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Info sull'Opera
Autore:
Federigo Tozzi
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Con gli occhi chiusi - 6

di Federigo Tozzi

E questo battibecco doventava sempre peggio. Domenico, una volta, ormai alla fine dell'inverno, gl'impose: - Vattene.
Pietro arrossì, ma disse: - Che me ne importa di lei?
La guazza aveva come appastata la terra delle fosse nuove. Quanche uccello volava di traverso, tutto inclinato da una parte. Tra i cipressi si vedevano le montagne, che sembravano soltanto lunghe strisce di colore ancora umido.
Le lapidi erano coperte di chioccioline grigie. La Cattedrale si faceva sempre più bianca; e Pietro si accorse, guardandola, d'esser pieno d'ira.
Incontrarono la vedova al cancello; e Domenico la salutò. Ella rispose senza né meno voltarsi; ma badando a Pietro con la coda dell'occhio. Domenico si fermò, e disse come tutte le altre volte: - Ora va alla tomba del marito.
Tutti la conoscevano soltanto di vista, e Domenico non ne sapeva più degli altri. Tornando dal cimitero, dove pregava almeno una mezz'ora, faceva la spesa; e nessuno, fino alla mattina dopo la rivedeva più.
Era bassa e grassa; e, camminando, le rimbalzava il seno quasi sorretto dalla sporgenza del ventre. Il suo cappello, troppo piccolo, era tenuto fermo con un elastico nero che le girava dietro gli orecchi e sotto la gola. Ad ogni passo, una sua vecchia piuma verdognola si scuoteva come se ricevesse un colpo. Tra i capelli, radi e tirati con forza, con una forcellina, si vedeva la nuca untuosa e rossiccia come pelle d'oca. Era vestita, chi sa da quando, allo stesso modo; forse, non per miseria.
Domenico, dopo averla seguita con gli occhi, chiese al figliolo: - A che pensi?
Pietro sorrise, e disse: - Io? A niente.
- Perché, dunque, stai con la testa bassa?
- Non me ne accorgo, lo sai?
- Così tu sei brutto, mentre io ti avrei messo al mondo simpatico. E a scuola perché ci vuoi tornare? Non ti sei fatto mandar via?
Domenico gli parlava della scuola con risentimento e in quei momenti creduti da lui più opportuni a influire sul suo animo.
Il giovinetto tacque, sentendosi come svenire: il padre non si sarebbe mai dimenticato di fargli questo rinfaccio, per valersene!
E, vedutolo confuso e mortificato, riprese: - Potresti aiutar me, e tra qualche anno prender moglie.
Domenico trovava conveniente ammogliarlo presto, ora che non c'era una padrona nella trattoria; e più di una volta gli aveva misurato con un'occhiata l'aspetto e la statura; per convincersi che non era presto; per quanto avesse soltanto sedici anni.
- Io... non mi sposerò.
- E, allora, pensaci bene: sarò costretto a riprenderla io. Ti dispiacerebbe?
Pietro esitò; ma, per non esser distolto dalla voglia di tornare a scuola, chiese: - E chi sarebbe?
Il padre, per provare il suo vero sentimento, rispose: - Te lo farò sapere presto.
E lo guardò. Ma Pietro ne aveva parlato come di cose altrui; e aggiunse: - Mi hanno detto quella signora... che ha due figlie. La signora... che venne a mangiare anche ieri l'altro.
Si trattava di una ciarla, e basta. Domenico riprese: - Sarebbe meglio che sposassi tu una di quelle.
- Io?
Arrossì un'altra volta, perché gli parve una cosa troppo sopra a se stesso; quantunque lo agitasse un poco.
- T'insegnerò quella che mi piacerebbe per te.
Egli rise: - Ho capito: la minore.
Ma Domenico non rispose più, già pensando che la sera avanti si era dimenticato di mandare a dire ai suoi assalariati che portassero alla monta le vacche.
- Se non rispondi, perché ne abbiamo parlato?
Si arrischiò a chiedere Pietro. Ma Domenico gridò con collera: - Tu non sei in grado d'immischiarti in quello che faccio io. Darei da mangiare anche alla tua moglie? Se non la finisci! Vedi: dovresti andare a Poggio a' Meli!
E, come faceva ad ogni occasione, trasse dal taschino del panciotto una piccola corona nera, che teneva lì con alcune sterline d'oro; e disse la solita frase, dopo avergli quasi toccato la fronte con la croce: - Vedi? Questo è il ricordo della mia povera mamma Gigella. Io la porto sempre con me. Non mi dette altro, quando la lasciai per venire a Siena. E tu che cos'hai che ti ricordi la tua mamma?
Ma, accortosi che ora, a sua volta, Pietro non lo ascoltava né meno, s'inquietò; gli pareva impossibile che un figliolo facesse così! E dire che aveva avuto intenzione perfino di mettergli il suo nome, tanto doveva assomigliargli, appartenergli!
Quasi l'avrebbe preso con le mani, per stroncarlo come un fuscello! Proprio il figlio sfuggiva alla sua volontà? Non doveva obbedire più degli altri, invece?
Ad un tratto, come un'insinuazione a tradimento, capì che anche egli era come un'altra persona qualunque.
E, allora, sarebbe stato meglio che non gli fosse nato. Perché gli era nato? Meglio non parlargli più, sopportando che camminasse accanto, in silenzio, magari a testa bassa, fino a batterla sul lastrico.
Pietro portò le chiavi della bottega ai camerieri che lo attendevano nella strada; ed entrò con loro anche lui; ma, senza la voglia di restarci, come avrebbe dovuto, salì in casa. Domenico gli aveva dato le chiavi evitando che i loro occhi s'incontrassero; e, fatta tutta la spesa, lo mandò a chiamare perché aveva lasciato i sottoposti soli.
- Tu non saprai mai essere un padrone. Come farai a comandare se tu stesso non impari?
Ora parlava con il figliolo per sfogarsi; e il suo rimprovero era pieno di bontà. Poi, presi in mano tutti i mazzi degli uccelli da cuocere allo spiedo, gli disse: - Questo è un tordo, e questa un'allodola: aiutami a pelare.
E si sedé dinanzi a un gran paniere, dove andavano le penne. Ma Pietro era così distratto che canticchiò un poco, sottovoce; e poi rispose: - Se tu sei contento, vado a leggere un libro.
Domenico finì d'infilare in uno spiedo gli uccelli già spennati, pose in ordine il girarrosto; poi gli chiese: - Che libro è?
- Quando te l'ho detto, non capirai lo stesso.
Domenico, tenendo una mano alzata, sentenziò con la sua aria di padrone: - Io me ne intendo più di tutti gli scienziati, perché sono tuo padre. Nessuno meglio di me sa quello che ci vuole per te.
E si mise la mano sul petto, come per confermare che diceva la verità; sul grembiule tutto insanguinato e impennato. Poi andò al fornello, spezzò con la paletta la brace grossa; prese per le spalle Tiburzi, e lo piegò alla buca del carbone, gridando: - Non vedi da te che c'è più fuoco?
Domenico, ormai, non pensava più a Pietro; ma, quando lo rivide lì, gli s'avventò con il pugno chiuso: - Vattene!
Pietro stette fermo, e abbassò la testa; guardando da sotto in su.
Il movimento trafelato dei cuochi, continuamente stimolati e ripresi anche con male parole e con spinte da Domenico, che in un'ora voleva sempre preparare tutte le pietanze, non riusciva a toglierlo da quelle distrazioni.
Già la violenza del trattore aveva fatto tacere tutti; e nessuno poteva fare a meno d'obbedire, magari sbagliando anche di più. Ma quando egli entrò in un bugigattolo buio per attaccare da sé agli uncini i pezzi di carne che voleva lasciare cruda, Guerrino si volse subito a Pietro, mettendo la lingua tra i denti, perché si ricordasse di una sua barzelletta raccontata la sera innanzi. Tutti sorrisero, senza smettere di lavorare. E Pietro disse sottovoce: - Raccontamene un'altra.
Il cuoco, sdrucciolando in una fetta di codenna, gli fece un altro gesto per fargli capire d'aspettare. Tiburzi, con la giacca turchina, che sopra la legatura del grembiule gli si gonfiava in tante pieghe, vigilava girando gli occhi, senza smuovere la testa; ilare e pestando i piedi dalla contentezza, con le braccia nell'acqua tiepida delle zangole untuose e piene di piatti da lavare. Egli aveva un gozzo duro e giallastro, come gli ci fosse rimasta una pietra; uno di quei gozzi da galline satolle.
Ma Domenico, che parecchie volte fingeva appunto di non udire e di non vedere per conoscere meglio i suoi sottoposti, rientrò dicendo: - Ghìsola ha avvezzato male anche te!
Pietro, impaurito e sorpreso, domandò: - Perché?
Tutti gli si volsero, con allegra curiosità.
Come la incolpava? Qualcuno certo gli aveva fatto bevere cose non vere! Ecco perché l'aveva rimandata a Radda! Ma egli n'ebbe invece simpatia; contro l'ingiustizia con la quale la dileggiavano; e desiderò di rivederla. Ma perché tutti lo guardavano con malizia, ridendo e divertendocisi? E perché suo padre era così convinto di quel che aveva detto? Rimase con i diti appuntellati sul tavolino, afflitto.
Ora era un giovinetto magro e pallido, con il vizio di tenere una spalla più su dell'altra. Vestiva male, con un cordoncino rosso al colletto sempre sgualcito e sporco; i capelli biondi, gli orecchi troppo larghi e discosti dalla testa; gli occhi di un celeste chiaro chiaro e come se egli avesse qualche cosa da difendere. Il volto con un'animosità ingenua e malinconica, ma sicura e risoluta; quasi imbarazzante e spiacevole.
Talvolta, a giornate intere, sembrava malcontento; ma, se gli parlavano, doventava subito tranquillo e affabile. Tartagliava meno.
Quel che provava dinanzi alle cose rimaneva indefinibile, ed egli ne soffriva. La primavera era come una violenza. Leggere, allora, un libro sotto qualche albero! Interrompeva la lettura a mezze pagine, a caso, per alzarsi in piedi e tirare fino alla faccia un ramo, quasi per farsi accarezzare. Ma avrebbe voluto chiedergli il permesso; guardando dinanzi le colline ricoperte di chiome candide e spioventi, mandorli e peschi, che pendevano da qualche parte, come se dovessero spargersi a terra. E, assicuratosi che nessuno lo avesse scorto, sospirava ricominciando a leggere. Non aveva trovato ancora il libro per la sua anima. Talvolta non leggeva più, perché gli pareva di vedere di là dalle pagine che doventavano come trasparenti e sfondate.
Se un insetto, salitogli su per i calzoni, giungeva sopra il libro, smetteva anche allora.
Qualche uccello entrava tra le rame in fiore, con il movimento e la forza di un ago infilato; come se le fronde si fossero aperte e poi richiuse per lui.
Anche prima che Anna morisse, non voleva andare in chiesa; ed ella non riusciva quasi mai a farlo pregare. Ormai si sentiva ateo. Bestemmiava, perché non voleva avere i pregiudizi dei preti. E Domenico ne dava tutta la colpa a quei maledetti libri della scuola.

Domenico faceva castrare tutte le bestie di Poggio a' Meli; e gli assalariati ci si divertivano, con un'ironia che Giacco e Masa credevano per la loro nipote: - È bene: così non si muoveranno da casa! E poi ingrasseranno di più.
Qualche volta ci erano dieci o dodici galletti accapponati, mogi, che beccavano di mala voglia, con le penne insanguinate; nella stalla, i vitelli intontiti dalla castratura, afflitti, con gli occhi più oscuri e tetri.
Il cane disteso su l'aia, i gatti silenziosi e immaligniti, rincantucciati sotto il carro e dietro le fastella, con gli occhi sempre aperti.
Ora, ad una gatta, fece scegliere soltanto un maschio, per tenerlo alla trattoria. Il castrino lo prese e lo mise con la testa all'ingiù dentro a un sacco stretto tra le sue ginocchia; e con un coltellaccio tagliò di colpo. La bestia fu per restare lì dentro, arrembata; poi, miagolando, saltò e sparì non si sa dove.
- Ecco fatto. S'è ricordato tardi di miagolare!
- C'è voluto poco da vero!
E risero, ammirando.
Domenico, tenutosi alquanto discosto, anche per esagere il ribrezzo, disse a quell'uomo: - Quanto devi avere?
- Una lira. È troppo?
- Una lira?
Mi dia quello che vuole. Tanto con lei bisogna fare a modo suo.
Gli era rimasta la bocca storta dopo un attacco di paralisi; e i suoi occhi cisposi lagrimavano sempre.
- Ti dò mezza lira; e verrai a mangiare un piatto di spaghetti alla trattoria.
E gli contò i soldi.
L'uomo li tenne un momento nel palmo della mano, quasi pesandoli; poi, facendo una smorfia di scontento malizioso, se li cacciò in tasca dopo aver guardato che non fosse rotta.
- Almeno che gli spaghetti siano abbondanti!
E girati gli occhi attorno agli assalariati, che si erano riuniti per far colazione, toccò il ventre di Domenico; dicendo: - Ecco come ingrassano i ricchi!
Ma gli assalariati fecero finta di non udire; e Carlo si mise una mano su le labbra. Pietro chiese: - Dove sarà andato il gatto? Vuoi che vada a vedere?
- Lascialo fare, quando avrà fame tornerà.
- Non morirà mica? - domandò al castrino.
- È impossibile: si lecca la ferita finché non è rimarginata. Per medicarsi sono più bravi di noi!
E parlarono delle altre castrature, specie di quella di Toppa; che abbassava la coda tra le gambe e ringhiava quando gli altri cani gli si avvicinavano. Tutti s'erano voltati verso la bestia, che s'allontanò come se avesse capito. Ma tornò subito a dietro, perché gli assalariati mangiavano, chiacchierando dai loro usci aperti l'uno di fronte all'altro sul piazzale; mentre le donne terminavano le faccende di casa.
- Attingimi una brocca d'acqua, Adele! - disse Carlo avanzandosi da dove era.
Ella obbedì; e lasciò la brocca sul pozzo mentre la molla della catena oscillava ancora.
Le avevano tenuti gli occhi addosso; e poi, ad uno per volta, bevvero e intinsero le loro fette di pane duro.
Muovendosi per il piazzale, si scambiavano le opinioni relative ai loro lavori campestri; attenti quando il padrone, andato a vedere le vacche, tornasse.
Pietro stava in mezzo a loro, divertendosi a vederli masticare: qualcuno, per non sprecare le briciole, arrovesciava indietro la testa, e si metteva in bocca il pane con il palmo della mano.
Carlo era un uomo grasso e robusto, quantunque l'inverno soffrisse di doglie alle gambe. La sua camicia di lino grosso era sempre la più pulita. Ma puzzava di concio; e il fiato gli sapeva d'aglio e di cipolle, di cui era ghiottissimo: ad ogni morso, guardava i segni dei denti nel pane.
Il castrino, stimandolo da più degli altri, prima d'andarsene, gli mostrò tutti i soldi riscossi: - Li vedi? Son come noi uomini: chi è fatto in un modo e chi in un altro. Questo è stato battuto con il martello, e appena si conosce com'è. Quest'altro è piegato, come se uno è zoppo; quest'altro lo volevano bucare, come se tu dài una coltellata a qualcuno o la dànno a te; e questo è consumato tanto che pesa metà; è un povero come me; e me lo beverò per il primo, perché non mi ci faccia pensare. A rivederci.
Sputò e bestemmiò.
Carlo a pena gli rispose. Poi disse, quando non poteva più essere udito da lui: - Voleva far colazione con il mio pane. Ma non gli è riuscito.
E guardò verso la sua casa, dov'era la madia ancora aperta.

Erano passati tre anni; e Pietro aveva preso la licenza tecnica. In fatti, rimandato a scuola, dopo molte difficoltà e non poca diffidenza, s'era impegnato a studiare.
Passava tutte le ore libere con i compagni; e Domenico permetteva perfino che entrassero a prenderlo dentro la trattoria.
Ma fu il tempo ch'egli cominciò a conoscere le donne. Vi andava di nascosto; e, per procurarsi i soldi, vendeva i libri e qualche oggetto che riesciva a portare via di casa senza che Domenico se ne accorgesse: un servito di maiolica, alcuni medaglioni di pietre buone e perfino un antico ventaglio d'avorio e di seta. Poi ne rimetteva le chiavi sotto un tondino di lana, che faceva da posalume.
Uno dei lavoranti a giornata, che Domenico teneva a Poggio a' Meli, s'innamorò di Rebecca; e fece capire che l'avrebbe sposata volentieri. Il Rosi che da qualche tempo aveva fatto venire, sempre da Radda, un'altra nipote di Rebecca, cugina di Ghìsola, pensò che poteva dare il consenso; facendo prendere alla nipote il posto della zia. Fornì lui la dote e molte altre spese; e, per di più, pigliò cameriere il marito.
Dopo la morte di Anna, Rebecca aveva seguitato ad essere in buoni rapporti con il padrone; ma questa nipote, Rosaura, l'aveva ben presto surrogata; e zia e nipote, finché non avvenne il matrimonio, leticavano anche dentro la trattoria; con grande paura di Giacco e Masa, che non volevano compromettere il pane della loro vecchiaia.
Masa si nascondeva perché non la vedessero riposarsi sempre; temendo che l'avrebbero fatta licenziare, tanto più che del padrone si fidava poco anche lei, conoscendolo meglio degli altri. Sedendosi, alzava la sottana, rovesciava in giù le calze di cotone bianco, e grattavasi le gambe dove sentiva continui dolori.
Le altre donne, che guadagnavano lo stesso, se ne accorgevano; e perciò la invidiavano e le volevano molto male, chiamandola perfino ladra; ma per stare nelle sue grazie l'aiutavano invece.
Infatti Domenico continuava a benvolerla, perché lo teneva informato di tutto quel che facevano al podere.
Ma Giacco non chiedeva più le cicche a Pietro; anzi, creduto ch'egli si fosse fatto cattivo, arrivò al punto di maldolersene con il padrone, dicendogli che se non fosse stato lui, povero vecchio che tutti spregiavano, a Poggio a' Meli avrebbero magari rubato i mattoni dell'aia d'accordo con il suo figliolo.
- Non ha giudizio! Mi permetta di dirglielo... Mi scusi, anzi! E con me perché ce l'ha presa?
Domenico lo rassicurava alla meglio; ma non tanto, per calcolo. E, allora, egli facendo l'offeso che s'addolora, e mostrando d'aver parlato contro la propria volontà, taceva subito.
Qualche volta, toltosi il cappello e sbattutolo su le ginocchia, per farsi compatire, alludendo a Pietro, gridava: - Non ho fortuna io!
Ma non lavorava più con gli altri, facendo soltanto quello che prima toccava alla sua nipote; le gambe gli si erano piegate fino a battersi insieme; e sembravano raccorcite, come talvolta le funi di due campane vicine, se s'avvolgono tra sé.
Quando doveva parlare, la sua testa grossa faceva uno sforzo per star dritta su le spalle stremenzite e curve. Aveva un volto indefinibile, con la pelle paralizzata, con le rughe, simili a piccoli scheggiali, bruciate dal sole; tra cui si radunava il sudiciume untuoso. La bocca non si vedeva sotto i baffi arruffati e cascanti, che assomigliavano a pelo di bestia. Le congiuntive, di un colore gialliccio, gli si erano ispessite.
Prima di eseguire una cosa, si grattava la testa dietro gli orecchi, tenendo con l'altra mano il cappello alzato; come se avesse cercato di rifletter bene.
Quando il padroncino gli passava accanto, lo prendeva per una manica; chiedendogli: - Non mi parla più?
Infatti Pietro lo evitava perché non gli piaceva quel suo modo di fare doppio, che lasciava intravedere, senza ritegno, come potesse stimarsi anche da più di lui.
Rattenendolo, gli diceva con diffidenza, che avrebbe voluto sembrare affettuosa: - E pure io lo conosco fin da bambino, e l'ho tenuto anche sopra le ginocchia... È adirato con me, forse?
Procurava di far sorridere Pietro, per non convenire di aver parlato a vuoto. Ma ripigliava, cupo, quasi per convincere, con risentimento: - Perché non mi vuol bene?
Pietro non sapeva quel che rispondere, contento di vederlo quasi supplicare.
- E pure ho fatto sempre il mio dovere; e suo padre lo sa. E lo farò finché Dio mi terrà in piedi.
E allora la sua voce doventava quasi arrogante.
Il giovinetto aveva una specie di repugnanza per quella sua ostinazione certo esagerata.
Il vecchio lo guardava fisso; Pietro gli dava un'occhiata timida, divincolandosi.
Giacco procurava di sorridere; ma, vedendo la fisonomia di Pietro, non gli riusciva. Ma Pietro sentivasi liberato, anche perché poteva andarsene senz'altro.
Una volta gli domandò: - E Ghìsola?
L'assalariato si ringalluzzì tutto, intuendo quale poteva essere il mezzo per farsi benvolere dal padroncino; esitando, nondimeno, ad approfittarne.
- Oh, era tanto tempo che non ne parlava più!
- Ma dov'è?
Giacco, invece di farglielo sapere subito, perché avrebbe voluto dir tante cose, si grattò il petto. Da uno strappo della camicia si vedevano i capezzoloni, di sangue nero, con i peli lunghi, con i pori gonfi. Un filo, con un sacchetto di medagliuzze, sporco di sudore, gli stringeva il collo; facendoglici una recisa.
- È a Radda, io credo.
Rispose a voce bassa; e con il falcino indicò le colline del Chianti.
- Scrisse due mesi fa... Vede? Radda è là.
- Avete sempre la lettera?
- La prese la mia donna. Io credo che l'abbia conservata. Credo, almeno! Diamine, non l'avrà buttata via!
E, dicendo così, faceva capire di no.
Pietro domandò: - Perché buttata via? Se le volete bene, dovete avere questa lettera. La voglio vedere.
Egli parlava come se dovesse difendere un diritto. E s'inasprì la sua ostilità con il vecchio; che, incerto e incuriosito, disse poi: - Ha mandato anche un'altra cosa.
E strizzò un occhio.
- Che cosa? Scommetto, la sua fotografia?
Giacco chiese, mettendogli una mano su la spalla e ritraendola in fretta: - Chi glielo ha detto?
- Non l'ha mandata? Rispondete.
Giacco, tutto allegro, appoggiandosi ad un olivo per seguitare, esclamò: - Da vero!
Faceva l'effetto di una tartaruga, che comincia a muoversi quando confida di non esser molestata più.
Pietro girò su se stesso; e, senza dirgli più niente, andò a casa del vecchio, con una contentezza immensa. Radda gli pareva a pochi chilometri di distanza!
Le spighe del grano, incurvate dai venti e dalle piogge, come tanti uncini, avevano un'indoratura tenue; gli steli erano arruffati e alcuni rotti.
Giacco gli gridò dietro: - M'ascolti, m'ascolti...
Masa asciugava i piatti, seduta sopra lo scalino di camera.
- Il vostro marito m'ha detto che avete una lettera di Ghìsola. È vero?
La vecchia, che tante volte aveva pensato di fargliela leggere, gli rispose la verità; e, poi, chiese: - Glielo ha detto proprio lui?
- Non volevate?
E, senza aspettare che s'alzasse, entrò in camera; scavalcando la donna, che abbassò tutta la schiena.
Masa gli era più simpatica; ma con il padrone ella parlava male di lui quanto Giacco.
- Ora vengo io! Non frughi nel canterano... Non la trova.
Egli disse soltanto, stizzito: - Spicciatevi. Siete una stupida. Non capite quel che io penso di lei.
Temeva che sopraggiungesse Giacco, dinanzi al quale sarebbe stato zitto; perché talvolta i suoi sguardi lo facevano diffidente, se non cauto.
Masa trovò la lettera; ma, prima di dargliela, disse, tenendola con la mano aperta contro il petto incavato: - Non voglio che ne risappia niente il padrone.
- Perché? Chi glielo ridice?
Ella arrossì, e rispose: - Il perché lo sa meglio di me.
Poi mosse le labbra, come quando mordicchiava il refe per infilarlo nell'ago.
La busta, e a lui dispiacque, era stata strappata, a pizzicotti, intorno; per cavare la lettera dettata certo a qualche parente, perché Ghìsola non sapeva scrivere. Pietro, a voce alta, la lesse tutta: i suoi genitori avevano avuto il morbillo, la zia Giuseppa non poteva allattare la bambina.
Allora, chiese: - E la fotografia dov'è?
Masa rideva, e la sua arroganza se ne compiaceva molto. Si pigiò, più volte, i fianchi con le nocche. Quando rideva, si vedevano i suoi denti fitti e ancora bianchi.
- È una settimana che m'è caduta dietro il canterano; mentre la volevo spolverare.
Egli scorse, infatti, sotto una fila di santi, attaccati al muro, lungo una cordicella, una cornice di vecchio velluto turchino, ma vuota. Quel vuoto, con un foglio bianco, lo intenerì.
- Non avete pensato prima a raccattarla?
Ormai si sentiva certo di vederla. E gli pareva di compiere un dovere.
Ma Masa, non volendo rimproveri, disse: - Saremo a tempo a prenderla! Chi ci pensa? La mattina ci alziamo presto; la sera non abbiamo voglia, perché siamo stracchi.
- Scanserò il canterano io.
Quando c'era da far valere un rispetto, lavorava anche lui!
- Non mi faccia inquietare!
Ma i suoi occhi non erano cattivi come le altre volte: c'era dolcezza, benché torbida e ambigua.
- Perché?
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