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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

“La bellezza e l'inferno” di Roberto Saviano diventa uno spettacolo teatrale

di Rivista Orizzonti

Far respirare le parole, la bellezza che sottrae all’inferno



In una calda serata di ottobre, il pubblico del piccolo e accogliente Teatro Studio di Milano attende composto, sulla strada chiusa, l’inizio dello spettacolo. Nella hall del Teatro per superare la mancanza d’aria si sventolano i biglietti d’ingresso o i programmi degli spettacoli, si avverte un’aspettativa ‘negata’. La pubblicazione de “La bellezza e l’inferno”, secondo libro scritto da Roberto Saviano, porta alla realizzazione di uno spettacolo teatrale, così come “Gomorra” portò alla realizzazione di un film, che ha ottenuto al Festival di Cannes 2008 il Gran Premio della Giuria e per la cui sceneggiatura nel 2009 Saviano ha vinto il David di Donatello e il Nastro d’Argento. Nell’attesa i commenti che precedono l’inizio dello spettacolo si accavallano, osservo qual è, com’è il pubblico di Saviano e mi accorgo che è transgenerazionale (si dice così?!). Molti, tra il pubblico, hanno letto il libro oppure devono ancora leggerlo, certo hanno letto “Gomorra”, ma l’aspettativa continua ad essere, nell’attesa, negata. Sappiamo che non vi sono attori in scena, ma che protagonista assoluto sarà il giovane scrittore e giornalista. Vediamo due sedie poste ai lati di un leggio e dietro di essi pendere dall’alto uno schermo. Conosciamo la regista Serena Sinigaglia, già allieva di Gabriele Vacis, e subito creiamo un’associazione con il “Vajont” di cui Vacis era stato regista e co-autore con l’interprete Paolini.
Puntuale entra in scena Roberto Saviano accompagnato dai suoi quattro “angeli custodi”. La giacca sopra una camicia bianca, pantaloni in Jeans marroni e le sue immancabili scarpe da tennis, guarda il pubblico e non si odono grida o parole, solo un lungo e calorosissimo applauso. L’emozione è già palpabile tra gli spettatori. Non c’è dislivello tra palco e pubblico al piccolo Teatro Studio. Il contatto è ravvicinato, quasi fisico. Chi ascolta è seduto in circolo, stretto intorno al protagonista. Milano saluta, accoglie e abbraccia così, questo ragazzo di Napoli. Ci si dimentica spesso che Roberto Saviano ha solo trent’anni, ma quasi tutti ormai sanno che vive sotto scorta da quasi quattro anni ed è forse questa “reclusione” in pubblico, ma certo e soprattutto anche nel privato, che lo rende vecchio senza esserlo. “Gomorra” ha dato a questo giovane scrittore la “notorietà” in cambio della sua libertà. È molto interessante comprendere il significato di questa “assenza” di libertà, perché motiva “l’aspettativa negata”.
Roberto Saviano guarda il teatro colmo di pubblico, si toglie la giacca, l’appoggia sopra una delle due sedie, in mano ha alcuni fogli che tiene ripiegati, ascolta commosso l’applauso e attende che in modo naturale si esaurisca per poi cominciare a parlare. Il libro “La bellezza e l’inferno” è dedicato ai suoi lettori, alla giornalista Anna Politkovskaja; lo spettacolo teatrale sarà dedicato a due giovani ragazze iraniane: Neda Soltani e Taraneh Moussavi uccise dalla polizia politica, in quanto colpevoli di manifestare contro il regime dittatoriale di Mahmud Ahmadinejad.
Neda e Taraneh sono coetanee di Roberto ed egli non può non raccontare la loro storia che si risolve nella loro morte tragica e orribile. Neda significa voce e Taraneh significa canzone. Neda il 20 giugno 2009 a Teheran stava manifestando contro il governo per i presunti brogli, con il suo cellulare stava riprendendo quello che accadeva. Il cellulare in quel caso diventa l'unico strumento che documenta la protesta e per questo è uno strumento pericoloso. Il regime iraniano non vuole ci siano prove: «Sta manifestando, ha un cellulare ed è una donna, questi tre elementi la condannano a morte. Il poliziotto che la vede spara e la prende al petto. Lei cade. Il sangue le riempie i polmoni. Le esce dal naso. Tutto il viso si macchia di sangue». Saviano mostra il filmato integralmente. Un filmato che ha fatto il giro del mondo, che ha cambiato la storia della percezione di quella manifestazione: «Neda smette di essere una manifestante di un paese lontano per diventare un simbolo».Taraneh, invece, è un'altra giovane manifestante che viene arrestata, stuprata in carcere decine di volte in sette giorni. In Iran le carceri sono promiscue. Lo stupro esercitato in modo indifferenziato su uomini e donne serve a dire che se manifesti perdi l'onore. Quando, a seguito di una forte emorragia, portano Taraneh in ospedale i medici rilevano i segni evidenti di una violenza estrema: aveva l’ano e il ventre sfondati. I medici vogliono fare una perizia. Allora il corpo violato ed abusato di Taraneh viene portato via e trovato, bruciato dalla vita in giù, qualche giorno dopo alla periferia Teheran. Una vicenda, sottolinea Saviano, che ricorda immediatamente la storia, raccontata in “Gomorra”, di Gelsomina Verde, una ragazza bruciata a Scampia durante la faida di Secondigliano, in quanto non aveva rivelato ai camorristi il rifugio del suo fidanzato. Saviano insiste particolarmente sul “tipo” di violenza subita da Taraneh; sappiamo dai giornali della denuncia di disumane violenze in carcere apparse su Twitter, su Facebook, ma in un ascolto, alle volte, distratto dei telegiornali o la lettura veloce di un giornale non consentono di comprendere a quale livello di brutalità possa spingersi un essere umano. Allora non è possibile a questo punto domandarsi il “perché” di tanto “male” e la risposta viene guardando il viso di Taraneh: il pubblico, quando vede apparire la foto di quel viso dall’espressione dolcissima, incorniciato da un velo scuro che ne copre il capo, non può non esclamare con un filo di voce: ma era bellissima!
La loro “bellezza” è stato un elemento fondamentale per condannarle. Neda e Taraneh muoiono perché vogliono vivere. Manifestavano per avere una vita migliore. La “bellezza” e la “felicità” sono gli elementi che hanno messo paura al regime di Ahmadinejad. Scrive la scrittrice Azar Nafisi, autrice del bestseller “Leggere Lolita a Teheran” (Adelphi 2004): «I recenti processi, in cui sfilano i volti esausti e stremati degli imputati con le loro espressioni vacue prodotte da un profondo senso di terrore e angoscia, non solo rappresentano la misura della violenza da parte del regime islamico, ma implicano una verità ancora più grande: la varietà e il numero degli imputati. La paura maggiore del regime è difatti l’estensione dell’opposizione; non si tratta di una minoranza o di un manipolo di agenti stranieri, ma di tutta la società civile iraniana, uomini e donne, giovani e vecchi, musulmani e secolari, dissidenti ed ex uomini del regime, tutti definiti negli stessi termini e condotti alla stessa sbarra. Più che il processo sono proprio loro, con la loro presenza, a mettere in discussione i fondamenti di quel sistema autoritario». (Domenica, de “Il Sole24ore, 11 ottobre 2009.)
L’aspettativa “negata” consiste nel notare la scarna pacatezza delle argomentazioni con cui Roberto Saviano racconta queste due storie significative, lasciando che siano i fatti a parlare: non insinua, non allude, non cerca dimostrazioni ideologiche. A differenza di tanti, non è tentato dall’enfasi della denuncia, in quanto “documenta” e semplicemente “ragiona”.
La camorra con le sue cosche viene evocata da lontano, ricordando i nigeriani che a Castel Volturno hanno ingaggiato contro le cosche camorristiche una battaglia civile e la cantante Miriam Makeba è morta d’infarto dopo un concerto tenutosi lì appositamente per sostenerli. Ascoltiamo la canzone sua più famosa: “Pata Pata” e non possiamo, sulle sue note, non dondolare sulle poltrone; è una canzone dal ritmo coinvolgente che esprime gioia di vivere. Appunto “gioia di vivere”, per questo stesso motivo Miriam Makeba, come Neda e Tareneh, è stata esiliata per trent’anni dal governo sudafricano e, in fondo, è morta. Morta nella sua Terra, in Africa e di questo, certo, sarà stata felice: «Non l’Africa geografica ma quella trasportata qui dalla sua gente, che si è mescolata a questa terra (…) tra gli africani della diaspora arrivati qui a migliaia e che hanno fatto propri questi luoghi, lavorandoci, vivendoci, dormendo insieme, sopravvivendo nelle case abbandonate del Villaggio Coppola, costruendoci dentro una loro realtà che viene chiamata Soweto d’Italia». (“La bellezza e l’inferno”, p. 33); così Roberto Saviano è stato aiutato dai famigliari dell’Artista a superare il senso di colpa per la sua morte. L’aspettativa “negata” dello spettatore nasce nel ricordare la lettura del capitolo in cui si parla dello scrittore Varlam Salamoi (“La bellezza e l’inferno”, pp.197-204) e di un suo libro “I racconti di Kolyma”, di un racconto in particolare in cui, per la prima volta, lo scrittore comprende di avere un’anima. L’anima, entità astratta, aerea, indefinibile ha una “sostanza” quando l’uomo sente che tutto può essere reso, ma non l’anima come libertà di coscienza, come conservazione della propria dignità di Uomo cui qualsiasi privazione può agire sul suo corpo, ma non sulla irriducibile consapevolezza della propria umanità. È “l’umanità” di cui sono intrise le storie raccontate da Roberto Saviano a rendere queste storie esemplari, storie della condizione umana.
«Non c’è più Napoli, non c’è più Mosca, non c’è più la Cecenia: queste storie diventano realtà che raccontano il mondo, e quindi il mondo non può più prescindere da loro e non puoi fermarle. Non puoi più fermare questo movimento, questo passaparola: perché puoi fermare lo scrittore, ma lo scrittore ha un alleato fondamentale che è il lettore. Fin quando esiste il lettore nulla può succedere alle parole di uno scrittore». (“La bellezza e l’inferno”, p. 199).
Storie che raccontano l’inferno e la bellezza come forma di resistenza. Le immagini e la storia di Lionel Messi, straordinario calciatore del Barcellona, con il corpo di un bambino, ma capace di giocare come Diego Maradona di cui imita perfettamente un tiro in rete. Racconta Roberto Saviano: «Si dice che il calabrone non potrebbe volare, perché il peso del suo corpo è sproporzionato alla portanza delle sue ali. Ma il calabrone non lo sa e vola. Messi con quel suo corpicino, con quei suoi piedi piccoli, quelle gambette, il piccolo busto, tutti i suoi problemi di crescita, non potrebbe giocare nel calcio moderno tutto muscoli, massa e potenza. Solo che Messi non lo sa. Ed è per questo che è il più grande di tutti» (Ibidem, p. 80), il pubblico sorride e prova anche una certa tenerezza nello scorgere in questo suo entusiasmo per il calciatore, la squadra del cuore (il Napoli), il Roberto adolescente, giovane ragazzo della sua età. Lo schermo proietta le immagini di Michel Petrucciani, il pianista deforme per cui «la musica è la vita stessa, non il suo più nobile surrogato, è l’infinita ricchezza del creato di cui uno scherzo di natura conosce il valore e la bellezza. La bellezza che sottrae all'inferno. Albert Camus nel suo libro L’uomo in rivolta scrive: “Ma l’inferno ha un tempo solo, la vita un giorno ricomincia».(Ibidem, p. 1)
Le storie raccontate da Saviano in teatro hanno un tempo ed un ritmo precisi. Saviano dimostra di avere una capacità innata nella recitazione e certo riesce nel suo desiderio e intento di “far respirare le parole”.
Guardiamo ora in conclusione la copertina del libro “La bellezza e l’inferno”; compare un’opera di Alberto Burri “Rosso plastica”, apparentemente inquietante nel contrasto tra il rosso della plastica e il nero dello sfondo, la plastica bruciata apre in sé uno squarcio, apre ad un vuoto che come tale anela ad essere riempito. Una plastica che si de-forma per combustione e si tras-forma. Una plastica che ora è ciò che è per un atto creativo, per un “poiein” e qui sta la sua “Bellezza”, la sua “Poesia”. La vita di ciascuno di noi, indipendentemente dal suo esito, ha il destino di un uomo come “proprio” destino se, come Diogene, lo andiamo volutamente e consapevolmente a cercare.

(Articolo di Paola Piacitelli, pubblicato su Orizzonti n. 36)


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