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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Valledora, la terra del rifiuto - Intervista a Matteo Bellizzi, regista del documentario ufficiale ( e non distribuito ) di uno scandalo italiano

di Rivista Orizzonti




1989: nelle zone comprese tra Santhià, Alice Castello, Cavaglià e tutta quell’ampia frangia di territorio piemontese che va sotto il nome di Valledora, si materializza dal nulla il progetto di una megadiscarica, col beneplacito della Regione, della Provincia, nonché dei sindaci dei Comuni più direttamente interessati. Alla base di tutto, l’emergenza creata dallo stop all’inceneritore di Vercelli.
Dal 1989 ad oggi la Valledora viene di frequente sventrata allo scopo di ospitarne altre, di megadiscariche, molto vicine fra loro e poste sopra alle falde che portano acqua a rubinetti, docce, fontane e risaie della piana vercellese. Allo stato attuale, le falde superficiali stanno cominciando ad inquinarsi e non c’è modo di arrestarne il degrado.
Il Movimento Valledora, movimento ambientalista che raggruppa sotto di sé numerosi comitati di cittadini provenienti dalle provincie di Torino, Biella e Vercelli, ha deciso di gridare basta a modo suo, ovvero senza alzare la voce ma diventando, in qualche maniera, una piccola casa di produzione cinematografica, almeno nello specifico esempio di questo sconcertante documentario intitolato Valledora - La terra del rifiuto. E ne commissiona la regia a uno dei più sensibili autori documentaristici che oggi si possano trovare sulla scena italiana: Matteo Bellizzi, che molti ricorderanno al Festival del Cinema di Venezia, qualche anno fa, col toccante Sorriso Amaro.
Contrariamente all’acclamata opera d’esordio del giovane regista, ispirata al quasi omonimo film capolavoro di Giuseppe De Santis, Valledora - La Terra del Rifiuto è un documentario indipendente e dunque non distribuito, visibile in trailer sul sito stesso dell’associazione (www.movimentovalledora.org), la quale organizza proiezioni pubbliche, e visite guidate alla Valledora, proprio allo scopo di sensibilizzare enti e popolazione su una problematica scomoda, su cui è difficile esporsi, se non attraverso vie anti-convenzionali.

Dalla poesia di Sorriso Amaro, le anziane mondine che tornano in risaia, alle immondizie della Valledora: qual è stata la spinta verso questo cambiamento di paesaggio?
«Sono trascorsi sei anni dall’uscita di Sorriso Amaro, e almeno altri quattro ne hanno preceduto la realizzazione, perciò su un totale stimabile in dieci anni di vita si acquisiscono visioni ampliate e amplificate dello stesso paesaggio. La scelta era quella di evitare qualcosa di puramente celebrativo sulla pellicola di Giuseppe De Santis. Si è trattato di accompagnare delle autentiche mondariso, oggi pensionate, e riportarle nei luoghi di lavoro della loro gioventù, per poterli raccontare attraverso questa particolare quanto diretta testimonianza. La poesia, se davvero c’è stata, è servita a sporcarsi le mani in questo senso».

E a un certo punto, con l’immondizia, le mani te le sei sporcate sul serio…
«È un affondo necessario: se ti poni nell’ottica di esplorare la terra a cui appartieni, è fatale che lo sguardo debba nel tempo spostarsi da dove sei partito per condurti, e condursi, verso angolazioni insolite. Più chiare, più oscure. Si arriva all’interno di alcune stanze, del paesaggio, che prima non vedevi. Finora mi sono mosso su urgenze mie, personali, mentali, e ho impostato il lavoro documentaristico su un versante emozionale, di conservazione di certa memoria. Ora l’urgenza è cambiata: si è fatta critica, per non dire politica».

Valledora - La terra del rifiuto è un documentario che hai girato su commissione del gruppo ambientalista Movimento Valledora, non è nato da nessuna delle necessità di cui stiamo parlando.
«Dal punto di vista civile, credo sia un gesto di grande democrazia che un gruppo di cittadini rimasto vittima di un problema abbia sollecitato l’intervento di un narratore. Il Movimento Valledora si è costituito vent’anni fa e nell’arco di vent’anni la comunicazione è cambiata moltissimo: la vera informazione, o per lo meno una buona percentuale dell’informazione, non arriva più dai canali mediatici di massa, ma giunge all’orecchio della gente attraverso produzioni come questa, che mi piace definire “dal basso” in virtù del fatto che gli spettatori stessi di una problematica ambientale sono diventati produttori cinematografici, allo scopo di veicolare il proprio messaggio utilizzando un mezzo diretto e soprattutto autonomo. Se avessimo bussato alla porta di possibili finanziatori proponendo loro d’investire somme di danaro per un documentario simile, dubito che sarebbe mai stato possibile girarlo e farlo girare».

Esiste un aspetto che incide enormemente sulla visibilità di un’opera: la distribuzione. Come gira, allora, un documentario autoprodotto?
«Sta succedendo qualcosa di forte e di miracoloso: abbiamo iniziato una tournée che si sta espandendo a raggio attorno all’epicentro della vicenda. Le proiezioni di Valledora mi avvicinano a una dimensione primordiale della narrazione. Un tempo c’era chi si muoveva di paese in paese a portare notizie. Noi facciamo altrettanto, credo, perché esiste un problema di consapevolezza che dobbiamo farci carico di risolvere, se il documentario, in termini tecnici e di scopo, dev’essere una “ripresa dal vero”. Sembra paradossale, ma gente che convive con le discariche alla porta di casa sua, e partecipa a una delle serate di proiezione, ne esce destabilizzata. È come se all’improvviso qualcuno avesse messo davanti agli occhi di queste persone uno specchio. Prendono coscienza di quanto hanno di grave in casa grazie ai meccanismi atavici messi in moto dal semplice vederlo su grande schermo. E qualcosa, dentro, inizia a muoversi».

E tu pensi che in un mondo come il nostro, dove qualsiasi cosa, per essere vera, deve passare in televisione, un documentario visibile porta-a-porta abbia senso?
«La televisione possiede il potere di veicolare qualunque messaggio, ma tutto implode. Io non sono interessato a questa diffusione, voglio e devo sentirmi libero di andare per piazze, case, circoli e ovunque esistano gli spazi, i tempi e i modi per dire “ok, è finito il film, adesso ne comincia un altro”. E l’altro qual è? Quello del guardarsi, del confrontarsi, del ragionare insieme attorno a una problematica che riguarda tutti i presenti e non solo. Credo sia questa l’unica speranza rimasta nel mantenere viva una sfera sociale del cinema - e per sfera sociale intendo la collettività che il cinema rappresenta. Percepisco a ogni serata l’accendersi di un fuoco, di un “riprendiamoci la nostra terra” nei termini di un richiamo alla coscienza di ciò che siamo e di dove vogliamo andare, rispetto alla situazione. Nelle discussioni, nei dibattiti, emerge prepotente una ritrovata razionalità».

Un po’ come chiudi il documentario, con una ragazza che guarda in macchina e dice “non me ne voglio andare di qua, questa è casa mia”…
«Sì, esatto. Poi non posso sapere se una volta a casa, complice la quotidianità, s’inneschi un meccanismo di rifiuto del messaggio. Tant’è che spesso le persone chiedono, semplicemente: “cosa dobbiamo fare?” Ovvero, dove sta, alla fin fine, la soluzione?»

E dove starebbe, secondo te?
«Nel ricordarsi di quella consapevolezza sfiorata e poi dimenticata. Girando Valledora ho assunto su di me un messaggio e questo messaggio mi ha cambiato. Se a tanti accadesse di compiere un percorso analogo, crederei molto in un’ipotesi di cambiamento innescato però “dal basso”. Voglio dire: esistono problemi colossali legati al surriscaldamento del pianeta, all’inquinamento, alla crisi, e non saremo certamente noi a risolverli. Tuttavia, se nella microfibra sociale si attivano determinate reazioni, moltiplicandole sul piano mondiale avremmo forse qualche possibilità di migliorare parecchie cose. Se invece di salvare il mondo mi limitassi a bussare alla porta del mio vicino, che getta immondizie in maniera indiscriminata, col gesto di parlarci, di aiutarlo a differenziare, di recarci insieme dal sindaco e chiedergli maggiore trasparenza sulla gestione della spazzatura, andrei a migliorare un piccolo mondo, ma di riflesso migliorerei un po’ anche quello grande».

Si parla tanto di libertà dell’informazione: avete avuto qualche intoppo a mostrare un video che accusa molto chiaramente responsabilità politiche?
«Abbiamo scelto di non coinvolgere personalità politiche all’interno del documentario, preferendo invece dare voce a chi di solito una voce non ce l’ha. È stata una scelta soprattutto mia, questa; ero in cerca di domande, più che di risposte. I politici hanno sempre la risposta pronta, invece».

Gente sì, politici no. Non è una posizione comunque politica?
«Sì, certo che lo è. Anzi: mi piacerebbe vederne, di politici, alle nostre serate, ma purtroppo non ne ho ancora incrociati nel dibattito conseguente a questa “provocazione” che sta nell’ascoltare la gente. Mi sembra ci sia la volontà d’imporre alle persone un immaginario rassicurante che non si desidera incrinare. Vale a dire: hai la tua vita, non farti troppe domande. Ti garantiamo i tuoi piaceri, ti garantiamo che va tutto bene. Stop. Io, come tutti quelli che s’incasinano con le proprie mani, assumo ogni volta un modo fanciullesco di interrogare le cose del mondo. Faccio come il bambino che allunga l’indice e chiede perché».

Note biografiche.
Matteo Bellizzi (1976) è stato allievo della scuola per documentaristi “I cammelli” di Daniele Segre ed è attivo nel campo cinematografico dal 1997. Partito come operatore per l’agenzia di stampa inglese WTN, ha esordito come regista nel 2000 con il cortometraggio Filari di Vite, ottenendo i primi riconoscimenti in ambito festivaliero (Torino Film Festival, Premio Spazio Torino, Festival del Cinema Indipendente di Milano, Festival Sentiero Corto di Domodossola). Nel 2002 inizia la sua collaborazione con la casa di produzione torinese SteFilm, attraverso cui, nel 2003, realizza il documentario Sorriso amaro. Il film, prodotto da SteFilm in collaborazione con Regione Piemonte, YLE (Finlandia), RTSI (Radio Televisione della Svizzera Italiana), Film Commission Piemonte ed Emilia Romagna, gli consente di ricevere importanti riconoscimenti anche in campo internazionale: viene infatti selezionato alla 60ª Mostra del Cinema di Venezia nella sezione “Nuovi Territori”, suscitando un’ottima critica da parte di pubblico ed addetti ai lavori. Il lungo percorso iniziato con Sorriso Amaro, lo porta, nel dicembre 2003, a New York presso il MoMA (Museum of Modern Art), selezionato come unico documentario italiano nella rassegna “Documentary Fortnight”. Nel 2003 il film è stato trasmesso in Italia da RaiTre per il Ciclo Doc3. Partecipa inoltre al concorso Location Piacenza con il cortometraggio Piccoli confini aggiudicandosi il primo premio. Dal 2004 collabora attivamente con Stefilm e nel 2005 realizza come regista e supervisore del progetto la serie di 12 corto-documentari intitolati Piemonte Stories - Storie del Piemonte, presentata in occasione delle recenti Olimpiadi Invernali di Torino 2006. Ha recentemente collaborato con il gruppo musicale YoYo Mundi per il quale ha prodotto il Dvd Resistenza (distribuito da Il Manifesto) ed il backstage del loro primo tour in Inghilterra. Nel mese di settembre del 2006 ha compiuto un viaggio in Nepal al seguito dell’associazione umanitaria “12 Dicembre” da cui è nato il documentario Mentre stai dormendo, un diario in cui l’esperienza di cooperazione dell’associazione si mescola con la realtà della vita in uno dei paesi più poveri del mondo. Dall’Ottobre 2009 ha aperto a Torino una propria casa di produzione indipendente, la Doc In Progress (www.docinprogress.com).


(Articolo di Gianluca Mercadante, pubblicato su Orizzonti n. 36)

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