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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

La mostra “Nuvole sacre” di Roberto Coda Zabetta - La rievocazione della tragedia atomica di Hiroshima e Nagasaki

di Rivista Orizzonti

L’Artista ha esposto quindici grandi tele al Palazzo Reale di Milano, nella mostra “Nuvole sacre”, in occasione del sessantacinquesimo anniversario dello scoppio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki


Entrando nella pagina facebook di Roberto Coda Zabetta, sotto il box «Interessi», colpisce la presenza di Peppino Impastato. Ci si domanda se non sia solo la coscienza civile di un giovane Artista a ricordare colui che, parente di un capomafia che abitava a «cento passi» dalla sua casa, ha deciso di denunciarlo pubblicamente non solo in quanto persona, ma per quanto rappresentava: un vero e proprio cancro umano e sociale per la sua Sicilia. Peppino Impastato è morto tragicamente, il suo volto è stato svilito, sfigurato e il suo corpo reso irriconoscibile. Ciò che è stato fatto su quel corpo è quanto si vuole che sia: assenza di colpevoli, vuoto aperto dalle assoluzioni, tragica evidenza delle vittime. Di questo volto rimane allora un’impronta anche nei volti ritratti da Roberto Coda Zabetta che nel 1998, dopo l’incidente mortale del fratello Stefano, comincia a dipingere Volti che urlano, dilatati su tutta la superficie della tela.
Il volto è per Roberto Coda Zabetta l’unica cosa che ci identifica, ma che non ci appartiene: «Voglio comunicare la straordinaria personalità che c’è dentro di noi e che troppo spesso confondiamo con identità costruite e il più delle volte estremamente false». Nel tempo quei volti si sono in parte ri-composti, sono apparsi immobili, quasi impassibili innanzi ad una domanda che pongono a colui che li guarda: “Tu che dici di vivere, che fai della tua vita?” Un’associazione ci viene di fare con la fotografa Letizia Battaglia. Forse non esiste, nella fisiognomica della violenza e della morte, viso più sfaccettato, camaleontico, sfuggente nell’ombra, palese nella forza della luce siciliana, di quello della mafia ritratta dalla Battaglia dal 1975 per le pagine dell’«Ora» fino alla metà degli anni ’80, quando alla fotografia questa donna dalle passioni solari, plastiche nelle infinite possibilità di forma, ha unito la politica e l’editoria. Sono la corsa di una donna a piedi scalzi sull’asfalto, fresco nella notte, e il cadavere del marito al bordo della strada. Sono i brindisi dell’aristocrazia in festa a Palazzo Ganci e i fazzoletti neri riflessi su una bara, le preghiere alla Vergine e il corpo di Nerina, prostituta, e dei suoi clienti. Corpi senza vita, come quello di Cesare Terranova e Piersanti Mattarella. Condannati a morire come quello di Giovanni Falcone. Destinati a sopravvivere nel dolore come quello di Rosaria, vedova di Vito Schifani, uomo della scorta Falcone, morto nell’agguato di Capaci. Ritraggono il dolore.
Coda Zabetta afferma in una intervista che i suoi lavori «ti fanno riflettere e fanno riflettere anche la parte più dolorosa del proprio io. Mi sembra molto importante credere e capire il dolore fino al punto da farlo proprio, usarlo, spremerlo come si spreme la gioia ai suoi massimi livelli. È faticoso, ma mi sembra l’unico modo per rendersi veramente conto da quanta superficialità siamo circondati. Credo sia molto importante scoprire il proprio limite, sia nel dolore che nella gioia».
Ma nelle vicende umane ci sono eventi che vanno al di là dell’immaginabile e se il volto del fratello Stefano, di Peppino Impastato o di altre vittime della mafia rimane nella sua matericità, seppur sfigurato, e urge di definizione del nostro Essere nel Mondo, i corpi e i volti delle vittime di Hiroshima e Nagasaki, dopo l’agosto del 1945, hanno subito diversa sorte: «volti ignari che hanno guardato il cielo quella mattina di agosto restando accecati dal lampo incandescente e abbagliante che li ha cancellati per sempre, lasciando, in alcuni casi, solamente l’ombra delle persone impresse lì dov’erano al momento dell’esplosione: in piedi davanti un muro o sedute su un autobus o sui gradini di un palazzo. Volti ignari di chi, in un attimo, è stato spazzato via dalla follia umana che ha preso il nome di BOMBA ATOMICA» (Claudio Composti, «La prima volta non si scorda mai», Catalogo Nuvole sacre, Ed. 24Ore Cultura).
Entrando a visitare la mostra dal titolo «Nuvole sacre» a Milano presso il Palazzo Reale dal 24 luglio al 29 agosto 2010, ci pare che quei volti della violenza, del sonno della ragione umana, siano ora avvolti come in un sudario da quelle nuvole dipinte su grandi tele in bianco e nero che, quando la vernice si confonde, assumono tutte le tonalità intermedie, lasciando essere una forma che non ti respinge, bensì ti attrae e ti avverte che, in mezzo a tanta oscurità, c’è anche luce. Le grandi tele si ispirano, di fatto, alle nuvole atomiche, ma quelle nuvole possono anche essere le “Nuvole” di Fabrizio De André; sono nuvole sublimi nella loro bellezza effimera e carica di morte, nuvole che sovrastano, coprono e si depositano gravide di distruzione. Sono nuvole che si contrappongono ad altre nuvole come quelle che protessero la città di Kokura. Il 9 agosto 1945 fu sganciato il secondo ordigno atomico, nome in codice “Fat Boy”, sulla città di Nagasaki, ma non era questa l’obiettivo vero. Fu un ripiego dettato dalle condizioni meteo di quella mattina: le nuvole oscuravano il cielo proteggendo l’obiettivo iniziale, la città di Kokura per l’appunto.
Le nuvole si formano in cielo, ignare della loro bellezza e si donano alla innocente immaginazione dei bambini che in esse vedono un Mondo. Dietro le colline, che si possono osservare dallo studio nelle Marche del nostro Artista, ogni sera è possibile vedere lo spettacolo delle nuvole che prendono forma a volte di funghi atomici, e proprio queste gli hanno ricordato uno degli avvenimenti che ha segnato non solo la storia del Giappone ma di tutto il XX secolo. Come rendere quell’immagine? Cosa rispondere al senso del nostro vivere, dopo quell’evento?
Lo scrittore Hara Tamiki spiega: «Dopo essere sopravvissuto alla tragedia dell’atomica, per me e la mia scrittura fu come essere esclusi con violenza da qualcosa. Volevo descrivere quelle scene che avevo visto con i miei occhi, fosse anche l’ultima cosa che facevo. In mezzo alle grida e al caos della morte, ardeva dentro di me una supplica agli uomini nuovi. Se, debole come sono, ho potuto sopportare una fame e uno stato di necessità così estremi, è in parte anche per questo. Ma l’onda di isteria del dopoguerra mi ha travolto furiosamente, e sembrava sempre sul punto di ridurmi in mille pezzi. Ogni singolo istante di vita su questa terra, per me, è come attraversato da brividi vertiginosi. Da allora mi porto dentro il dolore acuto della tragedia che si svolge quotidianamente nel cuore delle persone, dell’ultimo sforzo a cui ciascun essere umano è sottoposto» («L’ultima estate di Hiroshima», L’ancora del Mediterraneo, Napoli).
Con la stessa forza, una vera e propria tensione, fra il corpo dell’uomo e l’attrazione magnetica di quell’evento, Coda Zabetta elabora quel pensiero tragico sul futuro dell’uomo che può essere di distruzione o salvezza; molto o tutto dipende se siamo in grado di guardare e rispondere a quei volti urlanti o impassibili.

(Articolo di Paola Piacitelli, pubblicato su Orizzonti n. 38)

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