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VII PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE AL FEMMINILE

MARIA CUMANI QUASIMODO

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28 APRILE 2023

 

 



 

 

 

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Info sull'Opera
Autore:
Omero
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

ILIADE - LIBRO PRIMO - SECONDO

di Omero

ILIADE
di Omero

traduzione di Vincenzo Monti


LIBRO PRIMO


Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi,
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l'alto consiglio s'adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de' prodi Atride e il divo Achille.
E qual de' numi inimicolli? Il figlio
di Latona e di Giove. Irato al Sire
destò quel Dio nel campo un feral morbo,
e la gente perìa: colpa d'Atride
che fece a Crise sacerdote oltraggio.
Degli Achivi era Crise alle veloci
prore venuto a riscattar la figlia
con molto prezzo. In man le bende avea,
e l'aureo scettro dell'arciero Apollo:
e agli Achei tutti supplicando, e in prima
ai due supremi condottieri Atridi:
O Atridi, ei disse, o coturnati Achei,
gl'immortali del cielo abitatori
concedanvi espugnar la Prïameia
cittade, e salvi al patrio suol tornarvi.
Deh mi sciogliete la diletta figlia,
ricevetene il prezzo, e il saettante
figlio di Giove rispettate. - Al prego
tutti acclamâr: doversi il sacerdote
riverire, e accettar le ricche offerte.
Ma la proposta al cor d'Agamennóne
non talentando, in guise aspre il superbo
accommiatollo, e minaccioso aggiunse:
Vecchio, non far che presso a queste navi
ned or né poscia più ti colga io mai;
ché forse nulla ti varrà lo scettro
né l'infula del Dio. Franca non fia
costei, se lungi dalla patria, in Argo,
nella nostra magion pria non la sfiori
vecchiezza, all'opra delle spole intenta,
e a parte assunta del regal mio letto.
Or va, né m'irritar, se salvo ir brami.
Impaurissi il vecchio, ed al comando
obbedì. Taciturno incamminossi
del risonante mar lungo la riva;
e in disparte venuto, al santo Apollo
di Latona figliuol, fe' questo prego:
Dio dall'arco d'argento, o tu che Crisa
proteggi e l'alma Cilla, e sei di Tènedo
possente imperador, Smintèo, deh m'odi.
Se di serti devoti unqua il leggiadro
tuo delubro adornai, se di giovenchi
e di caprette io t'arsi i fianchi opimi,
questo voto m'adempi; il pianto mio
paghino i Greci per le tue saette.
Sì disse orando. L'udì Febo, e scese
dalle cime d'Olimpo in gran disdegno
coll'arco su le spalle, e la faretra
tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo
su gli omeri all'irato un tintinnìo
al mutar de' gran passi; ed ei simìle
a fosca notte giù venìa. Piantossi
delle navi al cospetto: indi uno strale
liberò dalla corda, ed un ronzìo
terribile mandò l'arco d'argento.
Prima i giumenti e i presti veltri assalse,
poi le schiere a ferir prese, vibrando
le mortifere punte; onde per tutto
degli esanimi corpi ardean le pire.
Nove giorni volâr pel campo acheo
le divine quadrella. A parlamento
nel decimo chiamò le turbe Achille;
ché gli pose nel cor questo consiglio
Giuno la diva dalle bianche braccia,
de' moribondi Achei fatta pietosa.
Come fur giunti e in un raccolti, in mezzo
levossi Achille piè-veloce, e disse:
Atride, or sì cred'io volta daremo
nuovamente errabondi al patrio lido,
se pur morte fuggir ne fia concesso;
ché guerra e peste ad un medesmo tempo
ne struggono. Ma via; qualche indovino
interroghiamo, o sacerdote, o pure
interprete di sogni (ché da Giove
anche il sogno procede), onde ne dica
perché tanta con noi d'Apollo è l'ira:
se di preci o di vittime neglette
il Dio n'incolpa, e se d'agnelli e scelte
capre accettando l'odoroso fumo,
il crudel morbo allontanar gli piaccia.
Così detto, s'assise. In piedi allora
di Testore il figliuol Calcante alzossi,
de' veggenti il più saggio, a cui le cose
eran conte che fur, sono e saranno;
e per quella, che dono era d'Apollo,
profetica virtù, de' Greci a Troia
avea scorte le navi. Ei dunque in mezzo
pien di senno parlò queste parole:
Amor di Giove, generoso Achille,
vuoi tu che dell'arcier sovrano Apollo
ti riveli lo sdegno? Io t'obbedisco.
Ma del braccio l'aita e della voce
a me tu pria, signor, prometti e giura:
perché tal che qui grande ha su gli Argivi
tutti possanza, e a cui l'Acheo s'inchina,
n'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso.
Quando il potente col minor s'adira,
reprime ei sì del suo rancor la vampa
per alcun tempo, ma nel cor la cova,
finché prorompa alla vendetta. Or dinne
se salvo mi farai. - Parla securo,
rispose Achille, e del tuo cor l'arcano,
qual ch'ei si sia, di' franco. Per Apollo
che pregato da te ti squarcia il velo
de' fati, e aperto tu li mostri a noi,
per questo Apollo a Giove caro io giuro:
nessun, finch'io m'avrò spirto e pupilla,
con empia mano innanzi a queste navi
oserà vïolar la tua persona,
nessuno degli Achei; no, s'anco parli
d'Agamennón che sé medesmo or vanta
dell'esercito tutto il più possente.
Allor fe' core il buon profeta, e disse:
né d'obblïati sacrifici il Dio
né di voti si duol, ma dell'oltraggio
che al sacerdote fe' poc'anzi Atride,
che francargli la figlia ed accettarne
il riscatto negò. La colpa è questa
onde cotante ne diè strette, ed altre
l'arcier divino ne darà; né pria
ritrarrà dal castigo la man grave,
che si rimandi la fatal donzella
non redenta né compra al padre amato,
e si spedisca un'ecatombe a Crisa.
Così forse avverrà che il Dio si plachi.
Tacque, e s'assise. Allor l'Atride eroe
il re supremo Agamennón levossi
corruccioso. Offuscavagli la grande
ira il cor gonfio, e come bragia rossi
fiammeggiavano gli occhi. E tale ei prima
squadrò torvo Calcante, indi proruppe:
Profeta di sciagure, unqua un accento
non uscì di tua bocca a me gradito.
Al maligno tuo cor sempre fu dolce
predir disastri, e d'onor vote e nude
son l'opre tue del par che le parole.
E fra gli Argivi profetando or cianci
che delle frecce sue Febo gl'impiaga,
sol perch'io ricusai della fanciulla
Crisëide il riscatto. Ed io bramava
certo tenerla in signoria, tal sendo
che a Clitennestra pur, da me condutta
vergine sposa, io la prepongo, a cui
di persona costei punto non cede,
né di care sembianze, né d'ingegno
ne' bei lavori di Minerva istrutto.
Ma libera sia pur, se questo è il meglio;
ché la salvezza io cerco, e non la morte
del popol mio. Ma voi mi preparate
tosto il compenso, ché de' Greci io solo
restarmi senza guiderdon non deggio;
ed ingiusto ciò fôra, or che una tanta
preda, il vedete, dalle man mi fugge.
O d'avarizia al par che di grandezza
famoso Atride, gli rispose Achille,
qual premio ti daranno, e per che modo
i magnanimi Achei? Che molta in serbo
vi sia ricchezza non partita, ignoro:
delle vinte città tutte divise
ne fur le spoglie, né diritto or torna
a nuove parti congregarle in una.
Ma tu la prigioniera al Dio rimanda,
ché più larga n'avrai tre volte e quattro
ricompensa da noi, se Giove un giorno
l'eccelsa Troia saccheggiar ne dia.
E a lui l'Atride: Non tentar, quantunque
ne' detti accorto, d'ingannarmi: in questo
né gabbo tu mi fai, divino Achille,
né persuaso al tuo voler mi rechi.
Dunque terrai tu la tua preda, ed io
della mia privo rimarrommi? E imponi
che costei sia renduta? Il sia. Ma giusti
concedanmi gli Achivi altra captiva
che questa adegui e al mio desir risponda.
Se non daranla, rapirolla io stesso,
sia d'Aiace la schiava, o sia d'Ulisse,
o ben anco la tua: e quegli indarno
fremerà d'ira alle cui tende io vegna.
Ma di ciò poscia parlerem. D'esperti
rematori fornita or si sospinga
nel pelago una nave, e vi s'imbarchi
coll'ecatombe la rosata guancia
della figlia di Crise, e ne sia duce
alcun de' primi, o Aiace, o Idomenèo,
o il divo Ulisse, o tu medesmo pure,
tremendissimo Achille, onde di tanto
sacrificante il grato ministero
il Dio ne plachi che da lunge impiaga.
Lo guatò bieco Achille, e gli rispose:
Anima invereconda, anima avara,
chi fia tra i figli degli Achei sì vile
che obbedisca al tuo cenno, o trar la spada
in agguati convegna o in ria battaglia?
Per odio de' Troiani io qua non venni
a portar l'armi, io no; ché meco ei sono
d'ogni colpa innocenti. Essi né mandre
né destrier mi rapiro; essi le biade
della feconda popolosa Ftia
non saccheggiâr; ché molti gioghi ombrosi
ne son frapposti e il pelago sonoro.
Ma sol per tuo profitto, o svergognato,
e per l'onor di Menelao, pel tuo,
pel tuo medesmo, o brutal ceffo, a Troia
ti seguitammo alla vendetta. Ed oggi
tu ne disprezzi ingrato, e ne calpesti,
e a me medesmo di rapir minacci
de' miei sudori bellicosi il frutto,
l'unico premio che l'Acheo mi diede.
Né pari al tuo d'averlo io già mi spero
quel dì che i Greci l'opulenta Troia
conquisteran; ché mio dell'aspra guerra
certo è il carco maggior; ma quando in mezzo
si dividon le spoglie, è tua la prima,
ed ultima la mia, di cui m'è forza
tornar contento alla mia nave, e stanco
di battaglia e di sangue. Or dunque a Ftia,
a Ftia si rieda; ché d'assai fia meglio
al paterno terren volger la prora,
che vilipeso adunator qui starmi
di ricchezze e d'onori a chi m'offende.
Fuggi dunque, riprese Agamennóne,
fuggi pur, se t'aggrada. Io non ti prego
di rimanerti. Al fianco mio si stanno
ben altri eroi, che a mia regal persona
onor daranno, e il giusto Giove in prima.
Di quanti ei nudre regnatori abborro
te più ch'altri; sì, te che le contese
sempre agogni e le zuffe e le battaglie.
Se fortissimo sei, d'un Dio fu dono
la tua fortezza. Or va, sciogli le navi,
fa co' tuoi prodi al patrio suol ritorno,
ai Mirmìdoni impera; io non ti curo,
e l'ire tue derido; anzi m'ascolta.
Poiché Apollo Crisëide mi toglie,
parta. D'un mio naviglio, e da' miei fidi
io la rimando accompagnata, e cedo.
Ma nel tuo padiglione ad involarti
verrò la figlia di Brisèo, la bella
tua prigioniera, io stesso; onde t'avvegga
quant'io t'avanzo di possanza, e quindi
altri meco uguagliarsi e cozzar tema.
Di furore infiammâr l'alma d'Achille
queste parole. Due pensier gli fêro
terribile tenzon nell'irto petto,
se dal fianco tirando il ferro acuto
la via s'aprisse tra la calca, e in seno
l'immergesse all'Atride; o se domasse
l'ira, e chetasse il tempestoso core.
Fra lo sdegno ondeggiando e la ragione
l'agitato pensier, corse la mano
sovra la spada, e dalla gran vagina
traendo la venìa; quando veloce
dal ciel Minerva accorse, a lui spedita
dalla diva Giunon, che d'ambo i duci
egual cura ed amor nudrìa nel petto.
Gli venne a tergo, e per la bionda chioma
prese il fiero Pelìde, a tutti occulta,
a lui sol manifesta. Stupefatto
si scosse Achille, si rivolse, e tosto
riconobbe la Diva a cui dagli occhi
uscìan due fiamme di terribil luce,
e la chiamò per nome, e in ratti accenti,
Figlia, disse, di Giove, a che ne vieni?
Forse d'Atride a veder l'onte? Aperto
io tel protesto, e avran miei detti effetto:
ei col suo superbir cerca la morte,
e la morte si avrà. - Frena lo sdegno,
la Dea rispose dalle luci azzurre:
io qui dal ciel discesi ad acchetarti,
se obbedirmi vorrai. Giuno spedimmi,
Giuno ch'entrambi vi difende ed ama.
Or via, ti calma, né trar brando, e solo
di parole contendi. Io tel predìco,
e andrà pieno il mio detto: verrà tempo
che tre volte maggior, per doni eletti,
avrai riparo dell'ingiusta offesa.
Tu reprimi la furia, ed obbedisci.
E Achille a lei: Seguir m'è forza, o Diva,
benché d'ira il cor arda, il tuo consiglio.
Questo fia lo miglior. Ai numi è caro
chi de' numi al voler piega la fronte.
Disse; e rattenne su l'argenteo pomo
la poderosa mano, e il grande acciaro
nel fodero respinse, alle parole
docile di Minerva. Ed ella intanto
all'auree sedi dell'Egìoco padre
sul cielo risalì fra gli altri Eterni.
Achille allora con acerbi detti
rinfrescando la lite, assalse Atride:
Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core!
Tu non osi giammai nelle battaglie
dar dentro colla turba; o negli agguati
perigliarti co' primi infra gli Achei,
ché ogni rischio t'è morte. Assai per certo
meglio ti torna di ciascun che franco
nella grand'oste achea contro ti dica,
gli avuti doni in securtà rapire.
Ma se questa non fosse, a cui comandi,
spregiata gente e vil, tu non saresti
del popol tuo divorator tiranno,
e l'ultimo de' torti avresti or fatto.
Ma ben t'annunzio, ed altamente il giuro
per questo scettro (che diviso un giorno
dal montano suo tronco unqua né ramo
né fronda metterà, né mai virgulto
germoglierà, poiché gli tolse il ferro
con la scorza le chiome, ed ora in pugno
sel portano gli Achei che posti sono
del giusto a guardia e delle sante leggi
ricevute dal ciel), per questo io giuro,
e invïolato sacramento il tieni:
stagion verrà che negli Achei si svegli
desiderio d'Achille, e tu salvarli
misero! non potrai, quando la spada
dell'omicida Ettòr farà vermigli
di larga strage i campi: e allor di rabbia
il cor ti roderai, ché sì villana
al più forte de' Greci onta facesti.
Disse; e gittò lo scettro a terra, adorno
d'aurei chiovi, e s'assise. Ardea l'Atride
di novello furor, quando nel mezzo
surse de' Pilii l'orator, Nestorre
facondo sì, che di sua bocca uscièno
più che mel dolci d'eloquenza i rivi.
Di parlanti con lui nati e cresciuti
nell'alma Pilo ei già trascorse avea
due vite, e nella terza allor regnava.
Con prudenti parole il santo veglio
così loro a dir prese: Eterni Dei!
Quanto lutto alla Grecia, e quanta a Prìamo
gioia s'appresta ed a' suoi figli e a tutta
la dardania città, quando fra loro
di voi s'intenda la fatal contesa,
di voi che tutti di valor vincete
e di senno gli Achei! Deh m'ascoltate,
ché minor d'anni di me siete entrambi;
ed io pur con eroi son visso un tempo
di voi più prodi, e non fui loro a vile:
ned altri tali io vidi unqua, né spero
di riveder più mai, quale un Drïante
moderator di genti, e Piritòo,
Cèneo ed Essadio e Polifemo uom divo,
e l'Egìde Teseo pari ad un nume.
Alme più forti non nudrìa la terra,
e forti essendo combattean co' forti,
co' montani Centauri, e strage orrenda
ne fean. Con questi, a lor preghiera, io spesso
partendomi da Pilo e dal lontano
Apio confine, a conversar venìa,
e secondo mie forze anch'io pugnava.
Ma di quanti mortali or crea la terra
niun potrìa pareggiarli. E nondimeno
da quei prestanti orecchio il mio consiglio
ed il mio detto obbedïenza ottenne.
E voi pur anco m'obbedite adunque,
ché l'obbedirmi or giova. Inclito Atride,
deh non voler, sebben sì grande, a questi
tor la fanciulla; ma ch'ei s'abbia in pace
da' Greci il dato guiderdon consenti:
né tu cozzar con inimico petto
contra il rege, o Pelìde. Un re supremo,
cui d'alta maestà Giove circonda,
uguaglianza d'onore unqua non soffre.
Se generato d'una diva madre
tu lui vinci di forza, ei vince, o figlio,
te di poter, perché a più genti impera.
Deh pon giù l'ira, Atride, e placherassi
pure Achille al mio prego, ei che de' Greci
in sì ria guerra è principal sostegno.
Tu rettissimo parli, o saggio antico,
pronto riprese il regnatore Atride;
ma costui tutti soverchiar presume,
tutti a schiavi tener, dar legge a tutti,
tutti gravar del suo comando. Ed io
potrei patirlo? Io no. Se il fêro i numi
un invitto guerrier, forse pur anco
di tanto insolentir gli diero il dritto?
Tagliò quel dire Achille, e gli rispose:
Un pauroso, un vil certo sarei
se d'ogni cenno tuo ligio foss'io.
Altrui comanda, a me non già; ch'io teco
sciolto di tutta obbedienza or sono.
Questo solo vo' dirti, e tu nel mezzo
lo rinserra del cor. Per la fanciulla
un dì donata, ingiustamente or tolta,
né con te né con altri il brando mio
combatterà. Ma di quant'altre spoglie
nella nave mi serbo, né pur una,
s'io la niego, t'avrai. Vien, se nol credi,
vieni alla prova; e il sangue tuo scorrente
dalla mia lancia farà saggio altrui.
Con questa di parole aspra tenzone
levârsi, e sciolto fu l'acheo consesso.
Con Patroclo il Pelìde e co' suoi prodi
riede a sue navi nelle tende; e Atride
varar fa tosto a venti remi eletti
una celere prora colla sacra
ecatombe. Di Crise egli medesmo
vi guida e posa l'avvenente figlia;
duce v'ascende il saggio Ulisse, e tutti
già montati correan l'umide vie.
Ciò fatto, indisse al campo Agamennóne
una sacra lavanda: e ognun devoto
purificarsi, e via gittar nell'onde
le sozzure, e del mar lungo la riva
offrir di capri e di torelli intere
ecatombi ad Apollo. Al ciel salìa
volubile col fumo il pingue odore.
Seguìan nel campo questi riti. E fermo
nel suo dispetto e nella dianzi fatta
ria minaccia ad Achille, intanto Atride
Euribate e Taltibio a sé chiamando,
fidi araldi e sergenti, Ite, lor disse,
del Pelìde alla tenda, e m'adducete
la bella figlia di Brisèo. Se il niega,
io ne verrò con molta mano, io stesso,
a gliela tôrre: e ciò gli fia più duro.
Disse; e il cenno aggravando in via li pose.
Del mar lunghesso l'infecondo lido
givan quelli a mal cuore, e pervenuti
de' Mirmidóni alla campal marina
trovâr l'eroe seduto appo le navi
davanti al padiglion: né del vederli
certo Achille fu lieto. Ambo al cospetto
regal fermârsi trepidanti e chini,
né far motto fur osi né dimando.
Ma tutto ei vide in suo pensiero, e disse:
Messaggeri di Giove e delle genti,
salvete, araldi, e v'appressate. In voi
niuna è colpa con meco. Il solo Atride,
ei solo è reo, che voi per la fanciulla
Brisëide qui manda. Or va, fuor mena,
generoso Patròclo, la donzella,
e in man di questi guidator l'affida.
Ma voi medesmi innanzi ai santi numi
ed innanzi ai mortali e al re crudele
siatemi testimon, quando il dì splenda
che a scampar gli altri di rovina il mio
braccio abbisogni. Perocché delira
in suo danno costui, ned il presente
vede, né il poi, né il come a sua difesa
salvi alle navi pugneran gli Achei.
Disse; e Patròclo del diletto amico
al comando obbedì. Fuor della tenda
Brisëide menò, guancia gentile,
ed agli araldi condottier la cesse.
Mentre ei fanno alle navi achee ritorno,
e ritrosa con lor partìa la donna,
proruppe Achille in un subito pianto,
e da' suoi scompagnato in su la riva
del grigio mar s'assise, e il mar guardando
le man stese, e dolente alla diletta
madre pregando, Oh madre! è questo, disse,
questo è l'onor che darmi il gran Tonante
a conforto dovea del viver breve
a cui mi partoristi? Ecco, ei mi lascia
spregiato in tutto: il re superbo Atride
Agamennón mi disonora; il meglio
de' miei premi rapisce, e sel possiede.
Sì piangendo dicea. La veneranda
genitrice l'udì, che ne' profondi
gorghi del mare si sedea dappresso
al vecchio padre; udillo, e tosto emerse,
come nebbia, dall'onda: accanto al figlio,
che lagrime spargea, dolce s'assise,
e colla mano accarezzollo, e disse:
Figlio, a che piangi? e qual t'opprime affanno?
Di', non celarlo in cor, meco il dividi.
Madre, tu il sai, rispose alto gemendo
il piè-veloce eroe. Ridir che giova
tutto il già conto? Nella sacra sede
d'Eezïon ne gimmo; la cittade
ponemmo a sacco, e tutta a questo campo
fu condotta la preda. In giuste parti
la diviser gli Achivi, e la leggiadra
Crisëide fu scelta al primo Atride.
Crise d'Apollo sacerdote allora
con l'infula del nume e l'aureo scettro
venne alle navi a riscattar la figlia.
Molti doni offerì, molte agli Achivi
porse preghiere, ed agli Atridi in prima.
Invan; ché preghi e doni e sacerdote
e degli Achei l'assenso ebbe in dispregio
Agamennón, che minaccioso e duro
quel misero cacciò dal suo cospetto.
Partì sdegnato il veglio; e Apollo, a cui
diletto capo egli era, il suo lamento
esaudì dall'Olimpo, e contra i Greci
pestiferi vibrò dardi mortali.
Perìa la gente a torme, e d'ogni parte
sibilanti del Dio pel campo tutto
volavano gli strali. Alfine un saggio
indovin ne fe' chiaro in assemblea
l'oracolo d'Apollo. Io tosto il primo
esortai di placar l'ire divine.
Sdegnossene l'Atride, e in piè levato
una minaccia mi fe' tal che pieno
compimento sortì. Gli Achivi a Crisa
sovr'agil nave già la schiava adducono
non senza doni a Febo; e dalla tenda
a me pur dianzi tolsero gli araldi,
e menâr seco di Brisèo la figlia,
la fanciulla da' Greci a me donata.
Ma tu che il puoi, tu al figlio tuo soccorri,
vanne all'Olimpo, e porgi preghi a Giove,
s'unqua Giove per te fu nel bisogno
o d'opera aitato o di parole.
Nel patrio tetto, io ben lo mi ricordo,
spesso t'intesi glorïarti, e dire
che sola fra gli Dei da ria sciagura
Giove campasti adunator di nembi,
il giorno che tentâr Giuno e Nettunno
e Pallade Minerva in un con gli altri
congiurati del ciel porlo in catene;
ma tu nell'uopo sopraggiunta, o Dea,
l'involasti al periglio, all'alto Olimpo
prestamente chiamando il gran Centìmano,
che dagli Dei nomato è Brïarèo,
da' mortali Egeóne, e di fortezza
lo stesso genitor vincea d'assai.
Fiero di tanto onore alto ei s'assise
di Giove al fianco, e n'ebber tema i numi,
che poser di legarlo ogni pensiero.
Or tu questo rammentagli, e al suo lato
siedi, e gli abbraccia le ginocchia, e il prega
di dar soccorso ai Teucri, e far che tutte
fino alle navi le falangi achee
sien spinte e rotte e trucidate. Ognuno
lo si goda così questo tiranno;
senta egli stesso il gran regnante Atride
qual commise follìa quando superbo
fe' de' Greci al più forte un tanto oltraggio.
E lagrimando a lui Teti rispose:
Ahi figlio mio! se con sì reo destino
ti partorii, perché allevarti, ahi lassa!
Oh potessi ozioso a questa riva
senza pianto restarti e senza offese,
ingannando la Parca che t'incalza,
ed omai t'ha raggiunto! Ora i tuoi giorni
brevi sono ad un tempo ed infelici,
ché iniqua stella il dì ch'io ti produssi
i talami paterni illuminava.
E nondimen d'Olimpo alle nevose
vette n'andrò, ragionerò con Giove
del fulmine signore, e al tuo desire
piegarlo tenterò. Tu statti intanto
alle navi; e nell'ozio del tuo brando
senta l'Achivo de' tuoi sdegni il peso.
Perocché ieri in grembo all'Oceàno
fra gl'innocenti Etïopi discese
Giove a convito, e il seguîr tutti i numi.
Dopo la luce dodicesma al cielo
tornerà. Recherommi allor di Giove
agli eterni palagi; al suo ginocchio
mi gitterò, supplicherò, né vana
d'espugnarne il voler speranza io porto.
Partì, ciò detto; e lui quivi di bile
macerato lasciò per la fanciulla
suo mal grado rapita. Intanto a Crisa
colla sacra ecatombe Ulisse approda.
Nel seno entrati del profondo porto,
le vele ammaïnâr, le collocaro
dentro il bruno naviglio, e prestamente
dechinâr colle gomone l'antenna,
e l'adagiâr nella corsìa. Co' remi
il naviglio accostâr quindi alla riva;
e l'ancore gittate, e della poppa
annodati i ritegni, ecco sul lido
tutta smontar la gente, ecco schierarsi
l'ecatombe d'Apollo, e dalla nave
dell'onde vïatrice ultima uscire
Crisëide. All'altar l'accompagnava
l'accorto Ulisse, ed alla man del caro
genitor la ponea con questi accenti:
Crise, il re sommo Agamennón mi manda
a ti render la figlia, e offrir solenne
un'ecatombe a Febo, onde gli sdegni
placar del nume che gli Achei percosse
d'acerbissima piaga. - In questo dire
l'amata figlia in man gli cesse; e il vecchio
la si raccolse giubilando al petto.
Tosto dintorno al ben costrutto altare
in ordinanza statuîr la bella
ecatombe del Dio; lavâr le palme,
presero il sacro farro, e Crise alzando
colla voce la man, fe' questo prego:
Dio che godi trattar l'arco d'argento,
tu che Crisa proteggi e la divina
Cilla, signor di Tènedo possente,
m'odi: se dianzi a mia preghiera il campo
acheo gravasti di gran danno, e onore
mi desti, or fammi di quest'altro voto
contento appieno. La terribil lue,
che i Dànai strugge, allontanar ti piaccia.
Sì disse orando, ed esaudillo il nume.
Quindi fin posto alle preghiere, e sparso
il salso farro, alzar fêr suso in prima
alle vittime il collo, e le sgozzaro.
tratto il cuoio, fasciâr le incise cosce
di doppio omento, e le coprîr di crudi
brani. Il buon vecchio su l'accese schegge
le abbrustolava, e di purpureo vino
spruzzando le venìa. Scelti garzoni
al suo fianco tenean gli spiedi in pugno
di cinque punte armati: e come fûro
rosolate le coste, e fatto il saggio
delle viscere sacre, il resto in pezzi
negli schidoni infissero, con molto
avvedimento l'arrostiro, e poscia
tolser tutto alle fiamme. Al fin dell'opra,
poste le mense, a banchettar si diero,
e del cibo egualmente ripartito
sbramârsi tutti. Del cibarsi estinto
e del bere il desìo, d'almo lïeo
coronando il cratere, a tutti in giro
ne porsero i donzelli, e fe' ciascuno,
libagion colle tazze. E così tutto
cantando il dì la gioventude argiva,
e un allegro peàna alto intonando,
laudi a Febo dicean, che nell'udirle
sentìasi tocco di dolcezza il core.
Fugato il sole dalla notte, ei diersi
presso i poppesi della nave al sonno.
Poi come il cielo colle rosee dita
la bella figlia del mattino aperse,
conversero la prora al campo argivo,
e mandò loro in poppa il vento Apollo.
Rizzâr l'antenna, e delle bianche vele
il seno dispiegâr. L'aura seconda
le gonfiava per mezzo, e strepitoso,
nel passar della nave, il flutto azzurro
mormorava dintorno alla carena.
Giunti agli argivi accampamenti, in secco
trasser la nave su la colma arena,
e lunghe vi spiegâr travi di sotto
acconciamente. Per le tende poi
si dispersero tutti e pe' navili.
Appo i suoi legni intanto il generoso
Pelìde Achille nel segreto petto
di sdegno si pascea, né al parlamento,
scuola illustre d'eroi, né alle battaglie
più comparìa; ma il cor struggea di doglia
lungi dall'armi, e sol dell'armi il suono
e delle pugne il grido egli sospira.
Rifulse alfin la dodicesma aurora,
e tutti di conserva al ciel gli Eterni
fean ritorno, ed avanti iva il re Giove.
Memore allor del figlio e del suo prego,
Teti emerse dal mare, e mattutina
in cielo al sommo dell'Olimpo alzossi.
Sul più sublime de' suoi molti gioghi
in disparte trovò seduto e solo
l'onniveggente Giove. Innanzi a lui
la Dea s'assise, colla manca strinse
le divine ginocchia, e colla destra
molcendo il mento, e supplicando disse:
Giove padre, se d'opre e di parole
giovevole fra' numi unqua ti fui,
un mio voto adempisci. Il figlio mio,
cui volge il fato la più corta vita,
deh, m'onora il mio figlio a torto offeso
dal re supremo Agamennón, che a forza
gli rapì la sua donna, e la si tiene.
Onoralo, ti prego, olimpio Giove,
sapientissimo Iddio; fa che vittrici
sien le spade troiane, infin che tutto
e doppio ancora dagli Achei pentiti
al mio figlio si renda il tolto onore.
Disse; e nessuna le facea risposta
il procelloso Iddio; ma lunga pezza
muto stette, e sedea. Teti il ginocchio
teneagli stretto tuttavolta, e i preghi
iterando venìa: Deh, parla alfine;
dimmi aperto se nieghi, o se concedi;
nulla hai tu che temer; fa ch'io mi sappia
se fra le Dee son io la più spregiata.
Profondamente allora sospirando
l'adunator de' nembi le rispose:
Opra chiedi odiosa che nemico
farammi a Giuno, e degli ontosi suoi
motti bersaglio. Ardita ella mai sempre
pur dinanzi agli Dei vien meco a lite,
e de' Troiani aiutator m'accusa.
Ma tu sgombra di qua, ché non ti vegga
la sospettosa. Mio pensier fia poscia
che il desir tuo si cómpia, e a tuo conforto
abbine il cenno del mio capo in pegno.
Questo fra' numi è il massimo mio giuro,
né revocarsi, né fallir, né vana
esser può cosa che il mio capo accenna.
Disse; e il gran figlio di Saturno i neri
sopraccigli inchinò. Su l'immortale
capo del sire le divine chiome
ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo.
Così fermo l'affar si dipartiro.
Teti dal ciel spiccò nel mare un salto;
Giove alla reggia s'avviò. Rizzârsi
tutti ad un tempo da' lor troni i numi
verso il gran padre, né veruno ardissi
aspettarne il venir fermo al suo seggio,
ma mosser tutti ad incontrarlo. Ei grave
si compose sul trono. E già sapea
Giuno il fatto del Dio; ch'ella veduto
in segreti consigli avea con esso
la figlia di Nerèo, Teti la diva
dal bianco piede. Con parole acerbe
così dunque l'assalse: E qual de' numi
tenne or teco consulta, o ingannatore?
Sempre t'è caro da me scevro ordire
tenebrosi disegni, né ti piacque
mai farmi manifesto un tuo pensiero.
E degli uomini il padre e degli Dei
le rispose: Giunon, tutto che penso
non sperar di saperlo. Ardua ten fôra
l'intelligenza, benché moglie a Giove.
Ben qualunque dir cosa si convegna,
nullo, prima di te, mortale o Dio
la si saprà. Ma quel che lungi io voglio
dai Celesti ordinar nel mio segreto,
non dimandarlo né scrutarlo, e cessa.
Acerbissimo Giove, e che dicesti?
Riprese allor la maestosa il guardo
veneranda Giunon: gran tempo è pure
che da te nulla cerco e nulla chieggo,
e tu tranquillo adempi ogni tuo senno.
Or grave un dubbio mi molesta il core,
che Teti, del marin vecchio la figlia,
non ti seduca; ch'io la vidi, io stessa,
sul mattino arrivar, sederti accanto,
abbracciarti i ginocchi; e certo a lei
di molti Achivi tu giurasti il danno
appo le navi, per onor d'Achille.
E a rincontro il signor delle tempeste:
Sempre sospetti, né celarmi io posso,
spirto maligno, agli occhi tuoi. Ma indarno
la tua cura uscirà, ch'anzi più sempre
tu mi costringi a disamarti, e questo
a peggio ti verrà. S'al ver t'apponi,
che al ver t'apponga ho caro. Or siedi, e taci,
e m'obbedisci; ché giovarti invano
potrìan quanti in Olimpo a tua difesa
accorresser Celesti, allor che poste
le invitte mani nelle chiome io t'abbia.
Disse; e chinò la veneranda Giuno
i suoi grand'occhi paurosa e muta,
e in cor premendo il suo livor s'assise.
Di Giove in tutta la magion le fronti
si contristâr de' numi, e in mezzo a loro
gratificando alla diletta madre
Vulcan l'inclito fabbro a dir sì prese:
Una malvagia intolleranda cosa
questa al certo sarà, se voi cotanto,
de' mortali a cagion, piato movete,
e suscitate fra gli Dei tumulto.
De' banchetti la gioia ecco sbandita,
se la vince il peggior. Madre, t'esorto,
benché saggia per te; vinci di Giove,
vinci del padre coll'ossequio l'ira,
onde a lite non torni, e del convito
ne conturbi il piacer; ch'egli ne puote,
del fulmine signore e dell'Olimpo,
dai nostri seggi rovesciar, se il voglia;
perocché sua possanza a tutte è sopra.
Or tu con care parolette il molci,
e tosto il placherai. - Surse, ciò detto,
ed all'amata genitrice un tondo
gemino nappo fra le mani ei pose,
bisbigliando all'orecchio: O madre mia,
benché mesta a ragion, sopporta in pace,
onde te con quest'occhi io qui non vegga,
te, che cara mi sei, forte battuta;
ché allor nessuna con dolor mio sommo
darti aìta io potrei. Duro egli è troppo
cozzar con Giove. Altra fiata, il sai,
volli in tuo scampo venturarmi. Il crudo
afferrommi d'un piede, e mi scagliò
dalle soglie celesti. Un giorno intero
rovinai per l'immenso, e rifinito
in Lenno caddi col cader del sole,
dalli Sinzii raccolto a me pietosi.
Disse; e la Diva dalle bianche braccia
rise, e in quel riso dalla man del figlio
prese il nappo. Ed ei poscia agli altri Eterni,
incominciando a destra, e dal cratere
il nèttare attignendo, a tutti in giro
lo mescea. Suscitossi infra' Beati
immenso riso nel veder Vulcano
per la sala aggirarsi affaccendato
in quell'opra. Così, fino al tramonto,
tutto il dì convitossi, ed egualmente
del banchetto ogni Dio partecipava.
Né l'aurata mancò lira d'Apollo,
né il dolce delle Muse alterno canto.
Ratto, poi che del Sol la luminosa
lampa si spense, a' suoi riposi ognuno
ne' palagi n'andò, che fabbricati
a ciascheduno avea con ammirando
artifizio Vulcan l'inclito zoppo.
E a' suoi talami anch'esso, ove qual volta
soave l'assalìa forza di sonno,
corcar solea le membra, il fulminante
Olimpio s'avvïò. Quivi salito
addormentossi il nume, ed al suo fianco
giacque l'alma Giunon che d'oro ha il trono.


LIBRO SECONDO


Tutti ancora dormìan per l'alta notte
i guerrieri e gli Dei; ma il dolce sonno
già le pupille abbandonato avea
di Giove che pensoso in suo segreto
divisando venìa come d'Achille,
con molta strage delle vite argive,
illustrar la vendetta. Alla divina
mente alfin parve lo miglior consiglio
invïar all'Atride Agamennóne
il malefico Sogno. A sé lo chiama,
e con presto parlar, Scendi, gli dice,
scendi, Sogno fallace, alle veloci
prore de' Greci, e nella tenda entrato
d'Agamennón, quant'io t'impongo, esponi
esatto ambasciator. Digli che tutte
in armi ei ponga degli Achei le squadre,
che dell'iliaco muro oggi è decreta
su nel ciel la caduta; che discordi
degli eterni d'Olimpo abitatori
più non sono le menti; che di Giuno
cessero tutti al supplicar; che in somma
l'estremo giorno de' Troiani è giunto.
Disse; ed il Sogno, il divin cenno udito,
avvïossi e calossi in un baleno
su l'argoliche navi. Entra d'Atride
nel queto padiglione, e immerso il trova
nella dolcezza di nettareo sonno.
Di Nestore Nelìde il volto assume,
di Nestore, cui sovra ogni altro duce
Agamennóne riveriva, e in queste
forme sul capo del gran re sospesa,
così la diva visïon gli disse:
Tu dormi, o figlio del guerriero Atrèo?
Tutta dormir la notte ad uom sconviensi
di supremo consiglio, a cui son tante
genti commesse e tante cure. Attento
dunque m'ascolta. A te vengh'io celeste
nunzio di Giove, che lontano ancora
su te veglia pietoso. Egli precetto
ti fa di porre tutti quanti in arme
prontamente gli Achei. Tempo è venuto
che l'ampia Troia in tua man cada: i numi
scesero tutti, intercedente Giuno,
in un solo volere, e alla troiana
gente sovrasta l'infortunio estremo
preparato da Giove. Or tu ben figgi
questo avviso nell'alma, e fa che seco
non lo si porti, col partirsi, il sonno.
Sparve ciò detto; e delle udite cose,
di che contrario uscir dovea l'effetto,
pensoso lo lasciò. Prender di Troia
quel dì stesso le mura egli sperossi,
né di Giove sapea, stolto! i disegni,
né qual aspro pugnar, né quanta il Dio
di lagrime cagione e di sospiri
ai Troiani e agli Achivi apparecchiava.
Si riscuote dal sonno, e la divina
voce dintorno gli susurra ancora.
Sorge, e del letto su la sponda assiso
una molle s'avvolge alla persona
tunica intatta, immacolata; gittasi
il regal manto indosso; il piè costringe
ne' bei calzari; il brando aspro e lucente
d'argentee borchie all'omero sospende,
l'invïolato avito scettro impugna,
ed alle navi degli Achei cammina.
Già sul balzo d'Olimpo alta ascendea
di Titon la consorte, annunziatrice
dell'alma luce a Giove e agli altri Eterni;
quando con chiara voce i banditori
per comando d'Atride a parlamento
convocaro gli Achei, che frettolosi
accorsero e frequenti. Ma raccolse
de' magnanimi duci Agamennóne
prima il senato alla nestorea nave,
e raccolti che fûro, in questi accenti
il suo prudente consultar propose:
M'udite, amici. Nella queta notte
una divina visïon m'apparve,
che te, Nestore padre, alla statura,
agli atti, al volto somigliava in tutto.
Sul mio capo librossi, e così disse:
Figlio d'Atrèo, tu dormi? A sommo duce
cui di tanti guerrieri e tante cure
commesso è il pondo, non s'addice il sonno.
M'odi adunque: mandato a te son io
da Giove che dal ciel di te pensiero
prende e pietate. Ei tutte ti comanda
armar le truppe de' chiomati Achei,
ché di Troia il conquisto oggi è maturo;
poiché di Giuno il supplicar compose
la discordia de' numi, e grave ai Teucri
danno sovrasta per voler di Giove.
Tu di Giove il comando in cor riponi.
Sparve, ciò detto, e quel mio dolce sonno
m'abbandonò. La guisa or noi di porre
gli Achivi in arme esaminiam. Ma pria
giovi con finto favellar tentarne,
fin dove lice, i sentimenti. Io dunque
comanderò che su le navi ognuno
si disponga alla fuga, e sparsi ad arte
voi l'impedite con opposti accenti.
Così detto s'assise. In piè rizzossi
dell'arenosa Pilo il regnatore
Nestore, e saggio ragionando disse:
O amici, o degli Achei principi e duci,
s'altro qualunque Argivo un cotal sogno
detto n'avesse, un menzogner l'avremmo,
e spregeremmo: ma lo vide il sommo
capo del campo. A risvegliar si corra
dunque l'acheo valore. - E sì dicendo
usciva il vecchio dal consiglio, e tutti
surti in piè lo seguìan gli altri scettrati
del re supremo ossequiosi. Intanto
il popolo accorrea. Quale dai fori
di cava pietra numeroso sbuca
lo sciame delle pecchie, e succedendo
sempre alle prime le seconde, volano
sui fior di aprile a gara, e vi fan grappolo
altre di qua affollate, altre di là;
così fuor delle navi e delle tende
correan per l'ampio lido a parlamento
affollate le turbe, e le spronava
l'ignea Fama, di Giove ambasciatrice.
Si congregaro alfin. Tumultuoso
brulicava il consesso, ed al sedersi
di tante genti il suol gemea di sotto.
Ben nove araldi d'acchetar fean prova
quell'immenso frastuono, alto gridando:
Date fine ai clamori, udite i regi,
udite, Achivi, del gran Dio gli alunni.
Sostârsi alfine: ne' suoi seggi ognuno
si compose, e cessò l'alto fragore.
Allor rizzossi Agamennón stringendo
lo scettro, esimia di Vulcan fatica.
Diè pria Vulcano quello scettro a Giove,
e Giove all'uccisor d'Argo Mercurio;
questi a Pelope auriga, esso ad Atrèo;
Atrèo morendo al possessor di pingui
greggi Tieste, e da Tieste alfine
nella destra passò d'Agamennóne,
che poi sovr'Argo lo distese, e sopra
isole molte. A questo il grande Atride
appoggiato, sì disse: Amici eroi,
Dànai, di Marte bellicosi figli,
in una dura e perigliosa impresa
Giove m'avvolse, Iddio crudel, che prima
mi promise e giurò delle superbe
iliache mura la conquista, e in Argo
glorioso il ritorno. Or mi delude
indegnamente, e dopo tante in guerra
vite perdute, di tornar m'impone
inonorato alle paterne rive.
Del prepotente Iddio questo è il talento,
di lui che nell'immensa sua possanza
già di molte città l'eccelse rocche
distrusse, e molte struggeranne ancora.
Ma qual onta per noi appo i futuri
che contra minor oste un tale e tanto
esercito di forti una sì lunga
guerra guerreggi; e non la cómpia ancora?
Certo se tutti convocati insieme
salda pace a giurar Teucri ed Achivi,
e di questi e di quei levato il conto,
ad ogni dieci Achivi un Teucro solo
mescer dovesse di lïeo la spuma,
molte decurie si vedrìan chiedenti
con labbro asciutto il mescitor: cotanto
maggior de' Teucri cittadini estimo
il numero de' nostri. Ma li molti
da diverse città raccolti e scesi
in lor sussidio bellicosi amici
duro intoppo mi fanno, e a mio dispetto
mi vietano espugnar d'Ilio le mura.
Già del gran Giove il nono anno si volge
da che giungemmo, e già marciti i fianchi
son delle navi, e logore le sarte;
e le nostre consorti e i cari figli
desïando ne stanno e richiamando
nelle vedove case. E noi l'impresa
che a queste sponde ne condusse, ancora
consumar non sapemmo. Al vento adunque,
diamo al vento le vele, io vel consiglio,
alla dolce fuggiam terra natìa
di concorde voler, ché disperata
delle mura troiane è la conquista.
Mosse quel dire delle turbe i petti,
e fremea l'adunanza, a quella guisa
che dell'icario mare i vasti flutti
si confondono allor che Noto ed Euro
della nube di Giove il fianco aprendo
a sollevar li vanno impetuosi.
E come quando di Favonio il soffio
denso campo di biade urta, e passando
il capo inchina delle bionde spiche;
tal si commosse il parlamento, e tutti
alle navi correan precipitosi
con fremito guerrier. Sotto i lor piedi
s'alza la polve, e al ciel si volve oscura.
I navigli allestir, lanciarli in mare,
espurgarne le fosse, ed i puntelli
sottrarre alle carene era di tutti
la faccenda e la gara. Arde ogni petto
del sacro amore delle patrie mura,
e tutto di clamori il cielo eccheggia.
E degli Achei quel dì sarìa seguìto,
contro il voler de' fati, il dipartire,
se con questo parlar non si volgea
Giuno a Minerva: O dell'Egìoco Padre
invincibile figlia, così dunque,
il mar coprendo di fuggenti vele,
al patrio lido rediran gli Achivi?
Ed a Priamo l'onore, ai Teucri il vanto
lasceran tutto dell'argiva Elèna
dopo tante per lei, lungi dal caro
nido natìo, qui spente anime greche?
Deh scendi al campo acheo, scendi, ed adopra
lusinghiero parlar, molci i soldati,
frena la fuga, né patir che un solo
de' remiganti pini in mar sia tratto.
Obbediente la cerulea Diva
dalle cime d'Olimpo dispiccossi
velocissima, e tosto fu sul lido.
Ivi Ulisse trovò, senno di Giove,
occupato non già del suo naviglio,
ma del dolor che il preme, e immoto in piedi.
Gli si fece davanti la divina
Glaucopide dicendo: O di Laerte
generoso figliuol, prudente Ulisse,
così dunque n'andrete? E al patrio suolo
navigherete, e lascerete a Priamo
di vostra fuga il vanto, ed ai Troiani
d'Argo la donna, e invendicato il sangue
di tanti, che per lei qui lo versaro,
bellicosi compagni? A che ti stai?
T'appresenta agli Achei, rompi gl'indugi,
dolci adopra parole e li trattieni,
né consentir che antenna in mar si spinga.
Così disse la Dea. Ne riconobbe
l'eroe la voce, e via gittato il manto,
che dopo lui raccolse il banditore
Eurìbate itacense, a correr diessi;
e incontrato l'Atride Agamennóne,
ratto ne prende il regal scettro, e vola
con questo in pugno tra le navi achee;
e quanti ei trova o duci o re, li ferma
con parlar lusinghiero; e, Che fai, dice,
valoroso campione? A te de' vili
disconvien la paura. Or via, ti resta,
pregoti, e gli altri fa restar. La mente
ben palese non t'è d'Agamennóne;
egli tenta gli Achei, pronto a punirli.
Non tutti han chiaro ciò che dianzi in chiuso
consesso ei disse. Deh badiam, che irato
non ne percuota d'improvvisa offesa.
Di re supremo acerba è l'ira, e Giove,
che al trono l'educò, l'onora ed ama.
S'uom poi vedea del vulgo, e lo cogliea
vociferante, collo scettro il dosso
batteagli; e, Taci, gli garrìa severo,
taci tu tristo, e i più prestanti ascolta
tu codardo, tu imbelle, e nei consigli
nullo e nell'armi. La vogliam noi forse
far qui tutti da re? Pazzo fu sempre
de' molti il regno. Un sol comandi, e quegli
cui scettro e leggi affida il Dio, quei solo
ne sia di tutti correttor supremo.
Così l'impero adoperando Ulisse
frena le turbe, e queste a parlamento
dalle navi di nuovo e dalle tende
con fragore accorrean, pari a marina
onda che mugge e sferza il lido, ed alto
ne rimbomba l'Egeo. Queto s'asside
ciascheduno al suo posto: il sol Tersite
di gracchiar non si resta, e fa tumulto
parlator petulante. Avea costui
di scurrili indigeste dicerìe
pieno il cerèbro, e fuor di tempo, e senza
o ritegno o pudor le vomitava
contro i re tutti; e quanto a destar riso
infra gli Achivi gli venìa sul labbro,
tanto il protervo beffator dicea.
Non venne a Troia di costui più brutto
ceffo; era guercio e zoppo, e di contratta
gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso
di raro pelo. Capital nemico
del Pelìde e d'Ulisse, ei li solea
morder rabbioso: e schiamazzando allora
colla stridula voce lacerava
anche il duce supremo Agamennóne,
sì che tutti di sdegno e di corruccio
fremean; ma il tristo ognor più forti alzava
le rampogne e gridava: E di che dunque
ti lagni, Atride? che ti manca? Hai pieni
di bronzo i padiglioni e di donzelle,
delle vinte città spoglie prescelte
e da noi date a te primiero. O forse
pur d'auro hai fame, e qualche Teucro aspetti
che d'Ilio uscito lo ti rechi al piede,
prezzo del figlio da me preso in guerra,
da me medesmo, o da qualch'altro Acheo?
O cerchi schiava giovinetta a cui
mescolarti in amore alla spartita?
Eh via, che a sommo imperador non lice
scandalo farsi de' minori. Oh vili,
oh infami, oh Achive, non Achei! Facciamo
vela una volta; e qui costui si lasci
qui lui solo a smaltir la sua ricchezza,
onde a prova conosca se l'aita
gli è buona o no delle nostr'armi. E dianzi
nol vedemmo pur noi questo superbo
ad Achille, a un guerrier che sì l'avanza
di fortezza, for onta? E dell'offeso
non si tien egli la rapita schiava?
Ma se d'Achille il cor di generosa
bile avvampasse, e un indolente vile
non si fosse egli pur, questo sarìa
stato l'estremo de' tuoi torti, Atride.
Così contra il supremo Agamennóne
impazzava Tersite. Gli fu sopra
repente il figlio di Laerte, e torvo
guatandolo gridò: Fine alle tue
faconde ingiurie, ciarlator Tersite.
E tu sendo il peggior di quanti a Troia
con gli Atridi passâr, tu audace e solo
non dar di cozzo ai re, né rimenarli
su quella lingua con villane aringhe,
né del ritorno t'impacciar, ché il fine
di queste cose al nostro sguardo è oscuro,
né sappiam se felice o sventurato
questo ritorno riuscir ne debba.
Ma di tue contumelie al sommo Atride
so ben io lo perché: donato il vedi
di molti doni dagli achivi eroi,
per ciò ti sbracci a maledirlo. Or io
cosa dirotti che vedrai compiuta.
Se com'oggi insanir più ti ritrovo,
caschimi il capo dalle spalle, e detto
di Telemaco il padre io più non sia,
mai più, se non t'afferro, e delle vesti
tutto nudo, da questo almo consesso
non ti caccio malconcio e piangoloso.
Sì dicendo, le terga gli percuote
con lo scettro e le spalle. Si contorce
e lagrima dirotto il manigoldo
dell'aureo scettro al tempestar, che tutta
gli fa la schiena rubiconda; ond'egli
di dolor macerato e di paura
s'assise, e obbliquo riguardando intorno
col dosso della man si terse il pianto.
Rallegrò quella vista i mesti Achivi,
e surse in mezzo alla tristezza il riso;
e fu chi vòlto al suo vicin dicea:
Molte in vero d'Ulisse opre vedemmo
eccellenti e di guerra e di consiglio,
ma questa volta fra gli Achei, per dio!
fe' la più bella delle belle imprese,
frenando l'abbaiar di questo cane
dileggiator. Che sì, che all'arrogante
passò la frega di dar morso ai regi!
Mentre questo dicean, levossi in piedi
e collo scettro di parlar fe' cenno
l'espugnatore di cittadi Ulisse.
In sembianza d'araldo accanto a lui
la fiera Diva dalle luci azzurre
silenzio a tutti impose, onde gli estremi
del par che i primi udirne le parole
potessero, ed in cor pesarne il senno.
Allora il saggio diè principio: Atride,
questi Achivi di te vonno far oggi
il più infamato de' mortali. Han posto
le promesse in obblìo fatte al partirsi
d'Argo alla volta d'Ilïon, giurando
di non tornarsi che Ilïon caduto.
Guardali: a guisa di fanciulli, a guisa
di vedovelle sospirar li senti,
e a vicenda plorar per lo desìo
di riveder le patrie mura. E in vero
tal qui si pate traversìa, che scusa
il desiderio de' paterni tetti.
Se a navigante da vernal procella
impedito e sbattuto in mar che freme,
pur di un mese è crudel la lontananza
dalla consorte, che pensar di noi
che già vedemmo del nono anno il giro
su questo lido? Compatir m'è forza
dunque agli Achivi, se a mal cor qui stanno.
Ma dopo tanta dimoranza è turpe
vôti di gloria ritornar. Deh voi,
deh ancor per poco tollerate, amici,
tanto indugiate almen, che si conosca
se vero o falso profetò Calcante.
In cuor riposte ne teniam noi tutti
le divine parole, e voi ne foste
testimoni, voi sì quanti la Parca
non aveste crudel. Parmi ancor ieri
quando le navi achee di lutto a Troia
apportatrici in Aulide raccolte,
noi ci stavamo in cerchio ad una fonte
sagrificando sui devoti altari
vittime elette ai Sempiterni, all'ombra
d'un platano al cui piè nascea di pure
linfe il zampillo. Un gran prodigio apparve
subitamente. Un drago di sanguigne
macchie spruzzato le cerulee terga,
orribile a vedersi, e dallo stesso
re d'Olimpo spedito, ecco repente
sbucar dall'imo altare, e tortuoso
al platano avvinghiarsi. Avean lor nido
in cima a quello i nati tenerelli
di passera feconda, latitanti
sotto le foglie: otto eran elli, e nona
la madre. Colassù l'angue salito
gl'implumi divorò, miseramente
pigolanti. Plorava i dolci figli
la madre intanto, e svolazzava intorno
pietosamente; finché ratto il serpe
vibrandosi afferrò la meschinella
all'estremo dell'ala, e lei che l'aure
empiea di stridi, nella strozza ascose.
Divorata co' figli anco la madre,
del vorator fe' il Dio che lo mandava
nuovo prodigio; e lo converse in sasso.
Stupidi e muti ne lasciò del fatto
la meraviglia, e a noi, che dell'orrendo
portento fra gli altari intervenuto
incerti ci stavamo e paventosi,
Calcante profetò: Chiomati Achivi,
perché muti così? Giove ne manda
nel veduto prodigio un tardo segno
di tardo evento, ma d'eterno onore.
Nove augelli ingoiò l'angue divino,
nov'anni a Troia ingoierà la guerra,
e la città nel decimo cadrà.
Così disse il profeta, ed ecco omai
tutto adempirsi il vaticinio. Or dunque
perseverate, generosi Achei,
restatevi di Troia al giorno estremo.
Levossi a questo dire un alto grido,
a cui le navi con orribil eco
rispondean, grido lodator del saggio
parlamento d'Ulisse. Ed incalzando
quei detti il vecchio cavalier Nestorre,
Oh vergogna, dicea; sul vostro labbro
parole intesi di fanciulli a cui
nulla cal della guerra. Ove n'andranno
i giuramenti, le promesse e i tanti
consigli de' più saggi e i tanti affanni,
le libagioni degli Dei, la fede
delle congiunte destre? Dissipati
n'andran col fumo dell'altare? Achei,
noi contendiamo di parole indarno,
e in vane induge il tempo si consuma,
che dar si debbe a salutar riparo.
Tien fermo, Atride, il tuo coraggio, e fermo
su gli Achei nelle pugne alza lo scettro:
ed in proposte, che d'effetto vote
cadran mai sempre, marcir lascia i pochi
che in disparte consultano se in Argo
redir si debba, pria che falsa o vera
si conosca di Giove la promessa.
Io ti fo certo che il saturnio figlio,
il giorno che di Troia alla ruïna
sciolser gli Achivi le veloci antenne,
non dubbio cenno di favor ne fece
balenando a diritta. Alcun non sia
dunque che parli del tornarsi in Argo,
se prima in braccio di troiana sposa
non vendica d'Elèna il ratto e i pianti.
Se taluno pur v'ha che voglia a forza
di qua partirsi, di toccar si provi
il suo naviglio, e troverà primiero
la meritata morte. Tu frattanto
pria ti consiglia con te stesso, o sire,
indi cogli altri, né sprezzar l'avviso
ch'io ti porgo. Dividi i tuoi guerrieri
per curie e per tribù, sì che a vicenda
si porga aita una tribù con l'altra,
l'una con l'altra curia. A questa guisa,
obbedendo agli Achei, ti fia palese
de' capitani a un tempo e de' soldati
qual siasi il prode e quale il vil; ché ognuno
con emula virtù pel suo fratello
combatterà. Conoscerai pur anco
se nume avverso, o codardìa de' tuoi,
o poca d'armi maestrìa ti tolga
delle dardanie mura la conquista.
Saggio vegliardo, gli rispose Atride,
in tutti della guerra i parlamenti
nanzi a tutti tu vai. Piacesse a Giove,
a Minerva piacesse e al santo Apollo,
ch'altri dieci io m'avessi infra gli Achei
a te pari in consiglio; ed atterrata
cadrìa ben tosto la città troiana.
Ma me l'Egìoco Giove in alti affanni
sommerse, e incauto mi sospinse in vane
gare e contese. Di parole avemmo
gran lite Achille ed io d'una fanciulla,
ed io fui primo all'ira. Ma se fia
che in amistà si torni, un sol momento
non tarderà di Troia il danno estremo.
Or via, di cibo a ristorar le forze
itene tutti per la pugna. Ognuno
l'asta raffili, ognun lo scudo assetti,
di copioso alimento ognun governi
i corridor veloci, e diligente
visiti il cocchio, e mediti il conflitto;
onde questo sia giorno di battaglia
tutto e di sangue, e senza posa alcuna,
finché la notte non estingua l'ire
de' combattenti. Di guerrier sudore
bagnerassi la soga dello scudo
sui caldi petti, verrà manco il pugno
sovra il calce dell'asta, e destrier molli
trarranno il cocchio con infranta lena.
Qualunque io poscia scorgerò che lungi
dalla pugna si resti appo le navi
neghittoso, non fia chi salvo il mandi
dalla fame de' cani e degli augelli.
Così disse, e al finir di sue parole
mandâr gli Achivi un altissimo grido
somigliante al muggir d'onda spezzata
all'alto lido ove il soffiar la caccia
di furioso Noto incontro ai fianchi
di prominente scoglio, flagellato
da tutti i venti e da perpetue spume.
Si levâr frettolosi, si dispersero
per le navi, destâr per tutto il lido
globi di fumo, ed imbandîr le mense.
Chi a questo dio sacrifica, chi a quello,
al suo ciascun si raccomanda, e il prega
di camparlo da morte nella pugna.
Ma il re de' prodi Agamennóne un pingue
toro quinquenne al più possente nume
sagrifica, e convita i più prestanti:
Nestore primamente e Idomenèo,
quindi entrambi gli Aiaci, e di Tidèo
l'inclito figlio, e sesto il divo Ulisse.
Spontaneo venne Menelao, cui noto
era il travaglio del fratello. E questi
fêr di sé stessi una corona intorno
alla vittima, e preso il salso farro
nel mezzo Agamennóne orando disse:
Glorioso de' nembi adunatore
Massimo Giove abitator dell'etra,
pria che il sole tramonti e l'aria imbruni,
fa che fumanti al suol di Priamo io getti
gli alti palagi, e d'ostil fiamma avvampi
le regie porte; fa che la mia lancia
squarci l'usbergo dell'ettòreo petto,
e che dintorno a lui molti suoi fidi
boccon distesi mordano la polve.
Disse; ed il nume l'olocausto accolse,
ma non il voto, e a lui più lutto ancora
preparando venìa. Finito il prego
e sparso il farro, ed incurvato all'ara
della vittima il collo, la scannaro,
la discuoiaro, ne squartâr le cosce,
le rivestîr di doppio zirbo, e sopra
poservi i crudi brani. Indi la fiamma
d'aride schegge alimentando, a quella
cocean gli entragni nello spiedo infissi.
Adusti i fianchi, e fatto delle sacre
viscere il saggio, lo restante in pezzi
negli schidon confissero, ed acconcia-
-mente arrostito ne levaro il tutto.
Finita l'opra, apparecchiâr le mense,
e a suo talento vivandò ciascuno.
Di cibo sazi e di bevanda, prese
a così dire il cavalier Nestorre:
Re delle genti glorioso Atride
Agamennón, si tolga ogni dimora
all'impresa che in pugno il Dio ne pone.
Degli araldi la voce alla rassegna
chiami sul lido i loricati Achei,
e noi scorriamo le raccolte squadre,
e di Marte destiam l'ira e il desìo.
Assentì pronto il sire, ed al suo cenno
l'acuto grido degli araldi diede
della pugna agli Achivi il fiero invito.
Corsero quelli frettolosi; e i regi
di Giove alunni, che seguìan l'Atride,
li ponean ratti in ordinanza. Errava
Minerva in mezzo, e le splendea sul petto
incorrotta, immortal la prezïosa
Egida da cui cento eran sospese
frange conteste di finissim'oro,
e valea cento tauri ogni gherone.
In quest'arme la Diva folgorando
concitava gli Achivi, ed accendea
l'ardir ne' petti, e li facea gagliardi
a pugnar fieramente e senza posa.
Allor la guerra si fe' dolce al core
più che il volger le vele al patrio nido.
Siccome quando la vorace vampa
sulla montagna una gran selva incende,
sorge splendor che lungi si propaga;
così al marciar delle falangi achive
mandan l'armi un chiaror che tutto intorno
di tremuli baleni il cielo infiamma.
E qual d'oche o di gru volanti eserciti
ovver di cigni che snodati il tenue
collo van d'Asio ne' bei verdi a pascere
lungo il Caïstro, e vagolando esultano
su le larghe ale, e nel calar s'incalzano
con tale un rombo che ne suona il prato;
così le genti achee da navi e tende
si diffondono in frotte alla pianura
del divino Scamandro, e il suol rimbomba
sotto il piè de' guerrieri e de' cavalli
terribilmente. Nelle verdi lande
del fiume s'arrestâr gremìti e spessi
come le foglie e i fior di primavera.
Conti lo sciame dell'impronte mosche
che ronzano in april nella capanna,
quando di latte sgorgano le secchie,
chi contar degli Achei desìa le torme
anelanti de' Teucri alla rovina.
Ma quale è de' caprai la maestrìa
nel divider le greggie, allor che il pasco
le confonde e le mesce, a questa guisa
in ordinate squadre i capitani
schieravano gli Achivi alla battaglia.
Agamennón qual tauro era nel mezzo,
che nobile e sovrana alza la fronte
sovra tutto l'armento e lo conduce:
e tal fra tanti eroi Giove gl'infonde
e garbo e maestà, che Marte al cinto,
Nettunno al petto, e il Folgorante istesso
negli sguardi somiglia e nella testa.
Muse dell'alto Olimpo abitatrici,
or voi ne dite (ché voi tutte, o Dive,
riguardate le cose e le sapete:
a noi nessuna è conta, e ne susurra
di fuggitiva fama un'aura appena),
dite voi degli Achivi i condottieri.
Della turba infinita io né parole
farò né nome, ché bastanti a questo
non dieci lingue mi sarìan né dieci
bocche, né voce pur di ferreo petto.
Di tutta l'oste ad Ilio navigata
divisar la memoria altri non puote
che l'alme figlie dell'Egìoco Giove.
Sol dunque i duci, e sol le navi io canto.
Erano de' Beozi i capitani
Arcesilao, Leìto e Penelèo
e Protenore e Clonio, e traean seco
d'Iria i coloni e d'Aulide petrosa,
con quei di Scheno e Scolo, e quei dell'erta
Eteono e di Tespia, e quei che manda
la spazïosa Micalesso e Grea;
e quei che d'Arma la contrada edùca,
ed Ilesio ed Erìtre ed Eleone
e Peteone ed Ila ed Ocalèa.
Seguono i prodi della ben costrutta
Medeone e di Cope, e gli abitanti
d'Eutresi e Tisbe di colombe altrice.
Di Coronèa vien dopo e dell'erbosa
Alïarto e di Glissa e di Platèa
e d'Ipotebe dalle salde mura
una gran torma: ed altri abbandonaro
le sacrate a Nettunno inclite selve
d'Onchesto, e d'Arne i pampinosi colli;
altri il pian di Midèa; altri di Nisa
gli
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