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Info sull'Opera
Autore:
Matilde Serao
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

ALL'ERTA, SENTINELLA!

di Matilde Serao

ALL'ERTA, SENTINELLA!
TERNO SECCO
TRENTA PER CENTO - O GIOVANNINO O LA MORTE
RACCONTI NAPOLETANI

ALL'ERTA, SENTINELLA!
I.
Nella luminosa e calda ora pomeridiana, il paesaggio napoletano aveva dormito assai, deserto, silenzioso, immobile sotto il leonino sole di agosto. Nella lunga siesta, da mezzogiorno alle quattro, nessuna ombra d'uomo si era veduta, apparendo e sparendo, sulla gran pianura verde dei Bagnoli; sulla larga via bianca, a sinistra, che viene da Posillipo, rasentando l'ultimo spalto di quella collina che è anche un capo, larga via che è la delizia di quanti amano Napoli, stranieri e indigeni, non una carrozza, non un carretto; non una carrozza, non un carretto sulla dritta via, chiamata di Fuorigrotta, e che ai Bagnoli trova il suo primo angolo, voltando per andare a Pozzuoli, a Cuma, a Baia; non una nave sul mare, che sorpassasse il bellissimo capo di Posillipo, per andarsene lontano, linea nera filante, sormontata da un vago piumetto di fumo; non una vela bianca nel canale di Procida; non una barchetta intorno alla verde isola di Nisida, che prospetta, in tutta la sua lunghezza, la spiaggia dolce dei Bagnoli. Durante la siesta, il piccolo stabilimento di bagni marini, sulla spiaggia, era rimasto deserto, lasciando vedere, dalle porticine spalancate e battenti al ponente, i camerini vuoti; l'osteria dei Bagnoli, ritrovo di buontemponi, di duellanti, di amanti, aveva sbarrate tutte le sue finestre, sbarrate tutte le porte delle sue terrazze. Non un canto giungeva, non un grido, non una voce; il mare stesso, luccicante al sole, pareva immobilizzato nel grande sonno degli uomini e delle cose. Solo il ponente aveva soffiato, per qualche tempo, dal mare alla terra, sollevando dei turbini di polvere sulle due strade di Posillipo e di Fuorigrotta, piegando e sollevando i fitti papaveri delle coste verdi, facendo roteare delle picciole trombe di arena bigiastra della spiaggia, facendo agitare le persiane sospese delle case bianche e sfrondando le passiflore sui pergolati delle terrazze, nell'osteria dei Bagnoli. Ma il ponente, si sa, serve a cullare col suo rombo il paesaggio napoletano che dorme, è la canzone che concilia il sonno delle persone, delle case e degli alberi.
Ma l'ora pomeridiana declinava nel lungo crepuscolo estivo, diffondendo una grande dolcezza intorno. Una moglie di marinaio, alta, bruna, magra, dalle gambe color bronzo e dai piedi nudi, uscì dallo stabilimento dei bagni e si mise a raccogliere, dai pali di legno donde pendevano, le lenzuola che il sole aveva asciugate. Portava sul capo una larga paglia bagnata e sfondata, guarnita da un nastro rosso: e cantava allegramente:

E lacce songh'e seta
E buttune songh'e velluto
E o primmo nnamurato
M'a lassato e se nn'è ghiuto!

Ogni tanto, mentre andava raccogliendo un carico di lenzuola, sotto cui scompariva la sua lunga figura, guardava verso la villa Carrano, come se aspettasse. Infatti dalla villa uscì una torma di fanciulletti e di fanciullette, bellissime creature inglesi, condotte dalla governante e dalla cameriera, cariche di sacchi, di provvigioni, di borsette. La marinara si fermò, facendo solecchio con una mano, avendo buttato sopra una spalla tutto il carico delle lenzuola, e i bimbi che l'avevano raggiunta, la circondarono, saltando sulla piattaforma di legno; scuotendo i bei capelli biondi pioventi sulle spalle; sgambettando, malgrado le ammonizioni inglesi della governante, mentre la marinara rideva con la sua larga bocca, dai grossi denti rigati di nero: tre o quattro camerini si chiusero, e dopo dieci minuti, tutta la torma dei fanciulletti e delle fanciullette se ne andava nuotando, fra la dolce spiaggia dei Bagnoli e l'isola di Nisida, coraggiosamente, soffiando, gridando con certe curiose voci gutturali, tendendo le manine, perchè la marinara buttasse loro le ciambelle dall'alto della piattaforma di legno. Tutta la spiaggia parea ridesse, con la marinara e coi ragazzi.
Dalla via di Fuorigrotta qualche carretto giungeva, andandosene a dritta, verso Pozzuoli: carretto di ortolano, vuoto, che aveva venduto in Napoli tutti i pomidoro e tutte le molignane di cui era arrivato carico, al mattino: carretto di vinaio dalle botti vuote, che aveva deposto il suo carico di vino del Monte di Procida, in città; e i carrettieri, seduti sopra uno stretto angolo anteriore del carretto, con le gambe sospese, la giacchetta buttata sopra una spalla, andavano trottando, col carro vuoto che trabalzava e il fischiettìo allegro della loro canzone, che accompagnava il leggero trotto. Passò anche un lungo carro stretto di anfore panciute, rotonde, di creta, chiuse da un tappo di sughero, le mummare napoletane, che erano ancora umide e odoranti acremente dell'acqua minerale, che avevano portata in città: il carrettiere era in camicia e calzoni di tela bianca, scalzo, con un berretto scuriccio e lungo, una corta pipetta da marinaio fra le labbra.
Anche dalla via di Posillipo qualche veicolo compariva: ma erano carrozze cariche di provinciali venuti in Napoli a fare i bagni e che visitavano scrupolosamente i dintorni, non pigliandovi nessun piacere, ma volendo aver l'aria di forestieri: il cocchiere si fermava sulla spiaggia, spiegando che quello era il poligono dei Bagnoli, dove la mattina, all'alba, i soldati venivano a fare le esercitazioni e che quell'isola si chiamava Nisida, Niseta.
- Bella, bella - esclamavano i provinciali, guardando l'isola verde che leggiadramente si specchiava nel mare, già diventato color di acciaio.
Il cocchiere crollava le spalle camminando avanti, voltando per la via di Fuorigrotta, portando i suoi provinciali sotto la grotta. Ovvero era qualche equipaggio padronale che spuntava dalla via di Posillipo, conducente qualche signora bella ed elegante restata a Napoli per combinazione, o per dispetto, o per capriccio, rinunziando ai piaceri del viaggio estivo; e il cocchiere andava lentamente, mentre l'ombrellino grande, bianco, foderato di rosso, circondava della sua aureola una testa pensosa: anche questa carrozza si fermava sulla spiaggia, per guardare la bella isola di Nisida, e mentre la carrozza continuava lentamente il suo giro, verso Fuorigrotta, per ritornare in città, la signora fantasticava che fosse quel punto luminoso, luminosissimo che i suoi buoni occhi acuti avevano scoperto fra il verde, sulla cima dell'isola di Nisida.
Tutte le finestre dell'osteria, adesso erano spalancate, sul mare, sulla pianura dei Bagnoli, sulla via di Fuorigrotta; e sulla grande terrazza coperta dal pergolato delle passiflore, due camerieri assai rustici, ancora sonnacchiosi, tiravano delle tavole greggie, dai piedi dipinti di nero, dove stendevano le tovaglie, mettevano la saliera in mezzo e dei bicchieri di grosso cristallo verdastro, capovolti. A una finestra, due guardavano il mare: una donna giovane, bionda, bianca e delicata, vestita di un semplice abitino di tela azzurra scura, e un uomo sui quarant'anni, bruno, bello, pensoso.
Due volte la donna si chinò verso l'uomo, chiedendogli qualche cosa, con un sorriso, poggiandogli lievemente la mano sul braccio, ed egli parve rispondere vagamente, come pensando ad altro. La donna lo abbandonò alla finestra, senza che egli dicesse nulla, e comparve sulla terrazza, guardando i bimbi inglesi che strillavano allegramente nell'acqua, strappando dal pergolato un largo fiore di passiflora, di cui tirava i petali, coi dentini; ma come affascinata, ritornò a lui, alla finestra, parlandogli sottovoce, indicandogli l'isola di Nisida, lungamente, mentre egli ascoltava, crollando il capo, sorridendo un poco, come consentendo al racconto bizzarro di un sogno.
Anche il mare, nella molle ora del crepuscolo estivo, parea si fosse risvegliato dal sonno della siesta pomeridiana: presso a riva strideano le voci dei fanciulli che si bagnavano, ridendo e schiamazzando, mentre la marinara, rivolta verso la spiaggia, chiamava a distesa: Aniello, Aniello! Adesso tre paranze avevano passato il canale di Procida e venivano verso Pozzuoli, seguendosi, filando sotto la brezza della sera che si levava, senza che si vedesse il moto continuo con cui lasciavano andare in mare la sciabica, la grande rete di quelle fratellanze marinare e pescatrici che sono le paranze. A un tratto, dietro a due lavandaie che tornavano da Napoli per la via di Fuorigrotta, portando sul capo due grossi fardelli di biancheria, si udì il trotto sordo di un cavallo che levava i piedi in misura; veniva anche esso da Napoli, per la strada diritta e polverosa. Era una carrozza nera nera e lunga; un forgone tutto chiuso, che non rassomigliava nè a quello delle Regie Poste, col piccolo coupé innanzi, nè al forgone dove si conducono i soldati convalescenti: era un forgone nero nero, tutto serrato, con gli sportelli di legno sollevati, un forgone che somigliava al carrettone municipale, che porta al camposanto i morti in tempo di epidemia e che la buona gente napoletana non vede passare di giorno, non ode passare la notte, senza segnarsi, senza mormorare sottovoce una preghiera, o senza borbottare uno scongiuro. Ma non era il carrettone dei morti. Il forgone passò rapidamente sotto la villa Carrano, sotto l'osteria dei Bagnoli: una vecchia miss che leggeva sulla porta della villa, aspettando i nipoti che ritornavano dal bagno, inforcò meglio gli occhiali per vedere la negra carrozza; la donnina bionda alla finestra si tirò indietro, come sgomenta, ma la curiosità la vinse, si piegò di nuovo, seguendo con gli occhi la tetra carrozza, ma avendo infilato il suo braccio a quello del suo innamorato come per bisogno di protezione: la negra carrozza passò innanzi al picciolo stabilimento di bagni, dove la marinara, adesso, spazzava la viottola di legno innanzi ai camerini, e la meraviglia la fece restare immobile, col grosso bastone della granata fra le mani: i fanciulli che si erano sdraiati, nei loro vestitini da bagno, di maglia, sull'arena calda, si levarono su, sorpresi. Il negro forgone si era fermato sull'arena, poco lontano da loro; la porticina di dietro, l'unica sua porta, si era aperta, ne era sceso un carabiniere, poi un altro; nella penombra cupa del forgone si scorgeva un altro pennacchio rosso. Pazientemente i carabinieri aspettavano, fermi sull'arena, sogguardando cautamente, ogni tanto verso Nisida: uno di essi, l'appuntato, si piegò verso la porticina aperta sempre, come per discorrere con coloro che stavano ancora dentro il forgone; parlamentò per due o tre minuti, col capo abbassato nel vano nero, poi si scostò un poco. Un altro carabiniere discese; e infine discese un uomo, un giovane, con un salto solo senza toccar la predella, restando diritto, immobile e taciturno tra i tre carabinieri che formavano, intorno a lui, uno stretto triangolo. Dalla villa Carrano, dall'osteria, dalla via di Posillipo, di Fuorigrotta, dai bagnetti si guardava intensamente. Alla comparsa dell'uomo, improvvisamente, fu un grande silenzio intorno: e un pallore mortale scolorò tutte le cose sulla terra e sul mare, come se il gran paesaggio e i suoi abitanti fossero stati vinti da un profondo brivido di emozione.
Egli era un giovanotto di venticinque anni, alto, forte, un po' curvo di spalle: il suo volto era bianchissimo, di una bianchezza fitta, opaca, di latte, la muliebre bianchezza di coloro che hanno i capelli rossi: e nel bianco volto, dalla pelle intatta, senza un pelo, appena appena macchiata di qualche rara lentiggine, egli aveva un paio di occhi azzurri, di un azzurro tenerissimo, occhi grandi e sereni e quasi candidi, come quelli di un fanciullo innocente. Vestito di un vecchio calzone verdastro, tutto macchie e sfilacciato all'orlo, di una vecchia giacchetta di lanetta marrone, attraverso cui si vedeva la camicia bianca, non avendo egli panciotto, con un berrettino nero bisunto che lasciava vedere la criniera rossa, fulva, egli restava tranquillo sotto quella ignobile livrea della miseria, respirando fortemente la brezza marina, come se fosse felice di quell'aria. Solo le sue mani erano incatenate: non già con le manette, che si chiamano in volgare della polizia castagnole e che stringono i due pollici, non già con le semplici manette che uniscono i polsi, ma incatenato con una vera e propria catena, che girava due volte intorno ai polsi, e si chiudeva in un grosso lucchetto, una specie di gioiello lugubre carcerario. E tutti gli occhi di coloro che guardavano questa scena, vecchi e fanciulli, donne e uomini, invariabilmente si volgevano a quella catena. Pure, egli non pareva soffrirne; non si guardava le mani, non cercava di sollevarle, quieto, dandosi evidentemente al piacere di respirare, egli che veniva da un carcere di pietra, chiuso e soffocante. Se quella catena non fosse stata, forse, tutti intorno non lo avrebbero guardato più: mentre quel giro di ferro, solidamente saldato, che ne avvinghiava i polsi, affascinava tutti quanti. Poteva essere un uomo, come tutti quanti, libero, contento, venuto colà per qualche affare di carcere, coi carabinieri, poteva essere un impiegato, o un liberato, o un testimone, o un parente di qualcuno che abitasse colà. Ma la catena che lo legava nei suoi invincibili anelli di ferro, era la sua qualità, il suo nome, la sua storia; la catena che è la condanna, la catena che è la parola dell'orrendo mistero. Ah invano egli era forte, giovane, dal volto bianco e delicato, dagli occhi azzurri qual bimbo che ignora il male; invano se ne stava tranquillo senza guardare la gente e senza sfidarla, vinto dalla dolcezza del gran paesaggio; invano egli avea l'aria semplice e pacifica, sogguardando ogni tanto con ingenua curiosità l'isola di Nisida - invano, poichè quella catena era il dramma truce, sanguinolente, quella catena diceva a tutti che egli era un essere pernicioso, malvagio, condannato dalla giustizia degli uomini, condannato dalla legge.
La catena, la catena! Era quella che faceva tacere, in un profondo silenzio, le risa dei fanciulli, la voce grossa della marinara, il richiamo allegro dei pescatori, le parole d'amore della donnina bionda alla finestra, lo scoppiettìo della frusta dei cocchieri avviati a Pozzuoli, la canzone dei carrettieri di passaggio. La catena! Era l'incubo di tutti, quel ferro implacabile che immobilizzava l'uomo; e l'uomo era un ladro, un micidiale, forse. E tutta la gran campagna verde e fiorita, intorno, tutto il bel mare profondo e colorito che circonda Nisida, come un lago poetico, e l'isola istessa sorgente dalle acque come un fresco boschetto di verde e di fiori, sembravano, nella improvvisa tristezza che li aveva colpiti, soffrire l'oppressione di quel ferro incatenatore; e le cose sembravano da quell'apparizione della perversità, della crudeltà, deturpate, violate nella loro innocenza, per sempre turbate, per sempre corrotte dalla presenza infame di un micidiale.
Ma una barca si distaccò dalla riva dell'isola fiorita e venne vogando verso la spiaggia dei Bagnoli: la conducevano due barcaiuoli vestiti di un turchiniccio scuro con berretti neri. Quieti, taciturni, i due barcaiuoli si piegavano sui remi che aprivano le onde, quasi senza rumore; e approdarono presto, con un urto sordo. Imbarcarono prima due carabinieri, poi il condannato con passo sicuro e con aria disinvolta, poi il terzo carabiniere: appena la barca si distaccò dalla spiaggia dei Bagnoli, il nero forgone che aveva aspettato l'imbarco voltò e sparve rapidissimamente per la via di Fuorigrotta, verso Napoli. Ora la barca, col suo carico, se ne andava a Nisida: più lentamente andava, mentre più profondamente si chinavano i barcaiuoli sui remi, come se assai pesante, assai pesante fosse il carico. Per quel mare bello, sospiro di amanti e di poeti, felicità dei marinari dei pescatori, per quel bel mare che è la lietezza dei fanciulli e dei poveretti, la barca del condannato andava, tetra, silenziosa, più tetra e più silenziosa che se portasse un cadavere. I carabinieri fedeli, seduti intorno a lui, non gli levavano un minuto l'occhio di dosso, più attenti, più zelanti, temendo di quel pericoloso tragitto di mare, sopra una barca, donde egli, forse, poteva tentare di buttarsi in mare: lo guardavano negli occhi, quasi che la pratica avesse loro insegnato, a quei semplici soldati, che la più nascosta volontà dell'uomo ha sempre un rapidissimo fulgore negli occhi. Ma il condannato, certo, non pensava a fuggire: sul mare conservava la sua tranquillità, come quando era sceso dal forgone. Anzi, si guardava intorno, con un certo piacere, come se fosse contento di quel viaggio per mare, all'aria libera, in quel cullante moto della barca. Teneva in grembo le mani incatenate, così, come se le avesse incrociate per un moto naturale: solo, taceva, fra il silenzio dei carabinieri e dei barcaiuoli del carcere. Ogni barca che attraversa il bel mare, barca di diporto rossa, per le cupole fiammanti degli ombrellini muliebri, o rude barca di lavoro, è piena di voci gioconde, di donne, di fanciulli, di pescatori; solo questa, cupa, taceva, portando con sè il condannato e la sua scorta, muta, tetra, portante via al castigo una tragedia umana.
- Eccoci - disse come fra sè, il condannato.
La barca aveva urtato contro il piccolo approdo di pietra dell'isola: i barcaiuoli la tenevano ferma, tenendola stretta a un forte piuolo dell'approdo. La scorta scese, sempre nell'ordine come era salita, tenendo fra sè il condannato.
- Fra poco - disse l'appuntato al primo barcaiuolo.
- Va bene.
E la salita all'isola cominciò, sopra la larga via saliente fra gli alberi, un gran viale ombroso, pieno del canto degli uccellini al tramonto. Mentre giù, all'approdo, già imbruniva, come salivano in su, in su, continuamente, trovavano ancora la luce delle sfere superiori. Il condannato levava il capo come se tutte quelle voci della natura lo inebbriassero. La via era lunga ma saliva senza sforzo all'alta sede dell'isola, saliva con dolce ascensione, come il largo viale di un parco, come se conducesse a un castello, sede del lusso e dei piaceri. Solo, ogni tanto, fra i boschetti d'alberi e le siepi delle rose, qualche cosa luccicava, ma il condannato non lo vedeva, guardava innanzi a sè, felice di quella lunga passeggiata, nella campagna, egli che aveva tanto girato, fra quattro pareti di pietra, come una bestia in gabbia. Solo, a un certo punto, come egli andava, quasi senza curarsi della scorta, udì un lieve movimento fra gli alberi: l'orecchio acuto del prigioniero lo colse, indovinò che fosse: ed egli impallidì, intendendo che era una sentinella, intendendo che quel luccicare era la canna di un fucile. Impallidì mortalmente e crollò il capo, come se gli fosse sfuggita una grande illusione. Forse, un momento, malgrado la catena, malgrado la scorta, ingannato da quel paesaggio campestre, aveva creduto di essere libero: un istante.
Nè più potette rifare questo sogno. Erano giunti a un muro di cinta, a una grande porta di ferro, sbarrata, guardata da una sentinella. L'appuntato mostrò un foglio: la sentinella depose il fucile e andò aprendo tutti i grandi catenacci della porta di ferro: essa si schiuse con un sibilo metallico, si richiuse pesantemente, dietro la scorta e dietro il condannato. Ora si trovavano in una piazzetta, circondata da piccole case a un piano, gli uffici del Regio Bagno Penale di Nisida. L'appuntato, che era pratico, si diresse verso una casa del centro a due piani, questa, ed entrò in un ufficio al pianterreno. Era magramente mobiliato, con due scrivanie, un divano, qualche sedia, il crocifisso, il ritratto del Re. Uno scritturale scarno, pallido, con la testa già spiumata, vestito miseramente, scriveva in un suo grande registro.
- Non vi è il direttore'? - chiese l'appuntato.
- Ora viene - rispose lo scritturale.
E riprese a scrivere, senz'aver degnato neppure di uno sguardo il condannato. Entrò il direttore. Era un uomo sui quarant'anni, forte, alto, con una fisonomia bonaria ma seria. I carabinieri fecero il saluto militare. Egli salutò, diede un'occhiata di sfuggita al condannato e andò a sedersi alla seconda scrivania. L'appuntato gli diede il foglio di consegna.
- Come vi chiamate'? - chiese il direttore al condannato, per la verifica.
- Rocco Traetta, - rispose colui a voce bassa.
- Non avete un soprannome'?
- Mi chiamano Sciurillo.
- Di dove siete'?
- Di Napoli.
- Anni?
- Ventisei.
- Del fu? - disse il direttore, levando il capo.
- Del fu Gennaro - disse, senza tremare, il condannato.
- Condannato per parricidio - soggiunse il direttore, chinando un po' il capo, come se avesse rabbrividito.
Rocco Traetta non rispose. Aspettava qualche altra domanda. Intanto lo scritturale aveva registrato questo nuovo galeotto.
- In vita? - chiese lo scritturale al direttore, con indifferenza.
- In vita, - costui rispose brevemente.
- Numero 417, berretto rosso - scrisse sopra un suo foglio lo scritturale.
Il direttore suonò un campanello. Un uomo vestito di grigio, con un berretto nero, si presentò.
- Alla vestizione - gli disse il direttore, consegnandogli un foglio e indicandogli il condannato.
Rocco Traetta uscì dietro il carceriere: i carabinieri restarono in direzione. Ora era solo col carceriere, ma questo andava innanzi, leggendo il foglio, quasi non curandosi del condannato. Passavano fra le strade del Bagno, strade larghe, coi marciapiedi e con qualche albero di acacia, già fiorito. Da una parte e dall'altra sorgevano degli edifici di uno o due piani, non più alti. Finestre adorne di qualche vaso di fiori, dietro le graticciate di ferro. Voltarono due o tre volte, il carceriere sempre dinanzi. Alla fine entrarono in un camerone già scuro, dove, in fondo, un gran fuoco di cucina ardeva e due fabbri battevano sopra una incudine. Un altro carceriere sedeva sopra certi sacchi. La vestizione di Rocco Traetta fu fatta in un momento: camicia grossa di tela, calzoni, panciotto, giacca di un filato color mattone scuro, berretto di un rosso vivo, tutto ciò stampigliato al numero 417. Gli avevano, per vestirlo, levata la catena dalle mani e l'avevano buttata in un cantuccio. Ma la saldatura della catena di galeotto, al collo del piede, fu un affare lungo piuttosto. Accovacciato per terra, i due fabbri martellavano il ferro caldo alternativamente.
- Non è stretta? - chiese uno di loro, a Rocco
- No, è giusta - disse lui, che già si sentiva un peso insopportabile.
La catena era lunga più di un metro.
- Mi legheranno con un altro? - chiese lui fingendo indifferenza.
- No - gli rispose il carceriere. - La catena puoi sospenderla alla cintura.
Difatti vi era un uncino nella cintura dei calzoni: pure, sospesa così, la catena pesava molto e il suo anello di ferro, saldato intorno al piede, dava un senso acuto, continuo d'intolleranza.
Quando suonò il silenzio, alle nove, sopra l'isola di Nisida e il mare, era una profonda e molle notte stellata. Quella folla di galeotti a cui Rocco Traetta si era mescolato macchinalmente lo aveva accolto con una invincibile diffidenza, scostandosi da lui, non rispondendo a qualche sua rara domanda, guardandolo biecamente; alcuni lo avevano accolto con una gelida indifferenza: le due grandi note istintive di quelle folle di colpevoli, le due note bestiali, brutali sono appunto la paura, una paura vaga, indistinta, grande, di tutto, di tutti, e un egoismo basso, cupo, crudele. Egli era andato con loro alla cappella, una grande chiesa nuda, imbiancata di fresco, dove quella folla si era messa su certe panche di legno: e metà di essi, in vero, pregavano, alcuni con un fervore di fede, levando talora la voce, come se li premesse una emozione soverchiante, alcuni con un ardore d'ipocrisia, che si leggea sui volti pallidi, sulle bocche sottili, negli sguardi obliqui. Nella chiesa i berretti verdi e i berretti rossi, con quel numero cucito in bianco, che è il solo nome del galeotto, erano tutti via, e le prime ore della sera cadevano su quelle centinaia di difformi teste di delinquenti. Ma i custodi, malgrado la misticità del luogo e dell'ora, stavano ritti sogguardando così acutamente, temendo sempre la sorpresa: e nel grande silenzio, alla sottile voce del prete vecchio, che dava la benedizione, si udiva unirsi solo il mormorio di quelli che pregavano, e uno scricchiolìo monotono, incessante, quello delle catene smosse ogni momento, rialzate penosamente, alle volte cadenti con un gran rumore di ferro.
Raggricchiato in un angolo, Rocco Traetta era stato vinto da una grande timidità: e senza pregare, senza parlare, non sentiva altra sensazione acuta che il peso insopportabile di quell'anello di ferro, al collo del piede, e per non fare stridere la sua catena, per non udirne il tormentuoso suono, teneva la mano alla cintura dove l'aveva sospesa. Una oppressione crescente scendeva sulla fibra di quel giovane tranquillo e forte, che era stato così felice di lasciare il carcere di S. Francesco di Napoli, un carcere di pietra, per essere condotto in un'isola fresca, aperta, ridente. Che gli importava di quella preghiera? Acutamente lo feriva soltanto il rumore di tanto ferro scosso; sentiva che ogni galeotto era oppresso da quella che era parte della sua vita, indivisibile; sentiva che ogni galeotto si muoveva, tormentato da quel peso, quasi ad alleviarne la pena; e preso da un gran dolore ignoto, Rocco Traetta, il parricida, stava immobile, inabissato nell'accasciamento, non udendo del suo corpo giovane e robusto che il collo del piede legato dal ferro. A un tratto, dopo due o tre minuti di silente aspettativa, il prete levò su il Santissimo Sacramento, a benedire quei ladri e quei micidiali: e i galeotti tutti si buttarono giù, inginocchiati. Fu tale un fracasso di ferro, come se rovinasse una forgia, e, trascinato dal movimento, Rocco Traetta si buttò giù anche lui, e la catena, ribattendo, cadde su lui, sulla gamba, sul fianco, pesante, fredda. Ah no, non era fantastico Rocco Traetta, era una creatura primitiva e crudele, ignorante e feroce; ma mentre il Salvatore, dalla sua spera scintillante d'oro, girava nelle mani tremanti del prete, egli si sentì coperto da quella catena, preso, vinto, tutto, sempre, sino alla morte. E la imperante idea della fuga, quella idea che è in fondo a tutte le coscienze, anche dei più disperati, gli sgorgò dall'anima come una preghiera.
Perchè no? Mentre andavano alla cena, nel grande camerone, mentre mangiavano avidamente quelle patate bollite nel pomodoro, prese dal grande mastello nelle scodelle di latta, avidamente, come tante bestie affamate, egli pensava che avrebbe dovuto fuggire, necessariamente, trovare un mezzo, una astuzia, nella notte, e buttarsi giù, nel mare, fuggire. Le vie di Nisida pareano così poco guardate, e il senso dell'altezza gli era sfuggito, in quel primo giorno, tanto che il sogno della fuga gli andava crescendo nella mente, come se non potesse essere difficile a lui giovane e forte, a lui astuto, tentare, con l'audacia e la furberia, la liberazione. Preso dal suo ardente desiderio, mentre passeggiavano, dopo la cena, in un grande cortile, egli andava attorno attorno, trascinando la sua catena, senz'accorgersi della sua furiosa passeggiata, divorato dalla sua visione di fuga. In alto, sul cortile, brillava la molle notte stellata; e lui vi volgeva gli occhi, sentendo più acuta, più folle la smania della libertà.
Suonava il silenzio. Per isquadre, attraversando le deserte vie di Nisida, guardando la campagna dai Bagnoli e Pozzuoli tutta brillante di lumicini, i galeotti tornavano ai loro dormitorii. Giusto, il grande camerone, dove aveva avuto assegnati una pancaccia, uno strapunto e due grosse lenzuola, Rocco Traetta, aveva un finestrone largo, donde si vedeva il cielo stellato e il mare fosforescente; un finestrone, che restava sempre aperto, troppo essendo insopportabile, col caldo, l'odore di quei corpi umani. Come il gas fu abbassato, come fu suonata la campana seconda del silenzio e già molti dei galeotti di quel camerone russavano, Rocco Traetta guardava quel pezzo di cielo e di mare, dal suo letto. Stridevano, come sempre, a ogni movimento dei galeotti, le catene, le indivisibili catene, glaciali compagne di letto, e il loro rumore eccitava la fantasia di Rocco Traetta. Come sarebbe stato facile fuggire, da quel finestrone.
Ma, ad un tratto, da lontano lontano, una voce si udì, fievole, ma precisa:
- All'erta, sentinella!
Meno lontano, dopo un minuto, un'altra voce disse:
- All'erta, sentinella!
Ancor meno lontano, una terza voce, sonora, forte, chiamò:
- All'erta, sentinella!
Prossimamente, una voce chiamò:
- All'erta, sentinella!
E infine la voce scoppiò sotto il camerone dove non dormiva Rocco Traetta, e dopo se ne udirono delle altre, più lontane, più fioche, facenti il giro dell'isola. E di nuovo, per la risposta, e voci si rimandarono, sonoramente, questa risposta
- All'erta sto!
Poi, tutto tacque. Rocco Traetta, avvilito, andava riordinando i lembi lacerati del suo sogno. Ma non appena aveva cercato, nella notte, di riprendere coraggio, dopo quindici minuti, di lontano lontano la prima voce ricominciò:
- All'erta, sentinella!
E le lunghe, sonore, quiete voci si andarono alternando, passarono di nuovo sotto il finestrone di Rocco Traetta, si allontanarono; di lontano, dopo aver fatto il giro dell'isola, la risposta risuonò, chiara, squillante:
- All'erta sto!
Ogni quarto d'ora, ogni quarto d'ora. Come un incubo. Quando quelle voci si chiamavano e si rispondevano, si udiva il rumore delle catene, i galeotti si agitavano, nel sonno, sui duri letti loro. Ma Rocco Traetta non dormiva, no; trabalzava ogni quarto d'ora. Le buone voci fedeli dei soldati dicevano: - Noi vegliamo, noi siamo qui, armati, pronti, con l'occhio acuto; noi non faremo fuggire nessuno, mai; noi vegliamo, nulla può far tacere la nostra voce. Egli fremeva, nella notte, di collera impotente: l'incubo l'opprimeva. Ogni quarto d'ora, era terribile. Nella notte stellata, sul mare, le voci si prolungavano, chiare, forti, fedeli. Egli non sarebbe fuggito mai, mai. E a metà della notte, vinto, prostrato, udendo di nuovo, sempre, le voci, il duro cuore del micidiale, del parricida, si spezzò, ed egli pianse.

II.

Sdraiato nella sua poltrona, dopo pranzo, il direttore del Bagno penale leggeva il giornale, attentamente, da cima a fondo, con tanta lentezza come se volesse imprimerselo nella mente: lo leggeva, assaporandolo e meditandolo, come fanno quelli che vivono lontano dai grandi centri, isolati ma non indifferenti, relegati da qualunque società, ma curiosi di qualunque movimento della vita. Ogni tanto, però, il buon direttore, sulla cui onesta faccia, in famiglia, si dileguava la freddezza e restava la naturale grande bontà, crollava il capo, come se leggesse delle cattive nuove. Egli era stato un patriota ardente, un soldato valoroso, e il suo coraggio, il suo entusiasmo rimanevano sempre vivi, in quel bagno penale dove lo avevano mandato ad occupare la sua energia: quei giorni, dopo le due fatalità di Lissa e di Custoza, erano molto cattivi per l'Italia, la cui stella pareva tramontare. Egli crollava il capo, malinconico, poichè non aveva potuto battersi nel 1866 come si era battuto nel 1860, pensando che tutto fosse buono per servire il suo paese, anche il vivere fra i galeotti, ma avrebbe preferito mettere la vita sul campo, questa volta, per la patria, anzi che fremere di collera magnanima ed impotente nell'isola di Nisida. Malinconico, come tutti quelli che sono nati per la guerra, candidamente e ferocemente innamorati di essa, e che debbono vivere fra le memorie marziali o fra le speranze lontane.
- Cattive nuove? - chiese la moglie, che, presso il balcone del salottino, lavorava a una camiciuoletta di bimbo.
- Cattive - rispose il marito, senz'altro.
Ella chinò il capo sul lavoro, senza domandare. Aveva chiesto così, non perchè s'interessasse alla politica o alla guerra, ma per rivolgere una parola d'interesse al buon marito, per spezzare quel silenzio che durava da troppo tempo. Era una giovanetta dal volto ovale e pensoso, un po' impallidito dalla maternità; dal corpo sottile nel semplice vestito di lana nera: ogni tanto sogguardava teneramente verso il bambino che stava seduto in terra, sopra un pezzo di tappeto, tagliando quietamente le incisioni dell'Emporio Pittoresco. Era un pallido bimbo di tre anni, dai molli e ricciuti capelli castani, dall'aria dolce e pensosa come quelli di sua madre, assai tranquillo, innamorato delle immagini, felice quando poteva intagliarne qualcuna, con le sue piccole forbici, assai nitidamente, senza guastare le figurine, senza punzecchiarsi le dita. Restava quieto per ore intiere, solo, seduto in terra, circondato dai fogli sparsi dei giornali illustrati.
- Mario? - chiamò il padre, dopo averlo guardato un po' con una affettuosa curiosità.
- Papà mio? - rispose il piccolo figlio, levando sul padre i suoi grandi occhi castani, lucenti di bontà.
- Che tagli?
- Certi soldati.
- Sono belli?
- Belli, papà.
- Vieni a darmi un bacio.
ll bimbo si levò subito: era grande per la sua età, ma sottile, sottile come suo padre. Venne a suo padre e gli tese le braccia per abbracciarlo; poi, disciolto, gli appoggiò la testa sulle ginocchia, come se fosse stanco o volesse dormire: il piccolo volto bianco posava, con la leggerezza di un fiore.
- È ammalato? - chiese il padre alla madre.
- No, no - disse lei, subito.
- Fallo uscire - suggerì lui. - Perchè non esci ogni giorno? Gennaro Campanile ha aggiustato la carrozzetta di Mario?
- Sì, sì - disse lei, con voce fioca.
- E ha portata la scansia dei libri, che doveva fare da tanti giorni?
- L'ha portata.
- Non la vedo.
- Grazietta e io non abbiamo avuto la forza di sollevarla e di sospenderla al muro. Non siamo mica molto forti - soggiunse lei, con un pallido sorriso.
- Potevate lasciar fare a Gennaro Campanile, che è abile assai. Egli aveva fatta la scansia, egli la poteva mettere a posto.
La moglie guardò intensamente il marito e una vampa di rossore le salì alla fronte. Egli stesso la guardava, non intendendo.
- Cercheremo di metterla su noi - mormorò poi, come se fosse mortificata della sua trascuranza e del suo rossore.
- Ti stancherai inutilmente, figliuola - disse il marito, con paterna bontà. - Manda a richiamare Gennaro Campanile, oggi stesso: verrà subito e metterà la scansia, là, a destra.
- No, no, - disse lei, precipitosamente: - preferisco stancarmi io.
Egli la guardò, intendendo adesso, e una tristezza gli si diffuse sul volto affettuoso.
- Ti dispiace aver un galeotto per casa? - chiese poi, lentamente.
Ella gli rivolse gli occhi supplichevoli, come per farsi scusare di questo suo ribrezzo.
- Vengono sempre - mormorò con voce fioca, la giovinetta.
- Ti fanno ribrezzo?
- Sì - disse, anche più fiocamente.
- Hai poca carità - disse lui, facendo uno sforzo per parlarle severamente.
- È vero - replicò lei, abbassando il capo, umiliata.
- Sono uomini, sono cristiani, Cecilia.
- Hanno rubato, hanno ucciso!
- Sono uomini e sono cristiani - replicò lui, fermamente.
Ella tacque. Cuciva febbrilmente per celare la nervosità delle dita: e un rossore sottile come una vampa le abbruciava le guancie. Il bimbo, in quel levò la testina, guardò il padre e la madre, tese le braccia per attirare a sè la testa del padre e baciarlo.
- Anche tu odii i galeotti? - gli chiese il padre subitamente commosso, carezzandogli i capelli.
Il figliuoletto lo guardò, candidamente, non intendendo la domanda.
- I galeotti sono dei poveretti - gli disse il padre, sottovoce.
- Poveretti - ripetè il bimbo, con una intonazione di pietà.
Ora il padre aveva piegato e chiuso il giornale, rimettendolo al suo posto, metodicamente, come tutti quelli che fanno una vita isolata e monotona. Con una spazzola si spazzolava il soprabito: era l'ora di andare in ufficio. Il bimbo, macchinalmente, lo seguiva. Egli si accostò alla moglie per abbracciarla ed ella gli disse, precipitosamente:
- Fa pure venire Gennaro Campanile; fallo venire subito, per la scansia.
- No, no, se ti dispiace, cara - disse lui carezzandola come una fanciulla.
- Non mi dispiace, ti assicuro che non mi dispiace - soggiunse Cecilia, facendo un grave sforzo su sè stessa.
- Lascia stare, lascia.
- Uscirò, uscirò col bimbo per l'isola, e solo Grazietta lo vedrà.
- Bene, bene disse lui andandosene.
Ma quando il buon marito affettuoso se ne fu andato al suo penoso dovere, a vivere di nuovo, egli onesto e puro, fra quei ladri e quei micidiali, ella piegò il capo su quello del suo piccolo figlio, bagnando il collo del bimbo col suo pianto. Raro pianto: poche e brucianti lagrime. Quella vita di sposa, di madre, in quell'ambiente singolare, dove la solitudine profonda si alternava colla compagnia folta dei malvagi, ella l'aveva cominciata assai coraggiosamente. Infine, era una povera ragazza, senza parenti e senza dote, che viveva lavorando in casa di una vecchia zia, guadagnando assai scarsamente il proprio pane; e il capitano Gigli l'aveva sposata così, per lei, per affetto pietoso, perchè egli aveva un cuore grande. Non lo sapeva forse che sarebbe andata a vivere in un'isola, fra i galeotti? Lo sapeva, aveva accettato, pensando che si sarebbe isolata, che si sarebbe stretta a quell'uomo buono e generoso, che l'avrebbe consolata di tutto. Era un temperamento sensibile e delicato di donna, che fremeva subitamente di dolore e di tenerezza; ma aveva anche una forza spirituale nell'anima, la forza che hanno le anime, semplici e buone. Era venuta incinta, in quell'isola, negli ultimi mesi: e si era chiusa in casa immediatamente, per sottrarsi a una vista che le faceva ribrezzo. Ma nessuna chiusura di porta o di finestra aveva potuto liberarla dalle voci notturne delle sentinelle che vegliavano. Quante notti senza dormire, udendo quel lungo richiamo, lungo richiamo che si ripetea di quarto in quarto d'ora, insistente, continuo, immancabile! Nella sua casetta, che ella aveva adornata con un gusto semplice, nelle ore della sera, quando, tendendo l'orecchio, ascoltava il rumore del mare, ella poteva immaginare di essere in un'isola, proprio nella bella isola che abitava, fra il cielo e il mare, tra i fiori degli spalti e i profumi che salivano dalle rive: ma una voce, insistente, immancabile, disperdeva il suo sogno, dicendole:
- Bada, questo è un carcere.
Che notti! Mentre il capitano Gigli dormiva placidamente, nel riposo dell'uomo che ha molto lavorato, ella vegliava, con gli occhi aperti, aspettando il richiamo delle sentinelle, guardando la fioca luce della lampada che le disegnava confusamente le più paurose visioni. Fu in una notte di queste, lunga, lunga, che il piccolo Mario era nato: un piccolo figlio gracile che portava in sè tutta la delicatezza del temperamento di lei e nel pallore tutte le tracce degli incubi, dei terrori notturni che ella aveva sofferti. E una parte della poesia che un figlio porta nella casa, fuggiva: il piccolino nasceva in un bagno penale, fra i galeotti: quando si buttava a baciarlo, la madre, vi era qualche cosa di desolato nei suoi baci, come se avesse voluto consolarlo di questo triste ricordo, di questo carattere doloroso! E invano, invano ella aveva cercato d'isolarsi, invano ella aveva studiato ogni mezzo per sottrarre sè e il fanciullo alla vista e al contatto dei galeotti. La culla dove Mario dormiva, era uscita dalla officina di falegnami dove quei disgraziati lavoravano; le prime scarpette, le benedette prime scarpe che fanno vibrare di tenerezza il cuore di ogni madre, erano uscite, le scarpette, dall'officina dei calzolai-galeotti. Come fare? Il capitano non aveva un grande stipendio e non li poteva mandare a Napoli, ogni momento; la roba, dalle officine, costava almeno il terzo di quello che spendeva a Napoli. E lei, per delicatezza, cercava nascondere, con grande premura, il suo ribrezzo, il suo scoramento, le sue paure. Quando di dietro i cristalli ella sorrideva a suo marito che se ne andava e lo vedeva a un tratto circondato da un gruppo di galeotti, che andavano da lui per qualche reclamo, ella aveva uno schianto al cuore, stringeva fra le braccia il suo figliuolino, convulsamente. I galeotti guardavano in volto il direttore, ansiosamente, implorandone la indulgenza, conoscendolo il migliore di tutti, freddo ma dolce, severo ma crudele mai, ed ella in quegli occhi leggeva la minaccia, il furore. Ahi, nulla poteva persuaderla che quegli uomini avessero persa l'abitudine del sangue, nulla la convinceva che non avessero un coltello nascosto nella manica! Non lasciava uscire il suo bambino con Grazietta, mai: le pareva sempre che per vendetta di essere carcerati, per desiderio bestiale di sangue, per l'istinto dell'omicidio, uno di quelli assassini, un giorno, glielo avrebbe ucciso. Usciva, portandoselo in collo, lei, come un'umile madre popolana, senza sentire stanchezza: e quando incontrava qualche galeotto, chinava gli occhi. Costoro la salutavano, cavandosi il berretto, fermandosi a guardare il bel piccolino, obbedendo all'istinto dolce paterno che è nel cuore dei più perversi. Ma ella affrettava il passo, intimidita, quasi fuggiva via col bimbo suo. Uno che incontrava sempre sulla sua strada, era un grande giovanotto robusto, dal volto bianco e dagli occhi azzurri molto femminili, dai capelli rossi: lo incontrava sempre, questo condannato in vita, dal berretto rosso. Parea quasi ch'egli la aspettasse, la giovane madre col bambino: e quando la vedeva passare, guardava, guardava il grande galeotto, coi suoi occhi teneri, guardava, fermato, finchè ella avesse svoltato l'angolo della lunga via. E il tempo che passava aveva potuto mitigare i suoi terrori, vincerli mai. Gracile, pensierosa, ella cercava di vincere con la dolcezza la sua malinconia e il marito trovava in casa una persona sempre affettuosa, sempre paziente. Ella si vergognava di palesare il suo disgusto, aveva vergogna della sua paura: temeva che fossero un rimprovero al buon uomo generoso che l'aveva tolta sì, alla miseria, all'avvenire incerto, ma per buttarla in un carcere. Egli intravedeva, talvolta, un senso di questo ribrezzo e cercava di vincerlo, addolorato, con un vago rimorso. Così il cuore di sua moglie si chiudeva, come soffocato.
Solo in qualche ora, Cecilia veniva assalita da un vago rimorso. In verità, ella era una creatura molto buona, devota piamente al suo dovere, compassionevole a tutti i mali, e quando arrivava a vincere il suo ribrezzo, la sua paura, chiedeva a sè stessa conto della propria ingiustizia, della propria crudeltà. Erano creature umane anche i galeotti, e ogni tanto quel cuore giusto di suo marito che era cosi severo con loro, diceva a lei dolcemente questa verità: erano uomini e cristiani, forse più disgraziati che colpevoli. E piena di dolore e di pentimento, Cecilia si decideva a sopportare pacatamente la loro vista, quando passeggiava nell'isola, e rendere il saluto quando si cavavano il berretto. Per poco, ahimè, solo per poco! Se sugli spalti erbosi, dove metteva a sedere sul prato il picciolo bimbo che tirava le margherite da terra con le manine innocenti ed ella s'incantava a guardare la vasta distesa di mare, mentre Mario ogni tanto dava in uno strilletto allegro perchè aveva trovato un insetto: se, in quest'oblio di sogno, improvvisamente compariva un uomo vestito di rosso mattone, trascinando penosamente una pesante catena, ella comprimeva un grido di spavento, tratta bruscamente dalla sua pace, dai suoi sogni, impallidendo come a un pericolo di morte, togliendo rapidamente da terra il fanciullo, portandoselo via. E quella campagna, quel mare, quei fiori, tutto quel paesaggio, improvvisamente infamati dalla presenza di un assassino, le facevano orrore. Che fare? Era più forte di lei. Solo, in presenza di suo marito, quanto più poteva, frenava le sue impressioni, sentendo di essere ingrata, sentendo di offenderlo indirettamente: lo venerava come la stessa forma della bontà e della giustizia, ma era una debole e povera donna, una povera donna senza coraggio, carcerata, chiusa in quell'isola, in quel paese di vergogna, di dolore, di punizione, dove tutto si deturpava per la terribile compagnia, il paese e la casa, il suo amore di sposa e il suo amore materno.
Ma quel giorno, proprio, ella era piena di rimorso più di ogni altra volta: innanzi a suo marito era stata sconoscente, quasi rinfacciandogli il suo beneficio. Egli le aveva parlato senza severità, ma seriamente. Quanto era migliore di lei! Le sue rare lacrime brucianti, lacrime di pentimento, avevano bagnato il collo del picciolino, e lui abituato a questi sfoghi solinghi di madre, egli stesso bimbo gracile e melanconico, andava ripetendo sottovoce, carezzandole il viso con le piccole mani fresche:
- Non piangere, mammà; non piangere, mammà.
- No, non piango, - diss'ella, asciugandosi gli occhi, levandosi su. - Ora la mamma sua conduce Mario a passeggiare.
- In carrozza, mamma, in carrozza, - gridò il bimbo attaccandosi alle gonnelle di Cecilia.
- Sì, figlio, in carrozza - rispose ella, reprimendo un sospiro.
Poichè era una grossolana carrozzetta da bimbo, fatta rozzamente da quei galeotti-falegnami e fabbri-ferrai più ferro che legno, stridente, con le catene che essi portavano attaccate alla caviglia del piede e alla cintura, una carrozzetta che era pesante e difficile a spingere e che ogni momento si guastava. Quando era lì dentro, il picciolo Mario era così felice, che non avrebbe mai voluto levarsene: era magro e un po' debole di gambe, era felice di sdraiarsi su quei cuscini, che la madre stessa aveva imbottiti per renderli morbidi. Era felice di farsi portare in carrozza, per ore intiere, per tutta la vasta isola, socchiudendo gli occhi, sonnecchiando nel suo cappellino di feltro che gli dava caldo alle orecchie. La madre, gracile, dopo un certo tempo si stancava; ma il bimbo si svegliava subito, dal suo dormiveglia, e gridava:
- Spingi, mamma, spingi!
- Un momento, Mario - faceva ella, respirando profondamente.
E restava appoggiata con le mani alla barra di ferro, riposandosi; ma subito, con voce supplichevole, il bimbo ricominciava:
- Spingi, mamma, spingi, ti prego, ti prego.
Ella si rimetteva in cammino, coraggiosamente, senza sospirare. Non avrebbe mai osato mandare a passeggiare Mario solo, in carrozza, con Grazietta la serva; e andare in due ad accompagnarlo, non era possibile:
vi era bisogno di lavoro, in casa, e anche temeva vagamente di lasciar sola la casa. Così, quel giorno, come tanti altri, ella si fece trasportare giù per le scale, innanzi alla porta, la pesante carrozzetta dove il bimbo entrò con un salto allegro, dove si buttò a sedere con un senso di delizia. La madre si era messo il cappellino e i guanti: aveva buttata una copertina sulle ginocchia del bimbo. Grazietta, una serva di quarant'anni, silenziosa, stava a guardare.
- Verrà Gennaro Campanile, a mettere la scansia - disse la padrona, con uno sforzo. - Sta attenta, sta attenta.
La serva abbozzò un lieve sorriso: conosceva i terrori della padrona. Era la moglie di un galeotto, Grazietta, di un omicida in rissa: e fedele tacitamente a lui, lo aveva seguito dovunque, da Portolongone a Ischia, da Ischia a Nisida, facendo l'impossibile per mettersi al servizio nella stessa isola, riuscendoci sempre bizzarramente, per un miracolo della volontà e dell'ostinazione. Così, quello che guadagnava, serviva per darlo a suo marito: così due grosse parti del suo cibo andavano a suo marito, e questo sacrificio era compito in silenzio quasi nascostamente, tanta era la paura di esser mandata via dall'isola. Il galeotto, un uomo tarchiato, dall'aria feroce, veniva cautamente alla ferriata terrena della cucina, portava via un piatto coperto, del pane, delle frutta, e se ne andava in un cantuccio a divorare voracemente. Ella rientrava, tutta felice, contenta del suo quasi digiuno; e quando la padrona, involontariamente, le mostrava la sua paura dei galeotti, Grazietta crollava il capo, come donna d'esperienza, compatendo la timida gioventù della signora, convinta che gli omicidii sono disgrazie e non colpe, convinta che questa disgrazia può capitare a tutti.
- Dove vuoi andare? - disse la madre al figliuolo, prima d'incamminarsi.
- Là, là - fece il bimbo, indicando innanzi a sè.
Le vie di Nisida erano larghe come quelle di una piccola città, coi marciapiedi sterrati, ombreggiati qua e là da alberi di acacie che in ottobre erano ancora verdi. Le case, dimore degli impiegati, dei fornitori, dei capifabbrica, dei carcerieri, a un piano, a due piani, avevano l'aria graziosa di piccoli, civettuoli nidi di provincia; il gran corpo del Bagno penale, dormitorii, refettorii, gallerie, infermerie, carceri, restava in mezzo, alto, bruno, come una rocca che dominava tutti quei villini. Ogni tanto a un gomìto della strada che circonda Nisida, fra le case e gli alberi, si aveva la lunga visione del mare soleggiato: una visione di sorriso e di freschezza. Il bimbo, disteso sulla carrozzetta, spalancava gli occhioni, quasi ridendo, e mormorava, vagamente:
- Là, là...
La madre spingeva lentamente la carrozzetta, presa da un infiacchimento, da uno sfinimento, che le veniva da una soverchia eccitata sensibilità; salutava macchinalmente qualche moglie di impiegato, qualche figliuola di fornitore, le sei o sette signore che abitavano l'isola, insieme alle mogli degli ufficiali e passava avanti sempre lentamente, guardando anch'ella il mare che era il sogno del suo bambino. Ogni tanto anche qualche soldato passava: e passava qualche galeotto, di quelli che circolavano liberamente. Ella rispondeva al saluto, chinando un poco il capo: il bimbo, sorridendo, salutava con la mano. Ma ad un certo punto, proprio, il suo sfinimento la vinse: dovette lasciare la sbarra della carrozzetta, sedersi sopra un banco di pietra, pallida, quasi svenuta. Era un posto quasi deserto, dove le case finivano e cominciava la campagna di Nisida. ll bimbo guardava la madre, dal volto sbiancato, dagli occhi socchiusi, e appena osava mormorare, un po' intimidito, un po' spaurito:
- Spingi... mamma... spingi.
- Ora... ora... - diceva ella a voce così bassa che pareva un soffio, e il figliuolino non la udiva.
- Vostra eccellenza, posso spingere io la carrozzetta - disse una voce maschia, ma umile.
Donde era sorto quel galeotto dal volto bianco e dai teneri occhi azzurri, così, improvvisamente? Che chiedeva, che voleva? Essa lo guardò, trasognata, sgomenta, come se egli fosse una visione.
- Il piccerillo pesa - mormorò più umilmente il galeotto - la carrozzetta pure. Vostra eccellenza, posso spingere io.
Ella capì, allora. E, pallida di nuovo, con le labbra strette, disse:
- No.
Egli la guardò, tacque per un momento, poi riprese, umilmente, ostinatamente:
- Non è fatica per le vostre mani. Lasciatelo portare a me, questo piccerillo:
- No - disse lei, ancora, incollerita.
- Scusate, scusate l'ardire. Io lo saprei portare senza fatica, il piccerillo. Non abbiate paura - finì di dire con tale tenerezza che la voce pareva piena di lacrime.
- Io non ho paura di niente - disse lei seccamente, levandosi. - Ma non voglio che portiate il piccerillo.
Si alzò, risolutamente, ricominciando con uno sforzo eroico, a spingere la carrozzetta. Egli fece un gesto largo con le braccia; la catena sospesa alla cintura tintinnì sinistramente, ma egli tacque guardando allontanarsi la madre e il figlio. Ella fremeva ancora di collera, come se la medesima umiltà con cui quel galeotto le aveva offerto i suoi servigi, le fosse d'ingiuria. Adesso erano in piena campagna, in una viottola fra i prati, dove venivano a pascere i cavalli di due o tre ufficiali e quelli delle carrette che servivano a trasportare i viveri, dalla spiaggia in su.
- Mamma - disse il bimbo riflettendo.
- Che vuoi?
- Perchè hai detto di no a quel galeotto'?
- Perchè così.
Il bimbo tacque sentendo che la voce di sua madre era turbata.
- Ora sei stanca di spingere la carrozzetta, mamma - osservò lui dopo un poco.
- No, caro.
- Levami su, mamma, fammi scendere.
- Resta, caro, resta; andiamo più innanzi, mi riposerò più innanzi.
Camminarono ancora un pezzetto in silenzio; avevano già passate due o tre garitte di sentinella. Il bimbo guardava sempre i soldati, sorridendo loro.
- Mamma - disse il bimbo.
- Che vuoi, caro?
- Quel galeotto voleva portarmi attorno, lontano, sai?
- Sì, sì.
- È un poveretto - osservò il fanciullo, guardandola in volto.
- Chi ti ha detto questo?
- Papà, lo ha detto - rispose lui, trionfalmente.
Ella abbassò il capo, senza ribatter nulla.
- Anche i soldati sono dei poveretti, mamma? - chiese il bimbo, dopo aver pensato, di nuovo.
- I soldati sono galantuomini - rispose subito lei.
- Ecco - disse il piccolo - i galeotti sono poveretti e i soldati sono galantuomini. Io che sono, mamma? Il piccerillo.
- Il piccolo figlio caro caro - disse lei, abbracciandolo, baciandolo, teneramente.
Erano giunti in un campo tutto verde, tutto fresco, tutto fiorito: un muretto che saliva a mezza persona lo divideva da un altro campo, accanto. La madre si fermò e irrimediabilmente stanca si buttò a sedere sull'erba. Il bimbo guardava l'erba e i fiori e il mare, come pensando, troppo pensoso, troppo serio, per la sua età. Un acuto odore di rose era nell'aria, quelle rose delle quattro stagioni che germogliano in un giorno, intensamente vivono per un giorno solo, insieme a un odore di menta, l'erba selvaggia che più si trovava nell'isola di Nisida. Cecilia si rinfrancava dalla stanchezza, mentre il bimbo, in carrozza, quasi sonnecchiava.
- Che profumo di fiori - diss'ella, come fra sè.
Ve ne erano in quel campo, dove stavano, ma più ve ne dovevano essere in quel campo accanto, da cui un muretto la divideva: era forse un orto, che ci avevano messo una divisione? Presa dalla curiosità, si levò su. E ai suoi occhi prima meravigliati, poi sgomenti, uno spettacolo prima doloroso, poi terribile si offrì.
Era un grande campo in declivio: malamente lo chiudeva un muretto di fabbrica, qua e là rovinato e diventato un monticello di sfabbricina, mangiato dall'erba che vi si abbarbicava, corroso dalla pioggia, battuto dal vento, infine una barriera miserabile che si opponeva più al passaggio degli uomini e degli animali e che forse non segnava neppure più il confine di quel campo. Nel campo l'erba cresceva a cespugli ineguali, sul terreno bizzarramente ineguale; un terreno che qui si gonfiava, altrove si abbassava, con ondulazioni come di mare in collera; fra l'erba crescevano a fasci le rose delle quattro stagioni, dopo che vi si erano appassiti i papaveri estivi, lasciando sullo stelo sottile la bacca nera e crocchiante della soporifera. Acuto profumo di erba selvaggia, di rose selvaggie: il profumo violento dei campi abbandonati, dove nessuno va, da mesi e da anni, dove la vegetazione s'inasprisce e si espande solitariamente, morendo, rinascendo, illanguidendosi di nuovo, libera, dimenticata, abbandonata, forse maledetta. Con gli occhi meravigliati Cecilia guardava, cercando bene, cercando meglio, volendo indovinare il mistero di quel campo bizzarramente mosso, come le onde del mare, circondato da un muro, ma pure abbandonato dagli uomini. Vide: vide che ogni tanto, in quattro o cinque punti del campo abbandonato, sorgeva una piccola croce di legno che era stato nero, ma che il tempo e le intemperie avevano scolorito, contorto; alle croci, ad alcune, era attaccato un cartellino giallastro, sporco, su cui eran scritte a mano, con grossi caratteri, incerti, due iniziali e una cifra, quella che il morto aveva portato da vivo, la cifra che la giustizia degli uomini gli aveva dato, in cambio del suo nome. Le croci parevan gettate alla rinfusa, così, come per il capriccio del vento o per l'oblìo degli uomini; forse, caduta una volta, trovate per terra, erano state piantate a caso, dove forse non esisteva più il corpo che dovevano coprire della loro piccola ombra sacra.
Ma Cecilia guardava ancora, come se un ignoto presentimento di dolore, di terrore le dicesse che ancora altro doveva vedere. Ebbene, aguzzando gli occhi, ella vide, vide precisamente, fra il giallore del terreno e il verde dell'erba, biancheggiare, come pezzo di avorio, qualche osso umano. Mal seppelliti, mal coperti di terra, nelle loro casse disgiunte, per il movimento naturale del terreno che germoglia, per il movimento terribile della decomposizione, quei morti uscivano di nuovo sulla terra e le bianche ossa dei morti scintillavano al sole. Il camposanto dei galeotti non aveva becchini. Accanto alla fioritura odorosa della menta selvaggia, fra le rose larghe, a petali cadenti, delle quattro stagioni, germogliavano quegli strani sterpi umani; nè pietosa vanga li ridonava alla terra, se ne vedevano qua e là, un po' dappertutto, così prepotenti che parevano aver bucata la terra di violenza, così soverchianti che l'occhio spaurito temeva quasi vedersi disegnare e sorgere dalla terra l'intiero scheletro. Cecilia guardava, con gli occhi sbarrati, questa orrenda vegetazione dei morti, questo castigo del mondo che punisce anche dopo la morte, che non concede al cadavere dell'assassino neppure la pietà della tomba profonda, neppure la cura che si ha di qualunque altro cadavere, neppure il riposo estremo alle ossa che hanno spogliato la loro carne. Il camposanto dei galeotti non aveva neppure l'opera di un galeotto ortolano, i cadaveri erano messi giù in fretta, fra quattro assi disgiunte, e nessuno ci veniva a lavorare, a pregare: i morti venivano fuori, quasi che un ultimo, acre desiderio di libertà fosse rimasto in quelle ossa di forzati. E a Cecilia, insieme alla pietà più straziata, un'orribile visione apparve in quella solitudine, la visione di sè, di suo marito, del suo bimbo, morti, seppelliti in quel campo che parea maledetto da Dio, e dagli uomini, seppelliti senza pietà e senza cure, fra la selvaggia vegetazione, in quella terra battuta dal sole e dal vento, la visione di tre cadaveri abbandonati, che risorgevano, portando le loro ossa alla luce fra quelle dei ladri e degli assassini. E un altissimo grido di dolore, di paura le si formò nel petto, ma non uscì, strozzato: ed ella cadde giù, di piombo, lungo il muretto, col viso fra l'erba.

. . . . . . . . . . . . . . . .

Quando si riscosse e aprì gli occhi, fra il gran silenzio udì solamente un fruscio. Il suo bambino era sempre disteso nella sua carrozzetta, ma aveva aperto gli occhi e sorrideva, dagli occhi e dalle labbra sorrideva a quel galeotto grande, alto, dai capelli rossi e dal volto bianco, che sdraiato per terra, gli agitava sul volto, per fargli fresco, per cacciarne le mosche, una larga foglia di vite. Come la foglia di vite passava, il fanciulletto socchiudeva gli occhi e li riapriva, facendo un risolino silenzioso. Due volte, guardando sua madre, lungo distesa, aveva detto:
- Zitto! mamma dorme.
E più piano il galeotto aveva agitato la foglia larga innanzi al volto del bambino, per non far rumore. Quel grande corpo vestito di tela rossastra, sdraiato sull'erba, pareva quello di un colosso bonario, infantile; più lontano, fra i fiori, era buttato il berretto rosso che portava il numero 417 e pareva un papavero, un grosso papavero in ritardo.
Cecilia non sentiva altro, svegliandosi, che una immensa debolezza; appoggiata sul gomito, guardava suo figlio e il galeotto, senza collera, senza paura. Rocco Traetta si era levato su, in piedi, e restava imbarazzato, rotolando la foglia di vite fra le dita. Il ricordo di ciò che aveva visto, le ritornò integralmente, ma senza farla tremare; solo un lieve brivido le passò sulla pelle.
- Andiamo, - disse, levandosi.
E con un garbo dolce indicò la carrozzetta a Rocco; egli raccolse il suo berretto, rapidamente, e si mise a spingere la carrozza, allegramente. Ella andava dietro, fiaccamente, lasciandosi andare, vinta, domata.

III.

Lentamente, parlando sottovoce fra loro, il capitano Gigli, direttore del R. Bagno penale di Nisida e il regio ispettore carcerario Colonna, se ne andavano per le vie dell'isola, in quel pomeriggio di novembre. L'ispettore stava da tre o quattro giorni a Nisida, alloggiato nella medesima casa del direttore: era un piemontese di una cinquantina d'anni, assai metodico, assai scrupoloso e che compiva quell'ufficio un po' burocraticamente, con molta minuzia, informandosi di tutto, volendo ragionare di tutto, analizzando le più piccole cose. Tranquillo, paziente, ossequioso a una volontà che egli rispettava profondamente, il capitano Gigli non abbandonava mai l'ispettore, dandogli tutte le notizie, tutte le spiegazioni desiderate, fornendogli registri e conti, perchè la relazione su Nisida potesse essere un lavoro completo.
- In generale, mi pare che siate soddisfatto - osservò l'ispettore con quel suo accento gutturale, che ha anche la sua simpatia.
- Abbastanza, commendatore. Tutto sembra meno difficile, quando si fa con devozione.
- Restate qui volentieri, dunque?
- Finchè mi ci lasciano - mormorò lui, un po' vagamente.
- Credo che la vostra signora non ci stia egualmente bene - osservò il Colonna.
- È vero, poverina - rispose Gigli, con una tenerezza di voce - è un po' gracile di salute, un po' fantastica e l'ambiente, capite, sul principio, le era insopportabile.
- Adesso si è abituata?
- Un poco, mi pare. Certo mi è impossibile modificare un carattere naturalmente malinconico; ora mi sembra più triste, ma si è rassegnata, poveretta. È un cuore pieno di bontà.
- Bisognerebbe forse mandarla a Napoli - soggiunse l'ispettore, senza rispondere a quelle parole che rivelavano una emozione.
- I miei mezzi non lo permettono - disse brevemente il capitano Gigli. Tacquero. Erano giunti a una piazzetta dove stava sorgendo un nuovo edificio, fabbricato dai galeotti stessi. Essi andavano, venivano portando secchi di calce, curvandosi sotto le pietre, salendo vivamente le scale.
- Lavorano volontieri? - disse il Colonna.
- Non tutti. Ne ho una cinquantina, i più indomiti, i più pericolosi, a cui mi è stato impossibile di far lavorare.
- Avete adoperati i mezzi coercitivi?
- Li ho adoperati: li hanno inaspriti, ma non domati.
- Q
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