Home Page  
Progetto Editoriale  
Poesia  
Narrativa  
Cerca  
Enciclopedia Autori  
Notizie  
Opere pubblicate: 19856

-



VII PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE AL FEMMINILE

MARIA CUMANI QUASIMODO

SCADENZA
28 APRILE 2023

 

 



 

 

 

Il libro più amato da chi scrive poesie,
una bussola per un cammino più consapevole.
Riceverai una copia autografata del Maestro Aletti
Con una sua riflessione.

Tutti quelli che scrivono
dovrebbero averne una copia sulla scrivania.

Un vademecum sulle buone pratiche della Scrittura.

Un successo straordinario,
tre ristampe nelle prime due settimane dall'uscita.


Il libro è stato già al terzo posto nella classifica di
Amazon
e al secondo posto nella classifica di Ibs

Se non hai Amazon o Ibs scrivi ad:

amministrazione@alettieditore.it

indicando nell'oggetto
"ordine libro da una feritoia osservo parole"

Riceverai tutte le istruzioni per averlo direttamente a casa.



Clicca qui per ordinarlo su Amazon

oppure

Clicca qui per ordinarlo su Ibs

****

TUTTO QUELLO CHE HAI SEMPRE VOLUTO
PER I TUOI TESTI

vai a vedere quello che ha da dirti Alessandro Quasimodo
clicca sull'immagine

Le opere più interessanti riceveranno una proposta di edizione per l’inserimento nella prestigiosa Collana I DIAMANTI
Servizi prestigiosi che solo la Aletti può garantire, la casa editrice indipendente più innovativa e dinamica del panorama culturale ed editoriale italiano


 
Info sull'Opera
Autore:
Pittura
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Ro Milan

di Pittura

Ro Milan

DAZIO GRANDE a Rodi-Fiesso (Ticino, Svizzera)
30 giugno – 19 agosto 2007
Aperto tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00

Presentazione Claudio Guarda


Fondazione Dazio Grande, CH 6772 Rodi-Fiesso tel.
+41 91 874 60 60
Romilan tel. 004179 6...

www.romilanart.ch e. mail
info@romilanart.ch
www.daziogrande.ch


Sentimento del vivere e visione nella pittura di Ro Milan
(Italiano - Français - Deutsch)


Ciò che a prima vista subito emerge mettendo in linea la pittura di Ro Milan lungo gli anni, è la sua scansione per nuclei tematici apparentemente indipendenti, i quali si costituiscono come unità chiuse, potremmo dire a blocchi tra loro separati: il ciclo delle Foglie, quello delle Montagne, quello dei Fiori e delle campagne aperte dei nostri Altopiani. L’uno diverso dall’altro, non solo quanto a soggetto ma anche formalmente, come se ogni ‘motivo’ o tema implicasse un suo proprio linguaggio, un suo proprio ‘stile’ e quindi anche un suo proprio tempo. Cosa, quest’ultima, che in realtà non corrisponde al vero, perché la verità è che la sua pittura procede sì per nuclei tematici ben articolati e distinti, anche a livello formale, ma che questi non si succedono nel tempo, come stagioni diverse, bensì si mescolano e alternano, liberamente, ancora oggi, senza soluzione di continuità.

Ne potrebbero legittimamente derivare delle perplessità, quasi si trattasse di un procedere a scatole chiuse, non comunicanti; ma potrebbe anche essere esattamente il contrario nell’ottica e nello spirito del pittore. Perché se egli si muove in questo modo, ciò vuol dire che per lui non c’è discontinuità tematica o formale, né distinzione temporale tra un prima e un poi, tra un nucleo e l’altro; vuol dire che, per lui, ma forse anche per chi sa andare oltre le prime apparenze, più di un bandolo o di una ragione c’è ad attraversare – come una nota di fondo e, quindi, anche come elemento di continuità – la sua arte, i suoi soggetti, i suoi motivi lungo il corso degli anni.

La più evidente delle quali mi pare vada ravvisata nella sua congenita propensione a filtrare la molteplice varietà del mondo – si tratti di alberi, campi, paesaggi o singoli elementi di natura – per restituircela in forme che si assestano oltre l’immediatezza del visibile: fissate come sono in un punto intermedio tra referenzialità e astrazione delle forme (si vedano certi alberi o campi ridotti ormai a scansioni geometriche), tra oggettivazione naturalistica (che a volte si spinge fino al dettaglio di un ingrandimento) e sospensioni metafisiche, decantate: dove talvolta ti sembra di sentire la voce del silenzio, di cogliere lo spirito segreto delle cose.

L’apparente discontinuità formale è allora fenomeno più di superficie che di sostanza; di soggetti e temi nelle loro forme, più che atteggiamento intrinseco al pittore: il quale, talora, pare perfino indugiare sulle soglie di un descrittivismo da manuale botanico quando circoscrive e delinea singole foglie o fiori tirati in primo piano. Non fosse poi che, in realtà, l’ingrandimento esorbitante dell’oggetto, il suo forte ravvicinamento e la sua decontestualizzazione spaziale lo isolano e bloccano in una dimensione atemporale e straniata: al di là quindi sia del mero naturalismo che del semplice descrittivismo. Come dire che tutta la pittura di Ro Milan, nel suo corso, vivrebbe allora dentro questa mobilità di fondo, al di là dell’apparente stabilità delle singole immagini; come oscillando tra due opposti esiti che però si implicano e richiamano a vicenda: ed in questa polarizzazione, in questo pendolarismo non mai definitivamente assestato andrebbe quindi colto il primo e fondante punto di identificazione del pittore.

Ma c’è anche dell’altro. Perché se è vero che, grazie proprio a questa connaturata predisposizione filtrante e trasversale, Ro Milan ha potuto innestare, e liberamente alternare, la variabilità delle sue immagini e dei suoi soggetti, non è meno vero che, in definitiva, essi si succedono e generano per gemmazione interna a partire da un’immagine originaria, vale a dire come sviluppo o spostamento di un nucleo iniziale che si dirama poi per trasformazione. Basti osservare le sue prime opere qui documentate, quelle Foglie bruciate dal sole o dal vento, presentate da Bellinelli già nel ’84, per capire come da queste derivino poi, per trasformazione interna, le sue inquiete Montagne, come piegate su se stesse, colte in un silenzio quasi metafisico; e poi come queste, a loro volta, diventino isole o lingue di terre remote, a chiudere uno specchio d’acqua, sotto un cielo sospeso. Quello stesso cielo, più naturalistico, che torna in certi suoi altopiani, scanditi da porzioni alternate di colore, da linee rette e curve, dove basta però la presenza di un unico albero isolato, dalle forme stranamente rotonde, dentro un paesaggio senz’ombre, senza traccia diretta di vita umana, a dare la dimensione vasta dello spazio e a caricarlo di sottili suggestioni venate da malinconia. Quella stessa che risentiamo nei Fiori di più immediata referenzialità con cui il cerchio chiude: luppolo o cardi tirati in primo piano, dentro uno sfondo ombroso di lumeggiature lombarde, non lontani però dalle sue Foglie iniziali.

Soggetti, temi e forme possono allora anche alternarsi e scambiarsi nel tempo senza soluzione di continuità, in un ciclico ritorno, perché strettamente correlati tra loro e letti dentro uno stesso spirito che altro non è se non la continuità dello sguardo con cui il pittore contempla e interroga la natura. La quale non è solo il mondo che fisicamente lo attornia, ma anche il mondo che lo contiene in quanto persona, e di cui è parte viva, dentro cui egli si specchia e su cui si commisura. Lo si avverte bene osservando soprattutto i suoi vasti paesaggi rurali, con campagne e colline che si perdono a vista d’occhio: in effetti, l’occhio del pittore funziona come elemento intermedio e variabile di focalizzazione tra due opposti elementi messi in relazione dialettica: da una parte la natura, colta nella sua spontaneità, talvolta anche arruffata e imprevedibile; ma dall’altra la mente raziocinante dell’uomo-artista percepita nella sua esigenza di ordinare il mondo, di mettere in griglia le cose, così da arginare il caos di natura, e regolarlo, scandirlo, per quanto possibile, in porzioni pausate di quiete e compostezza: consonanti con le attese dello spirito, a misura d’uomo.

Vi si avverte, insomma, e torniamo così ai nostri inizi, la tensione di chi vorrebbe stringere e costringere la molteplice varietà della natura entro il rigore formale di uno sguardo, di un pensiero filtrante, di un’impaginazione ordinata e mentale, dai colori delicati ma ad incastro, dai ritmi pausati e larghi che danno respiro, vastità e rispondenza a quella che, solo in superficie, è una pittura di paesaggio. Perché il reale non è solo quel che si vede o tocca; reale è anche quello che si proietta su una tela, quel che si desidera o che batte dentro: facendo sì, per esempio, che paesaggi fisici si trasformino in paesaggi interiori, in paesaggi dell’anima, che una veduta possa anche rivelare una visione, un sentimento del vivere, il senso di un’attesa celato dietro uno sguardo silente e contemplativo.



Français
_________
Vision et sentiment de vivre dans la peinture de Ro Milan

Pour Ro Milan, cet accrochage au ‘Dazio Grande’ est l’occasion de résumer finalement par une succession d’œuvres un quart de siècle de peinture : du début des années 80 à aujourd’hui. Une occasion qui ressemble à la reconnaissance d’une continuité, marquée au fil du temps par des expositions mais qui, inévitablement, invite aussi, je dirais même oblige, à une retraversée critique et à un bilan sur une vue d’ensemble : ce qui n’est pas toujours facile ni évitable quand on ressort dessins et peintures des tiroirs et des étagères, qu’on les compare, qu’on y recherche le meilleur d’un parcours, forcé d’opérer une sélection.

Ce qui ressort aussitôt quand on observe la peinture de Ro Milan dans cette succession chronologique, c’est sa scansion par noyaux thématiques apparemment indépendants, qui forment comme des unités fermées, comme des blocs séparés les uns des autres, pourrait-on dire : le cycle des Feuilles, celui des Montagnes, celui des Fleurs et celui des campagnes ouvertes de nos Hauts plateaux. Chacun diffère de l’autre non seulement par le sujet mais aussi formellement, comme si chaque ‘motif’ ou chaque thème impliquait son propre langage, son propre ‘style’, et donc aussi son temps propre. Ce dernier propos, à vrai dire, est inexact, car s’il est vrai que sa peinture procède par noyaux thématiques bien articulés et distincts, même au niveau formel, ceux-ci en réalité ne se suivent pas dans le temps, comme des saisons différentes, mais se mêlent et alternent librement, aujourd’hui encore, sans solution de continuité.

Il pourrait en dériver une perplexité légitime, comme s’il s’agissait d’un processus à compartiments fermés, non communicants ; mais ce pourrait aussi être exactement le contraire dans l’optique et l’esprit du peintre. Parce que s’il se meut dans ce monde, cela veut dire que pour lui il n’y a pas discontinuité thématique ou formelle, ni distinction temporelle entre un avant et un après, entre un noyau et l’autre ; cela veut dire que, pour lui mais peut-être aussi pour qui sait aller au-delà des apparences premières, il y a plus d’un fil rouge ou d’une raison qui traverse – comme une note de fond et donc aussi comme un élément de continuité – son art, ses sujets, ses motifs, au long des années.

La plus évidente de ces raisons me paraît être sa propension innée à filtrer la multiple diversité du monde – qu’il s’agisse d’arbres, de champs, de paysages ou d’éléments isolés de la nature – pour nous la restituer dans des formes qui se déposent au-delà de l’immédiateté du visible : fixées en un point intermédiaire entre référentialité et abstraction des formes (voir certains arbres ou champs réduits à des scansions géométriques), entre objectivation naturaliste (parfois poussée jusqu’au détail d’un agrandissement) et suspensions métaphysiques, décantées, où l’on a parfois l’impression d’entendre la voix du silence, de saisir l’âme secrète des choses.

L’apparente discontinuité formelle est alors davantage un phénomène de surface que de substance ; de sujets et de formes, plutôt qu’une attitude intrinsèque du peintre, qui, parfois, semble même hésiter au seuil d’un descriptivisme de manuel de botanique quand il trace le contour de feuilles ou de fleurs mises au premier plan. N’était qu’en réalité, l’agrandissement excessif de l’objet, son fort rapprochement et la décontextualisation spatiale l’isolent, le figent dans une dimension intemporelle et l’éloignent : au-delà donc du pur naturalisme comme du simple descriptivisme. Façon de dire que toute la peinture de Ro Milan, au fil des ans, vivrait à l’intérieur de cette mobilité de fond, au-delà de l’apparente stabilité des différentes images ; comme oscillant entre deux pôles opposés qui néanmoins s’impliquent et s’attirent mutuellement : et c’est dans cette polarisation, dans ce va-et-vient jamais définitivement arrêté que l’on trouverait le premier point d’identification fondateur du peintre.

Mais il y a autre chose encore. Car s’il est vrai que, grâce justement à cette prédisposition innée au filtrage et à la transversalité, Ro Milan a pu greffer et alterner librement la variabilité de ses images et de ses sujets, il n’est pas moins vrai qu’en définitive, ceux-ci se suivent et se génèrent par bourgeonnement interne à partir d’une image première, autrement dit comme le développement ou le déplacement d’un noyau initial qui se transforme ensuite en se ramifiant. Il suffit d’observer les œuvres les plus anciennes présentées ici, ces Feuilles brûlées par le soleil ou par le vent, déjà montrées par Bellinelli en 1984, pour comprendre comme dérivent d’elles, par transformation interne, ses Montagnes inquiètes, comme repliées sur elles-mêmes, saisies dans un silence quasi métaphysique ; et comme ces dernières, à leur tour, deviennent îles ou langues de terre lointaines, refermant un plan d’eau, sous un ciel suspendu. Ce même ciel, plus naturaliste, qui revient dans certains de ses hauts plateaux, scandés par des portions alternées de couleur, de lignes droites et de courbes, où pourtant la présence d’un seul arbre isolé, aux formes étrangement rondes, dans un paysage sans ombres, sans trace directe de vie humaine, suffit à rendre la vaste dimension de l’espace et à le charger de subtiles suggestions veinées de mélancolie. Une mélancolie que nous retrouvons dans ses Fleurs à la référentialité plus immédiate, par lesquelles le cercle se referme : houblon ou chardons mis au premier plan, sur un fond ombreux de rehauts lombards, proches pourtant de ses Feuilles du début.

C’est dire que sujets, thèmes et formes peuvent même alterner et s’échanger dans le temps sans solution de continuité, dans un retour cyclique, parce qu’étroitement corrélés et lus dans un même esprit, qui n’est autre que la continuité du regard avec lequel le peintre contemple et interroge la nature. Laquelle n’est pas seulement le monde qui l’entoure physiquement, mais aussi celui qui le contient en tant que personne et dont il est partie vivante, dans lequel il se reflète et auquel il se proportionne. On s’en rend bien compte en observant surtout ses vastes paysages de campagne, avec des champs et des collines à perte de vue ; l’œil du peintre fonctionne en effet comme un élément intermédiaire et variable de focalisation entre deux éléments opposés mis en relation dialectique : d’un côté la nature, saisie dans sa spontanéité, parfois même hirsute et imprévisible ; de l’autre, l’esprit raisonneur de l’homme-artiste perçu dans son exigence de mettre le monde en ordre, de caser précisément les choses, de manière à endiguer le chaos de la nature, à le régler et à le débiter, si possible, en tranches de paix et de mesure : consonantes avec les attentes de l’esprit, à mesure d’homme.

On y perçoit en somme, et nous revenons là à notre propos initial, la tension de celui qui voudrait enserrer et contraindre la multiple diversité de la nature dans la rigueur formelle d’un regard, d’une pensée filtrante, d’un cadrage ordonné et mental, aux couleurs délicates mais enchâssées, aux rythmes calmes et larges qui donnent du souffle, de l’espace et de la résonance à une peinture qui n’est de paysage qu’en surface. Parce que le réel n’est pas que ce qu’on voit ou qu’on touche ; le réel est aussi ce qu’on projette sur une toile, ce qu’on désire ou qui bat en nous : faisant en sorte, par exemple, que des paysages physiques se transforment en paysages intérieurs, en paysages de l’âme, qu’une vue puisse aussi révéler une vision, un sentiment de vivre, le sens d’une attente cachée derrière un regard silencieux et contemplatif.



Deutsch
_________
Lebensgefühl und Visionen in der Malerei von Ro Milan

Was auf den ersten Blick bei der Betrachtung der Malerei von Ro Milan über die Jahre hinweg sofort auffällt, ist deren Aufgliederung in scheinbar unabhängige Themenbereiche, die geschlossene Einheiten bilden, man könnte sagen als voneinander getrennte Blöcke: Der Zyklus der Blätter, jener der Berge, jener der Blumen und der offenen Landschaften unserer Hochebenen. Jeder ist anders als der Andere, nicht nur, was den Gegenstand anbelangt, sondern auch formal, wie wenn jedes "Motiv" oder Thema seine ihm eigene Sprache in sich tragen würde, seinen eigenen "Stil" und so auch seinen eigenen Zeitraum. Letzteres entspricht jedoch in Wahrheit nicht der wirklichen Zeit, denn die Wahrheit ist, dass sich seine Malerei zwar in klar artikulierten und unterschiedlichen Themenbereichen fortbewegt, auch auf formaler Ebene, aber diese folgen nicht zeitlich aufeinander wie verschiedene Jahreszeiten, sondern mischen sich und alternieren frei, auch noch heute, ohne Unterbrechung.

Daraus könnte legitimerweise Verwirrung entstehen, als handle es sich um ein Hantieren mit geschlossenen, nicht kommunizierenden Gefässen; aber es könnte in der Sichtweise und im Geist des Malers auch genau das Gegenteil sein. Es würde, wenn er sich auf diese Weise bewegt, bedeuten, dass es für ihn keine thematische oder formale Diskontinuität gibt, auch keine zeitliche Unterscheidung zwischen einem Vorher und einem Nachher, zwischen einem Kernbereich und einem anderen; das bedeutet, es gilt für ihn, aber vielleicht auch für jeden, der über den ersten Anschein hinauszugehen versteht, dass, mehr als ein Anfang oder ein Ursprung, seine Kunst, seine Gegenstände, seine Motive im Verlauf der Jahre verfolgt werden müssen ‑ wie Grundmerkmale und somit auch als Element der Kontinuität.

Das offensichtlichste davon scheint mir in seiner angeborenen Neigung zu liegen, die Vielfältigkeit der Welt zu filtrieren ‑ ob es nun um Bäume, Felder, Landschaften oder einzelne Elemente der Natur geht ‑, um sie uns wiederzugeben in Formen, die über die Unmittelbarkeit des Sichtbaren hinausgehen: fixiert, wie sie sind, in einem Punkt zwischen dem Verweis auf Reales und Abstraktion der Formen (man vergleiche dazu gewisse nunmehr auf geometrische Gliederungen reduzierte Bäume oder Felder), zwischen naturalistischer Vergegenständlichung (die manchmal bis hin zum Detail einer Vergrösserung geht) und dem abgeklärten metaphysischen Schweben: Manchmal scheint man die Stimme der Stille zu hören, den verborgenen Geist der Dinge zu spüren.

Die offensichtliche formale Diskontinuität ist somit eher ein Phänomen der Oberfläche als der Substanz; eher der Gegenstände und Themen in ihren Formen als einer inneren Haltung des Malers, welcher zuweilen fast auf der Ebene einer Genauigkeit der Zeichnung für ein botanisches Handbuch zu stehen scheint, wenn er einzelne Blätter oder Blumen umreisst und malt, die in den Vordergrund gerückt werden. Aber in Wirklichkeit wird das Objekt durch die exorbitante Vergrösserung, durch seine Hervorhebung im Vordergrund und seine Loslösung aus dem räumlichen Kontext isoliert und blockiert in einer zeitlosen und verfremdeten Dimension: jenseits sowohl des reinen Naturalismus als auch der einfachen Reproduktion. Als ob die gesamte Malerei von Ro Milan in ihrem Verlauf innerhalb dieser Mobilität des Hintergrunds leben würde, jenseits der scheinbaren Stabilität der einzelnen Bilder; gleichsam oszillierend zwischen zwei gegensätzlichen Ergebnissen die sich jedoch einschliessen und gegenseitig bedingen: In dieser Polarisierung, in diesem nie definitiv geordneten Pendeln findet sich so der erste und grundlegende Identifikationspunkt des Malers.

Aber es gibt noch anderes. Denn wenn es stimmt, dass gerade dank dieser angeborenen filtrierenden und transversalen Veranlagung es Ro Milan gelang, die Variabilität seiner Bilder und seiner Gegenstände ineinander zu fügen und frei zu alternieren, dann ist es bestimmt ebenso wahr, dass diese aufeinander folgen und aus einem ursprünglichen Bild heraus, das gleichsam innere Knospen treibt, entstehen, d.h. als Entwicklung oder Verschiebung eines anfänglichen Kerns, der sich dann durch Transformation verästelt. Es genügt, seine ersten hier dokumentierten Werke zu betrachten, diese von der Sonne oder vom Wind verbrannten Blätter, die von Bellinelli bereits 1984 präsentiert wurden, um zu verstehen, wie aus diesen dann, durch innere Verwandlung, seine unruhigen, wie über sich selbst geneigten Berge entstanden sind, eingefangen in einer fast metaphysischen Stille; und wie diese wiederum zu Inseln oder abgelegenen Landzungen werden, um einen Wasserspiegel abzuschliessen unter einem schwebenden Himmel. Dieser gleiche Himmel, der, naturalistischer, in gewissen Bildern seiner Hochebenen wiederkehrt, gegliedert in wechselnde Farbpartien, von geraden und gebogenen Linien, wo jedoch die Präsenz eines einzigen isolierten Baumes von merkwürdig runden Formen reicht, in einer Landschaft ohne Schatten, ohne direkter Spur von menschlichem Leben, um die weite Dimension des Raums zu vermitteln und ihn mit subtilen von Melancholie geprägten Suggestionen zu füllen. Dieselbe Melancholie, die wir in den Blumen mit unmittelbarerer Hinweis spüren, mit der sich der Kreis schliesst: in den Vordergrund gerückter Hopfen oder Disteln, vor einem dunklen Hintergrund lombardischer Schattierungen, nicht weit entfernt jedoch von seinen anfänglichen Blättern.

Gegenstände, Themen und Formen können sich dann auch abwechseln und in der Zeit austauschen ohne Unterbrechung der Kontinuität, in einer zyklischen Wiederkehr, weil eng miteinander verbunden und interpretiert in ein und demselben Geiste, der nichts anderes ist als die Kontinuität des Blickes, mit dem der Maler die Natur betrachtet und hinterfragt. Diese ist nicht nur die Welt, die ihn physisch umgibt, sondern auch die Welt, die ihn als Person umfasst und deren lebender Teil er ist, in der er sich spiegelt und an der er sich misst. Dies wird besonders spürbar, wenn man seine grossen ländlichen Landschaften mit Feldern und Hügeln betrachtet, die sich sichtlich verlieren: Das Auge des Malers funktioniert in der Tat als mittleres und variables Element der Fokalisierung zwischen zwei entgegengesetzten Elementen, die in dialektische Relation gesetzt werden: einerseits die Natur, erfasst in ihrer Spontanität, manchmal auch wirr und unvorhersehbar; aber auf der anderen Seite der vernünftig urteilende Geist des Menschen bzw. Künstlers in seinem Anspruch, die Welt zu ordnen, die Dinge an ihren Ort zu tun, um dem Chaos der Natur Einhalt zu gebieten, es zu ordnen, es zu gliedern, so weit als möglich, in kurz unterbrochene Teile von Ruhe und Ordnung: im Einklang mit den Erwartungen des menschlichen Geistes und Masses.

Hier wird, und so kehren wir an den Anfang zurück, die Spannung desjenigen spürbar, der die Vielfalt der Natur in die formale Strenge eines Blickes fassen und einfangen möchte, eines filtrierenden Gedankens, einer ordentlichen und geistigen Darstellung, von delikaten Farben aber in einer Fassung, von unterbrochenen und breiten Rhythmen, die atmen lassen, Weite und Entsprechung von dem, was, nur oberflächlich, Landschaftsmalerei ist. Denn das Reale ist nicht nur das, was man sieht oder anfassen kann; real ist auch, was auf einer Leinwand entworfen wird, das, was man sich wünscht oder was einen im Innern beschäftigt: Indem es geschieht, dass sich zum Beispiel physische Landschaften in innere Landschaften, in Landschaften der Seele verwandeln, dass ein Landschaftsbild auch eine Vision offenbaren kann, ein Lebensgefühl, den Sinn einer Erwartung, verborgen hinter einem stillen und betrachten Blick.
Übersetzung: Isabelle Nicolier

Segnala questa opera ad un amico

Inserisci una nuova Notizia
Notizie Presenti