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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

La prosa visionaria di ANNA MARIA ORTESE

di Rivista Orizzonti

Figura appartata, ben lontana dalle frequentazioni sociali che sovente favoriscono la notorietà letteraria, ha raggiunto il successo solo quando, negli anni 80, l'Editore Adelphi ha finalmente portato all’attenzione del grande pubblico alcune sue opere. Ha vinto i Premi Strega (per “Poveri e semplici”) e Viareggio (per “Il mare non bagna Napoli”), distinguendosi per la varietà della sua produzione. Il ricordo di Raffaele La Capria.


*


Nata a Roma il 13 giugno 1914 e morta a Rapallo il 9 marzo 1998, all’età di 84 anni, dopo una vita insolitamente difficile, Anna Maria Ortese viene oggi considerata da gran parte della critica letteraria internazionale tra le migliori scrittrici italiane.
Deve però osservarsi che la sua figura è ancora poco conosciuta, almeno rispetto al forte impatto che la sua prosa ha avuto sulla nostra produzione narrativa.
Spesso erroneamente accostata ad Elsa Morante, per la comune attitudine alla rappresentazione di situazioni prossime alla sensibilità neorealista - almeno dal punto di vista contenutistico -, la Ortese va piuttosto assimilata al realismo magico caratterizzante certi autori del Sud America. Il suo stile, infatti, si distingue nettamente per la costante ricerca estetica, senza però mai cedere alla facile tentazione dell’ermetismo o addirittura dell’Avanguardismo. E sarebbe stato del resto difficile dare saggio di stile fine a se stesso, per una donna duramente colpita da un’incredibile serie di lutti o umiliazioni - ed infine dalla solitudine -, che fu pure un personaggio assai scomodo e di fatto ingestibile, capace di muovere critiche e prendere duramente posizione pur di difendere le proprie convinzioni. Per fare un esempio, prese sorprendentemente le difese dell’ufficiale nazista Erich Priebke (“Lasciate cadere i bastoni e rispettate i lupi feriti di tutto il mondo!”, fu il suo monito).
Una storia difficile, la sua, perfino da raccontare, per il timore di poter in qualche modo ferire la dignità postuma di una donna che ebbe solo la sfortuna di dover affrontare la vita partendo da una situazione d’estremo disagio. S’è già detto, infatti, dei suoi natali romani; ma va subito precisato che non si sentì legata a nessuna città (né a Roma; né a Barcellona o Carrara, le due città dei nonni materni e paterni; né a Potenza, dove trascorse l’infanzia) e forse a nessun luogo in assoluto: soffrì anzi costantemente la mancanza di radici, che inutilmente ricercò rifugiandosi in una dimensione più onirica che fantastica. A causa dei gravi problemi economici, infatti, suo padre portò ben presto l’intera famiglia a viaggiare per mezza Italia, giungendo poi fino a Tripoli (Libia), che all’epoca era una nostra colonia. Turbata dai continui spostamenti, la futura narratrice abbandonò la scuola all’età di quattordici anni, preferendo continuare a studiare per proprio conto, sui libri dei fratelli. In questo modo, riuscì perfino ad imparare il francese e lo spagnolo ...
Al ritorno in Italia, però, i figli maschi della famiglia Ortese preferirono cercare la propria strada in America e in Australia. Anna Maria, invece, sognava di diventare maestra di pianoforte, ma la notizia della morte di uno dei fratelli, partito alla volta del nuovo continente, la turbò profondamente. Qualcosa si spezzò, dentro di lei, e d’incanto il pianoforte lasciò spazio alla macchina da scrivere, che non divenne solo il mezzo per sfogare la sua rabbia, ma anche l’occasione per tentare di dare razionalità a un universo che le apparve maligno e disordinato, al punto da non avere più senso. Cominciò dunque a girovagare da una città all’altra “come una zingara avvolta in un sogno” (secondo una celebre definizione di lei, data da Vittorini). Visse comunque a lungo a Napoli, che divenne in qualche modo la sua città d’adozione; poi a Milano, Venezia e Roma.
Da un punto di vista cronologico, l’autrice esordì nel 1937, a soli 23 anni, con “Angelici dolori”: una raccolta di racconti che sembrarono avere come preciso punto di riferimento il realismo magico di Massimo Bontempelli, grazie al cui interessamento l’opera fu pubblicata da Bompiani. Questi racconti vennero poi riproposti da Milano Sera nel 1950. Già nelle opere successive, però, (“L’ infanta sepolta” e soprattutto “Il mare non bagna Napoli”) la sua prosa raggiunse un raffinato equilibrio fra favolose invenzioni ed affreschi documentari di invidiabile lucidità. E fu proprio grazie a “Il mare non bagna Napoli”, libro di racconti uscito nella storica collana einaudiana “I gettoni”, che la Ortese fu definitivamente valorizzata da un intellettuale dello spessore del succitato Elio Vittorini.
Negli anni 70, invece, le sue opere maggiormente significative furono “Il porto di Toledo”, “Ricordi di vita reale” e “Il cappello piumato”. Anche nel decennio successivo fu assai prolifica, producendo “Il treno russo” (1983), “Il mormorio di Parigi” (1985) e “In sonno e in veglia” (1988). Scrisse poi, fino alla fine, “Il cardillo addolorato” (1993), vero e proprio caso letterario; e “Alonso e i visionari” suo ultimo romanzo, pubblicato nel 1996. Gran parte della sua opera fu poi ristampata da Adelphi. Ed è questo un preciso merito da riconoscere a Roberto Calasso.
Dal lato meramente critico, opera-chiave della Ortese deve probabilmente ritenersi “L’Iguana” (1965): tenera e misteriosa favola, che è anche lo smascheramento del romanzo esotico ispano-americano in auge all’epoca. Questo, in breve, il plot: un ricco milanese, nobile e candido, giunto su un’isola esotica, perde letteralmente la testa per una serva dall’aspetto bestiale, simile al rettile che dà il titolo al libro, e decide d’immolare la sua vita per lei.
Secondo Alfredo Giuliani (“La Repubblica”) trattasi di opera «perturbante, per il feroce candore, la sonnambulica sicurezza con cui l’arbitrio del racconto si appropria delle verità umane. Nel libro si avvertono sentori di Stevenson, Quevedo, Conrad, Dickens e Madame d’Aulnoy. Ma gli spunti letterari si moltiplicano e si riducono a semplici stracci di scena, bellissimi stracci che fermano appena la nostra attenzione. La favola che si recita sotto quei panni, invece... quella sì che è affascinante e repellente, insensata e rivelatrice. Nessun luogo del racconto, nessun personaggio, nessun episodio sembra stare al proprio posto. Tutto risulta gratuito ed innaturale, perfino la natura. Pur se proliferano gli enigmi, Dio e Natura restano misteriosamente separati. L’Iguana è una favola giocata con alta sofisticazione, e forse si può interpretare come l’avventura di un generoso utopista, che fallisce nell’impresa di riscattare la principessa e di far prosperare il regno che non gli appartiene» .
Nonostante questa brillante analisi, la Ortese fu scrittrice difficilmente classificabile, capace di esercitare generi tra loro molto diversi - dal reportage alla fiaba -, come forse nessun altro riuscì a fare nel Novecento; tra il ’48 ed il ’50, ad esempio, collaborò assiduamente con molti Giornali (dall’ “Europeo” al “Mondo”).
Istintivamente refrattaria ad ogni programma o manifesto letterario, fu autrice estremista, come correttamente osservato da Geno Pampaloni, suo convinto estimatore, con un’insolita capacità lirica di far convivere sonno e veglia, verità e finzione, reale e surreale.
Tuttavia sfiorò davvero il neorealismo con i racconti de “Il mare non bagna Napoli”, nel primo dei quali una bimba semicieca vive nei bassifondi della città, convinta di trovarsi in un luogo da sogno, finché un paio d’occhiali non le svela l’immondizia e il degrado umano che la circonda. Questa raccolta di novelle, tuttavia, provocò (l’ingiusto?) giudizio di anti-napoletanità che finirà per diventare, per l’autrice, una sorta di persecuzione. Il libro fu infatti ottimamente accolto dalla critica, ma dovette altresì pagare il prezzo delle pesanti accuse sollevate da un gruppo di autorevoli intellettuali, secondo cui, a fondamento del testo, stava un disegno denigratorio contro la città di Napoli in ogni sua manifestazione: istituzioni familiari, tradizioni, organizzazione sociale. Tutto sembrò messo volontariamente all’indice, e soprattutto - seppure in via indiretta - una classe politica che faceva un uso a dir poco “improprio” del proprio potere. “L’Infanta sepolta”, secondo libro in assoluto della scrittrice, che fu invece il frutto di un lavoro pluriennale, potrebbe sembrare una specie di collage dell’ampia produzione di racconti precedentemente pubblicati su giornali e riviste, ognuno dei quali realizzato secondo eterogenee varianti. Ma la tesi di una silloge di testi tenuta assieme da un filo rosso quasi casuale o, peggio, involontario, perde credibilità fin dalle prime pagine. In esso, infatti, si respira un’atmosfera di unitarietà, che ne fa un libro davvero compiuto, dato che il lettore può riconoscervi una voce narrante che sembra nutrirsi di sé medesima, attingendo da una sorta di Letteratura popolare che non è apparentabile ad alcun referente di stampo classico. Un registro, insomma, di natura non nobile, al punto da sembrare perfino obsoleto. Ed è forse, proprio questa, la caratteristica che rende la Ortese - vera “grande isolata” del Novecento letterario italiano - un caso particolarmente speciale, almeno rispetto alla diffusa uniformità lessicale esibita dalla maggior parte degli scrittori a lei contemporanei. In essa, infatti, prevale una visione per così dire “creaturale” rispetto all’invenzione narrativa; ed è una visione che conduce la scrittura verso un nuovo registro, che potremmo definire di natura fantastica, poiché riflette un universo che tutto filtra attraverso una sorta di lente deformante, che altera perfino i più comuni connotati di uomini ed animali, i quali si mostrano come segnati da un atavico “peccato originale” di cui farsi carico fino alla morte: evento, quest’ultimo, trasfigurato in chiave spirituale, perché nella poetica ortesiana i mondi dei vivi e dei morti sono da considerare in un rapporto quasi osmotico tra di loro. E dunque il tono a tratti “evangelico”, che traspare dai racconti dell’ “Infanta sepolta”, centra perfettamente il risultato di trasmettere al lettore un’interpretazione magica dell’umana esistenza, strettamente legata a misteri e miracoli d’ogni tipologia. Una scrittura dunque difficile, diciamo pure impopolare, che inizialmente certo non contribuì alla diffusione delle sue opere. Secondo alcuni, però, più che al genere strettamente definito “fantastico”, le sue storie appartengono ad un genere più specifico: quello del cosiddetto “meraviglioso” tout court, dato che ella si propone di sviluppare in ogni direzione le infinite possibilità offerte dalla cosiddetta “sospensione dell’incredulità”, senza sentire mai l’esigenza di fornire spiegazione alcuna. Per fare un esempio concreto, “Il cardillo addolorato”, uscito nel 1993, - che fu subito salutato come un capolavoro - narra la storia di tre giovani (un principe, un commerciante ed uno scultore) che giungono a Napoli dal Nord Europa per incontrare un famoso guantaio. In esso un cardellino inerme, che muore all’inizio della storia perché lasciato senza cibo per due giorni, ricompare poi sotto altre vesti, quale personaggio onnipresente e mai definitivamente identificato (sotto il suo nome - Cardillo - si nascondono infatti un Ufficiale di sua maestà, un miserabile nobiluccio e perfino qualche nobile francese giacobino o girondino). Il cardillo è insomma un demone, che si aggira tra i protagonisti dell’opera senza mai trovar pace e caratterizzando in modo davvero indimenticabile un romanzo d’altri tempi, assai misterioso nella sua frivola lucentezza tardosettecentesca, labirintico e ricco di tensione lirica, ma anche di allucinazione, mistero e perfino amore, in cui la certosina attenzione stilistica miracolosamente si coniuga con una visione semi-sfocata della realtà che riflette il tentativo di mediazione filosofica che la donna perseguì per tutta la propria tormentata esistenza. E deve aggiungersi che l’ostinato silenzio che caratterizzò la sua vita privata fu in qualche modo punito dallo speculare silenzio della critica letteraria. Chi ha avuto la fortuna di conoscerla, del resto, riferisce di una donna orgogliosa, scontrosa e taciturna (“Ho sempre avuto paura di parlare, perché è difficile dire la verità”). Ma la sua chiusura verso il mondo esterno fu bruscamente interrotta nel 1986, quando, in una drammatica lettera all’amico poeta Dario Bellezza, lamentò d’esser stata sfrattata dalla casa di Rapallo dove si era trasferita alla fine degli anni 60, dopo avere girovagato come uno dei personaggi dei suoi romanzi: poveri, diseredati, ma proprio per questo semplici e puri - e di non avere denaro per trovare un’altra sistemazione. Bellezza si scandalizzò e, sinceramente preoccupato per lei, decise di rendere pubblici tali fatti: subito ne seguì una vivace campagna Stampa, con relativa raccolta di firme tra autorevoli intellettuali, che sollecitarono in suo aiuto l’intervento del Governo. La donna ottenne così un vitalizio di 24 milioni annui, quanti ne prevedeva la Legge Bacchelli. Fino a quel momento era riuscita a sopravvivere solo grazie alla pensione della sorella Maria, ex impiegata delle Poste.

A completamento di questo saggio, sembra poi utile proporre ai lettori di “Orizzonti” il suggestivo ricordo della Ortese dato dallo scrittore Raffaele La Capria.
«La notizia della sua morte non mi ha colto di sorpresa - scrive Raffaele La Capria -. Anzi: un po’ me l’aspettavo, perché, quando è morto Luigi Compagnone, ho subito pensato che lei lo avrebbe presto seguito “per simpatia”, come spesso accade tra persone che hanno un legame molto forte che le unisce, al punto da divenire complementari, così che l’una non è più concepibile senza l’altra. So che questa riflessione può sembrare strana, almeno dopo il ritratto spietato che Anna Maria ha fatto nel suo libro “Il mare non bagna Napoli”, non solo di Compagnone, ma di tutti noi, allora collaboratori di “Sud”, rivista nata a Napoli tra il ’45 e il ’47, sotto la direzione di Pasquale Prunas. Ma fu proprio Luigi a capire che la Ortese, col suo sguardo da negromante, nella realtà partenopea, aveva visto lo specchio nero e capovolto della sua stessa disperazione. Dietro quel libro, infatti, si nasconde un’illusione enorme, almeno pari alla delusione che glielo ha fatto scrivere. E comunque sia chiaro che pochi scrittori hanno saputo raccontare Napoli come la Ortese, perché il suo è davvero lo sguardo di una visionaria, che la conduce ben al di là del realismo apparente: la sua descrizione delle strade e della folla di Toledo ci trasporta infatti in pieno Seicento napoletano, poiché il lettore ha l’impressione d’assistere a qualcosa di veramente grandioso».
Ma per una comprensione davvero esaustiva della sua poetica va ancora una volta rimarcato che solamente nell’ultima parte della sua vita ella ebbe quel riconoscimento del suo valore a lungo atteso; come pure quel minimo agio capace di permetterle di condurre un’esistenza abbastanza normale. Per il resto, infatti, la sua intera esistenza fu costantemente priva di serenità, al punto che la donna, convinta d’essere perseguitata dalla malasorte, ebbe occasione di definirsi “uno specchio macchiato. Perché le cose che vedo non sono né belle né veramente felici”. E il pessimismo cosmico che la attanagliò è ben rappresentato da queste parole di Elmina, personaggio protagonista de “L’Iguana” e “Il cardillo addolorato” (nel quale è fin troppo facile riconoscere una proiezione della stessa autrice): “La felicità è male. Amare le creature è male. La vita è male”.

A questo punto, però, dev’essere tenuta nella massima considerazione anche questa interessante riflessione di Marco Belpoliti (“L’Espresso”). «I suoi temi preferiti - sostiene - furono sogni, bizzarrie, invenzioni, presenze di morti, fiabe, meditazioni sulle ragioni dell’amore e della sofferenza umana; il tutto trattato attraverso un linguaggio sontuoso, antico ed avvolgente. Sono storie di apparizioni, le sue, in cui si racconta la nostalgia per una vita non ancora vissuta, eppure già carica di rimpianti e desideri non soddisfatti. Tutta la narrativa della Ortese è piena di dolcezze negate che fanno riferimento, senza mai dichiararlo in modo esplicito, alla sfera sessuale. Ed è una sessualità infantile, tutta avvolta da visioni e sentimenti intensissimi, che induce i personaggi femminili a cadere ammalati per troppo desiderio, a vagheggiare incontri in cui la passione si sublima in forme d’amore materno, come nel racconto “Il Monaciello di Napoli”. Trattasi di una scrittrice davvero dotata di tocco magico, in grado di colloquiare con tutto ciò che è “altro”: l’ignoto, il sogno, la morte, l’estraneo, il diverso, l’animale, ed insieme di rappresentare il volto nascosto della femminilità, che è misteriosa fusione di anima e corpo».
In estrema sintesi, Anna Maria Ortese si può collocare tra i grandi scrittori “metafisici” come, per fare qualche nome, Leopardi o Dostoevskij: artisti cioè che hanno strutturato un rapporto talmente conflittuale con la realtà da non riuscire non solo ad affrontarla, ma neppure a sopportarla. Nella denuncia delle brutture della società in cui si vive, del resto, sta appunto una della peculiarità che rende immortale la vera Letteratura. Ciò che tuttavia distingue da tutti gli altri la Ortese, resta la sublime capacità di abbandonarsi alla fantasia. Proprio il citato Leopardi, del resto, osservò acutamente che “senza l’immaginazione, la vita dell'uomo sarebbe una carneficina”. Come dargli torto?

(Articolo di Fernando Bassoli, pubblicato su Orizzonti n. 36)


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