente, e tutti gli altri strapazzi e divagazioni del viaggio, mi giovarono, se non altro, alla salute moltissimo, la quale molto mi era andata alterando da tre mesi in poi pe' tanti travagli d'animo, d'intelletto, e di cuore. Di Bologna mi deviai per visitare in Ravenna il sepolcro del Poeta, e un giorno intero vi passai fantasticando, pregando, e piangendo. In questo viaggio di Siena a Venezia mi si dischiuse veramente una nuova e copiosissima vena delle rime affettuose, e quasi ogni giorno uno o piú sonetti mi si facean fare, affacciandosi con molto impeto e spontaneità alla mia agitatissima fantasia. In Venezia poi, allorché sentii pubblicata e assodat
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