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Info sull'Opera
Autore:
Federigo Tozzi
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Con gli occhi chiusi - 4

di Federigo Tozzi

Qualche volta, cantavano. Ma Domenico usciva dalla cucina tenendo un ramaiolo di brodo. Tutti alzavano le mani: - Fermo! Fermo! Ce ne andiamo!
Gli alterchi erano radi; e, quando avvenivano, l'amicizia era rotta per poco tempo. Di solito, non s'insultavano direttamente; ma uno alla volta, a vicenda, si rivolgevano agli altri esponendo la cosa come un racconto; da prima a bassa voce, poi con veemenza e con bestemmie, battendo i pugni, alzandosi da sedere.
Quasi, le mani dei contendenti si toccavano; allora qualcuno diceva: - È vergogna; anche per chi ci sente!
Anna non si teneva più; e la sfilata delle bestemmie era interrotta, finalmente, da un grosso boccone inghiottito.
Adamo, con piccole nervosità da femmina avvezzata male, quando diceva a Domenico che lo servisse bene, quasi si raccomandava. Dopo averlo guardato in viso, si volgeva da una parte, aspettando, sempre con la paura che parlassero male di lui in cucina; poi, assaggiata due o tre volte la pietanza, se era a modo suo respirava meglio, sputacchiava e si decideva a mangiare. E, tornatagli la gaiezza, era primo lui a svegliare Giacomino, mettendogli una buccia di mela nel collo. Anziano, basso e corpulento, con i baffi sempre in bocca, cambiava d'umore come un ragazzo. Anzi, chiedeva scusa dell'inurbanità del momento prima, battendo insieme le dita sopra il tovagliolo, tamburellandole, con la testa in avanti e bassa. Si stropicciava le guance con il dorso della mano, silenzioso, con il sigaro in bocca, biascicandolo e facendolo girare tra le labbra. Era capace di mettersi ad ascoltare una lunga conversazione fatta nella stanza accanto; per dirne, con una frase sola o con un sospiro, la sua opinione. E, se per caso gli avessero risposto, si rifaceva pensoso, fumando a boccate più lunghe.
Giacomino, anche mangiando, appoggiava la testa alla mano, tirandosi con le dita i capelli vicini alla nuca.
Bibe metteva il mento sopra il pugno chiuso, in proda alla tavola, e stava così con gli occhi giù, divertendosi ad ascoltare, senza veder nessuno; e allora alzava, una per volta e piano, le punte dei piedi, battendole in tempo; finché qualcuno, presolo per i capelli ricciuti, non gli facesse volger la testa.
- Dio! Mi fate male! Che divertimento c'è?
- Hai sonno, bestia?
- Poco no.
E raccontava perché non aveva avuto tempo di dormire abbastanza. E sorrideva, tra il sonno.
Volevano sempre gli stessi posti: Adamo in un angolo, perché così spuntava a piacere; Giacomino sotto la finestra; Bibe il più giovine, sul canapè: perché ci si tirava in dietro a modo suo, magari addormentandosi quando non gli davano fastidio.
Si riabbottonavano i calzoni, si riagganciavano gli scheggiali, sputavano, s'urtavano, si scapaccionavano, si tiravano i baffi e pagavano il conto andando, a uno per volta, dinanzi al bugigattolo di Anna.
E Pino? Pino, il vecchio barrocciaio di Poggibonsi, era il più povero. Gridava, per ridere: - C'è posto anche per me?
Tutti glielo facevano, non per cortesia, ma perché lo credevano pieno di pulci. Egli se ne avvedeva, ma non osava dir niente: brontolava un poco tra sé; e, siccome dovunque era trattato così, non se la prendeva.
- Mezzo posto mi basta a me. Non sono un signore io! Ah, come mi dolgono le ossa!
Un occhio non gli voleva stare aperto, e le palpebre battevano insieme come fanno quelle delle civette. Girava quell'altro occhio per tutta la stanza, lentamente; ricominciando sempre da capo. Si guardava bene le mani, per far capire agli altri che aveva pensato a lavarsele; e in fatti se l'era lavate nel secchio del suo cavallo mezzo stronco come le stanghine del barroccio, rinforzate con parecchie avvolte di funicella e di filo di ferro. Quanto tempo gli faceva perdere quel lavoro riaccomodato tutti i giorni!
Si stropicciava gli occhi con un dito, con il viso ridente senza sapere perché: la sua bocca, con quel sorriso, pareva larga il doppio.
- Ridete voi, eh, boia! Che avete rubato oggi? Si piglia la roba delle commissioni e poi dice che l'ha persa per la strada.
- Io? Oh, poverino! Una volta lo facevo così, ma ora no.
Strascicava la voce con un accento, che sembrava sincero benché malizioso. E poi: - Ho due figliole, a casa, da maritare! Son belle da vero, a dirvela in un orecchio. Ma la mia moglie è già ridotta come una balla di cenci unti, che non si piglierebbero né meno in mano. Ci ho quelle due figlie, povere bambine! O che devo fare io per loro?
Tutta la sua fisionomia pigliava una bontà umile ma ostinata; e, cosa strana, le sue guance, tra il pelo della barba rada, erano delicate come quelle di una donna.
Egli non ordinava, ma Domenico gli sceglieva tra la roba del giorno innanzi e gliene faceva un piatto solo. Lo pigliava per la tesa del cappello, quasi gli ci faceva battere il naso: - Senti come ti ho servito?
- Sì, avete ragione, è stantia, ma non puzza tanto.
Adamo e Giacomino gli buttavano fette di pane o mezze frutta. Egli, senza guardarli in faccia, se le radunava più vicino, quasi avesse voluto metterle sotto il tondo del piatto, con ambedue le mani.
- Oh, oggi sto meglio!
Salutava con molto rispetto Anna, aspettando che gli rispondesse: e, certo, non si sarebbe messo a sedere prima. Tanto che Anna, quando se n'era dimenticata, doveva dirgli: - Mettetevi a sedere!
- Ah, mi ci posso mettere? Credevo di dar noia oggi! Sono tanto stanco!
E aspettava, tenendo le mani insieme.


La mattina, ciascuno prendeva la colazione quando ne trovava il tempo, dopo aver terminato le faccende; ma la sera, mangiavano tutti insieme. Domenico a capo di tavola, Pietro tra lui e Rebecca. In faccia al padrone, il cuoco; e, dall'altra parte, i due camerieri; lo sguattero si sedeva a un piccolo tavolo, che serviva anche per tenerci sopra i piatti e le posate: di traverso, per non voltare le spalle agli altri. Anna restava nella sua poltrona, perché così poteva vedere se entrasse in quel frattempo qualche cliente.

Il cuoco era andato su l'uscio di cucina a fumare una cicca, appoggiandosi al muro con le spalle e con la testa; la cantiniera portava i piatti; e lo sguattero, saltando come un ragazzo, corse a dire allo stalliere che attaccasse il cavallo.
Domenico bevve un altro bicchiere di vino; poi tolsesi la dentiera per pulirla con la salvietta, di nascosto, tenendo le mani sotto la tavola.
Anna, per cucire, prese una camicia.
Finalmente, Domenico con un colpo del suo tovagliolo si levò le briciole da sopra i calzoni; si fece spolverare da Rebecca e untare le scarpe da Tiburzi, dando nel frattempo qualche ordine. In punta di piedi andò dietro il figlio che tamburellava con le dita sopra un vetro, accompagnando il mugolìo della sua voce a bocca chiusa; gli dette una manata sul collo, e disse: - Vieni in campagna con me.
Pietro, senza rispondere niente, saltò sul legno già attaccato; e furono a Poggio a' Meli poco prima del tramonto.
Ghìsola, sbucando da una cantonata della capanna, lo vide solo e fermo, con le mani in tasca, nel mezzo dell'aia; e lo rimproverò, seria: - Che cosa fa qui? Perché non è venuto prima? Una volta non le pareva vero. Ma non m'importa!
E aggiunse: - So quel che vuol dirmi.
Egli pensò: «Sì, lo sa. Gli altri sanno tutto di me. Io, no».
Quella sua vita interiore che si sovrapponeva sempre! Come si disperava di poter gustare soltanto dopo, e nel silenzio di se stesso, quel che aveva provato e non detto! E si giudicava perciò inferiore agli altri. Parlava bene con Ghìsola soltanto quando se lo immaginava, specie appena desto.
E divenne più vergognoso. Il colletto gli dava fastidio al mento.
Ghìsola lo guardò come se proprio ci ridesse anche lei; e allora egli si mise a picchiare calci a un ulivo, che era lì, perché ella smettesse. Ma quando risollevò gli occhi, Ghìsola lo guardava ancora più fisso, con la bocca ridente, per burla: non c'era più dubbio!
Il sole tramontò tutto; e un brivido passò sopra Pietro, che non poté più sopportare quel sorriso; volendo perfino dimenticare d'averlo visto. Si rimise a testa bassa, pensando che avrebbe dovuto capire perché non gli piaceva.
Ghìsola si riavviava i capelli, tenendo in mano le forcelle per fargli vedere che erano nuove; e, prima di rimettersele, con una alla volta gli bucò le mani. Ma egli non si mosse.
Si vedevano, fitti, piegarsi i fili d'erba in cima ai quali saltavano gli insetti.
Mentre Ghìsola lo bucava, Pietro pensò: «Certo sa quello che voglio. Ma bisognerebbe che glielo potessi dire: è necessario».
Le sue calze rosse gli facevano coraggio; ma, non potendo pronunziare nessuna parola, si avvicinò di più a lei quasi tremando.
Tra gli olivi ci si vedeva appena; e la terra era già bruna.
- Che vuole? Me lo dica di costì. Non venga in qua troppo.
Ghìsola s'accorse che non distoglieva gli occhi dalle sue calze; ma con la sottana troppo corta non poteva nasconderle.
- Lo sai?
Il volto di lei divenne dolce e pudico.
- Lo sai? Dimmelo.
Ella si coperse di un rossore, che le cambiò la fisionomia.
- Lo so.
E siccome si faceva sempre più vicino, lo allontanò con le mani magre e dure.
Pietro era così ebbro che quasi vacillava. Gli occhi di Ghìsola lo fissavano sempre: vedeva soltanto quegli occhi; e credette che tutta l'ombra dietro a lei e il campo insieme si muovessero secondo i suoi gesti.
- Mi lasci, ora! Ci parleremo un'altra volta... un'altra volta, ho detto!
Gli parve che la sera gli togliesse la carne, lo facesse sparire.
Ghìsola sussurrò: - Le voglio bene.
E scappò dalla parte opposta della capanna: il padrone s'incamminava verso l'aia, con le sue scarpe enormi, respirando forte e alzando e abbassando un poco il capo. Pietro continuò a starsene lì, sbocconcellando, con un sasso che s'era ritrovato in tasca, la cantonata della capanna. Si sbucciava le nocche, ma non sentiva niente.
Domenico lo guardò; e si mise a ridere con Enrico, l'assalariato che lo seguiva.
- Sei matto oppure no? Che ci fai costì, a sciupare il muro?
E, poi, all'assalariato: - Quell'altra cialtrona, al meno, è scappata a tempo!
- Oh, ma per ora son tutti e due ragazzi! Io credo che ruzzino sempre.
Li difendeva supponendo che il padrone ci avesse piacere per Giacco e Masa. Ma Domenico, contento di poterlo contraddire con la sua autorità, rispose: - Io me ne intendo più di te. Stai zitto.
Enrico convenne, allora: - Comincerebbero presto!
E inghiottì, come faceva sempre dopo aver parlato.
Pietro s'era impaurito del rimprovero; e già aveva dimenticato Ghìsola; sebbene gliene rimanesse un fascino troppo forte per lui. S'incamminò verso il padre, che voltava il cavallo alla strada, menandolo per la briglia.
- Sali su.
Egli obbedì, cercando di pulirsi le mani terrose; e non guardando in volto nessuno.
Il cavallo non voleva star fermo dinanzi al cancello aperto; e allora Domenico cominciò a sferzarlo sopra i ginocchi. La bestia si trasse in dietro, alzando le gambe anteriori; il calesse urtò contro il muro.
- Sta' fermo. Devi imparare. E se non impari...
E gli dette una sferzata.
- Se anche tu non impari a fare il tuo dovere...
E gli dette un'altra sferzata.
- Te lo insegno io. Devi star fermo.
Voltò la frusta e gli batté il manico sulle frogie; il cavallo scosse la testa, e Pietro fece l'atto di scendere.
- Tu stai al tuo posto. Se scendi, frusto anche te.
Tutti gli assalariati guardavano inquieti; ed erano impazienti che il padrone se ne andasse perché temevano che se la prendesse anche con loro, trattandoli male, pensando magari di poterli bastonare.
Il cavallo si fermò.
Domenico dette la sferza a Pietro, e si riabbottonò la giubba dinanzi alla bestia: - Bada che io voglio essere obbedito! Non vedi che stai fermo? Ora farò tutto il mio comodo, e poi salirò.
E, per farne la prova, si sbottonava e si riabbottonava la giubba, interrompendosi quando la bestia smuoveva la testa. Affibbiò meglio una delle redini, e salì; fermandosi con un piede sul montatoio; poi, prendendo lo slancio, con le mani attaccate al calesse, si buttò accanto a Pietro, a cui gridò: - Vai più costà.
Pietro era così imbarazzato che non si mosse.
- Ma vai in costà, imbecille!
E, subito, agli assalariati: - Fate il vostro dovere, altrimenti vi mando via tutti. Domani quelle prese devono essere vangate.
- Sissignore.
- Non dubiti.
- Se non fossimo capaci a vangarle in quanti siamo e in tutto il giorno!
- Almeno che non piova!
Il padrone guardò quello che aveva detto così, con l'aria di avventurarglisi addosso; e disse con voce che pareva uno scalpello percosso sopra una pietra: - Se piove, tramuterete il vino. Tu, Giacco, consegnerai le chiavi del tinaio; le hai a posta.
- Sissignore. Come vuole.
Finalmente, si ricordò della trattoria; guardò l'orologio e vide che non poteva più indugiarsi. E allora li lasciò.
Il tramonto era stato rapido e pieno di quelle nuvole che portano la pioggia. Pietro teneva le mani in tasca, pensando che avrebbe fischiato se fosse stato solo. Pareva, nell'oscurità, che le gambe del cavallo battessero insieme. Domenico guidava, irritandosi perché non aveva imposto ai contadini di aprire le buche per gli olivi. Temendo che i suoi ordini non fossero eseguiti con precisione, con l'animo ansioso, gli pareva di seguire quel che facevano; e si struggeva di non essere sempre accanto a loro. Talvolta, per la voglia di sorprenderli, diveniva smanioso e anche più violento.
Pensò di tornare a dietro per assicurarsi che nessuno era rimasto a perder tempo nel mezzo del piazzale, magari a parlare di lui. Guardò le nuvole, e gli venne voglia di frustarle, per rimandarle giù.
Intanto un sogno cupo aveva invaso Pietro: il cavallo era trascinato, all'inverso, con il calesse, dentro una spalancatura interminabile della sua anima.
Ad un tratto, con un moto improvviso e involontario, dopo aver sentito il sapore della propria bocca, sospirò; e mosse la testa innanzi, quasi fosse per cadere.
Domenico gridò: - Che hai?
Credette che avesse sonno e gli voleva dare un pugno.
I cipressi di Vico Alto tagliavano l'aria. La Porta Camollia era rossiccia e si vedeva di lontano il primo dei lampioni accesi dentro la città.
Gli alberi del viale, su la balza della ferrovia, si muovevano silenziosamente con tutte le fronde dinanzi ai monti di un violetto limpidissimo: l'Osservanza era dolce.
Di là dai tetti della Via Camoglia, la cima del Mangia era bianca, quasi splendente, su nel cielo; ma la sua campana, con l'armatura di ferro, più nera.

Quando Anna aveva avuto le convulsioni, restava tutto il giorno stesa nella poltrona; dentro la trattoria. Il suo volto doventava bianco; e Rebecca, assistendola, le slacciava il busto. Ma siccome i cuochi e i camerieri avevano sempre qualche cosa da chiederle, ella riapriva gli occhi, guardava fisso; e poi, scuotendosi tutta, rispondeva. Perché il marito non s'inquietasse di più, non voleva andare a letto. Ma in quei momenti sentiva una grande angoscia, perché era incapace di badare a Pietro.
Le sembrava di non appartenere più alla vita, di non avere mai fatto niente per lui. E allora quella specie di quiete, che le dava l'agiatezza, era sempre sciupata dal ricordo della sua miseria. Ella diceva: - È impossibile esser contenti come vorremmo!
E la stanchezza di esser vissuta era così amara che aveva paura di non sentirsi più buona. Il sentimento della morte le era sempre presente, e non le bastava credere in Dio.
Ella si metteva a guardare Pietro con questo sentimento, e ne provava uno sconforto che le faceva perfino paura.
I suoi nervi scossi dalla convulsione le prolungavano un senso indefinibile di dolore desolato; perché era avvezza a dover guarire da sé, senza sentire mai che gli altri potevano farle qualche cosa.
Ma sperava di guarire, non perché credesse al medico, ma perché aveva Pietro.
Ella non gli sapeva parlare; capiva ch'egli cresceva senza che riuscisse a farselo proprio suo, a dirgli almeno una di quelle parole che avrebbero dovuto consolarla. Anche quando l'aveva vicino, restavano come due che avessero l'impossibilità d'intendersi.
Pietro evitava sempre di farle sentire che le voleva bene, per paura di doventare troppo obbediente; ed ella si disperava troppo e senza ragione di qualche sua scappata. E perciò Pietro temeva quando gli aveva tante cure. Mentre ella, non avendogliele potute fare, cercava un'altra volta d'imporgliele.
- Tu non rispetti la mamma!
Egli, allora, si esasperava; svignandosela senza né meno ascoltarla.
Anna ci piangeva, dicendolo a Rebecca; che le domandava, con un mezzo sorriso: - Ma perché se la prende così?
E siccome glielo aveva allattato e desiderava che fosse affezionato anche a lei, ci sentiva quasi piacere. Ma Anna, mai accortasi di questo, rispondeva: - Non lo devi scusare tu!
- Io?
E Rebecca era per offendersi.
Quando poi Pietro la vedeva piangere, credendo che fosse cattiva, gli veniva voglia di far peggio.
Anna consigliava Rebecca e Masa come dovevano educare Ghìsola: era, però, una bontà da padrona; perché così anche lei dipendeva di più dalla sua volontà. Benché le avesse da vero certi riguardi delicati, come quando diceva a Masa che non la facesse lavorare troppo; e come quando, per capo d'anno, pensava sempre a regalarle un vestituccio nuovo, comprato su quei barroccini di merciai che si fermavano all'uscio della trattoria.
Ghìsola, allora, le portava un mazzo di fiori, che, per averli, andava magari a rubare; e le faceva gli augurii.

I compaesani di Domenico, quando andavano a Siena, mangiavano sempre alla sua trattoria; portandogli i saluti e le notizie dei parenti, e magari una fazzolettata di frutta.
Uno di costoro, volendo che il suo figliolo Antonino imparasse a fare il muratore, come a Civitella non avrebbe potuto, gli chiese che lo affidasse e lo raccomandasse a qualche bravo capomastro. Domenico, i giorni di festa, lo invitava a stare con Pietro; e così ambedue i giovanetti, ch'erano quasi della stessa età, dovettero doventare amici, sebbene non andassero d'accordo; ed Agostino, che aveva antipatia per Antonio, fu sostituito.
E siccome, per passeggiata, soli, arrivavano quasi sempre, come voleva il trattore, a Poggio a' Meli, dopo qualche mese Antonio si vantò di aver parlato di nascosto con Ghìsola. Ed era vero; ma Pietro, da prima, suppose che mentisse, con una delusione violenta, con un dispiacere che pigliava tutto il suo amor proprio. Un amico non doveva mentire. Che aveva detto a Ghìsola? E perché le aveva parlato senza avvertirlo?
Quale umiliazione provava quando gli altri non rispettavano i suoi sentimenti e obbligavano la sua anima a disfarsi!
Gli altri facevano di lui quello che volevano, e a lui si stringeva la gola dall'emozione. Arrossiva, si sgomentava; sentivasi perso. E nessuna cosa era adatta per lui: le strade troppo faticose, il sole troppo caldo, gli abiti tagliati male, le mani troppo grosse; affannandosi a non riflettere a ciò, di convincersi del contrario; stordendosi; mentre gli orecchi gli rombavano, e credeva di dover cadere da un momento all'altro.
Gli sembrava che la sua faccia non fosse capace a nascondere la lealtà troppo aperta e ostinata; provandone una violenza che gli dava il malessere. Si sentiva debole sotto il suo spirito affannato, che egli stesso voleva cambiare.
Una domenica, tra le altre, tornò con Antonio a Poggio a' Meli; perché aveva scommesso di farlo passare da bugiardo dinanzi a Ghìsola. Ma si vergognava di dirgli quel che soffriva dentro di sé; e sentivasi così da meno del suo amico che gli pareva di statura anche più alta del solito.
Già, camminando, s'erano bisticciati, picchiandosi su la schiena; ed egli aveva piuttosto voglia di smettere e di piangere, disperato che l'altro, invece, ci si divertisse.
Antonio, avvedendosi facilmente del turbamento di Pietro, gli gridò: - Vedrai se non è vero!
Pietro non rispose più: e l'amico soggiunse: - Le parlai anche l'altro giorno. Ha promesso di voler bene a me e non a te.
E, per troncar corto, gli dette un pugno; ma Pietro se lo riparò con una mano.
Antonio, sempre più sicuro, seguitava a ripetere: - Tu non ti avvicinerai a lei
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