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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Totò: la storia di un burattino

di Rivista Orizzonti

Curiosamente il titolo originario di “Pinocchio” di C. Collodi era “La storia di un burattino”, che calza a pennello per definire la vicenda artistica di Totò (nome d’arte di A. de Curtis). “Pinocchio” è la fiaba moderna più nota al mondo, ne esiste anche una versione africana, in cui si possono individuare alcune «funzioni» o situazioni tipiche (vedi V. Propp), che si ripetono nella maggior parte delle fiabe tradizionali. Il linguaggio di Collodi (pseudonimo di C. Lorenzini) è un fiorentino agile e sicuro, fatto di cose e oggetti, la prosa non ha cause descrittive e paesaggistiche: la forza della narrazione (come è stato scritto) sta nel fatto che ad ogni azione è collegata un’altra, messa in atto dalla precedente. “Pinocchio” è dunque un vero e proprio «teatro della parola», un susseguirsi di personaggi e vicende. Dove il burattino è sempre in movimento come in molte sequenze dei film di Totò, tra fughe, beffe, incidenti, viaggi, pericoli.
In questo «teatro», Totò entrò da protagonista nella rivista “Volumineide” di M. Galdieri (del ’42) e in altre riviste, interpretando proprio Pinocchio, e poi nel famoso film a colori, intitolato appunto “Totò a colori” (il primo in Italia in Ferraniacolor), che il comico amava di più: esibendosi da vera marionetta in una sublime disarticolazione, davanti ad un pubblico di bambini. Ma Totò ebbe a che fare con marionette e burattini fin da piccolo, nel Rione Sanità dove nacque il 15 febbraio 1898 (anche R. Viviani, figlio di un vestiarista teatrale, si esibì in un numero di Varietà, da bambino, al termine di uno spettacolo di marionette, a Porta S. Gennaro, a Napoli, sostituendo un comico ammalato). Certo, nell’inconscio del bambino Totò, i movimenti, i gesti dei burattini, nel contesto di «canovacci» molto antichi, osservati a lungo e ripetuti a casa davanti allo specchio, mutuati dal Pulcinella/burattino (e poi dal «Pazzariello» e dai comici del Varietà) hanno avuto un’eco profonda. Lo hanno identificato e a loro modo «guarito» rispetto alle sue paure di figlio «naturale» e spesso abbandonato, emarginato, permettendogli di comunicare con gli altri (a partire dalla prima esibizione davanti agli «scugnizzi» del Rione, a sette anni, che lo sbeffeggiavano per i suoi pantaloni a fiori, che la nonna aveva fatto con una gonna della madre Anna Clemente). D’altra parte il libro di Collodi sembra proprio raccogliere e continuare (e molti lo hanno notato) l’eredità della celebre Commedia dell’Arte e del teatro dei burattini, diffusissimo in quei tempi con le sue maschere tradizionali, ricche di magia. E, come Pinocchio, anche Totò, nell’infanzia, fu come preso per mano dai burattini e divenne uno di loro: da bambino che era (capovolgendo tale storia) e senza mai veramente diventare un «omino» piccolo/borghese di certo cinema, restò fedele a tale sua vocazione iniziale anche con P. P. Pasolini (si pensi all’episodio Che cosa sono le nuvole), che lo definì «burattino sottoproletario». Del resto, nella sua prima versione Pinocchio non diventava affatto un bambino. E la storia finiva al XV capitolo, con la sua morte per impiccagione.
Furono soprattutto i bambini che scrissero al giornale, dove la storia di Pinocchio era pubblicata a puntate, a far seguitare le avventure, sollecitando l’autore ad una metamorfosi, con l’intervento della Fata turchina. Una sorta di madre/madrina severa, ma soccorritrice, che evidenzia bene la valenza che ebbe per lui la figura materna e più in generale la donna: va ricordato che anche Collodi in gioventù fu uno «sciupafemmine» come Totò, anch’egli legatissimo alla madre (anche se spesso bisticciavano).
Pochi sanno che, il distacco di Antonio de Curtis dal suo essere Totò maschera/burattino, avvenne nel privato della sua vita, una specie di «morte» e di metamorfosi interiore, nella seconda parte dell’esistenza, una volta riconosciuto dal padre: il marchese G. de Curtis, discendente da Bisanzio. Quindi anche per lui ci fu sempre, come in Collodi, e recenti studi lo hanno chiarito, il segreto binomio «miseria e nobiltà», che affonda le sue radici negli anni infantili di entrambi (Collodi era figlio di un cuoco e di una cameriera eppure visse a stretto contatto con l’ambiente dei marchesi Ginori a Firenze, nel cui palazzo fu accolto a tre anni...).
Così si formò in Totò la figura dell’uomo ideale, del nobile, del «bel signore» (lui nato in un rione poverissimo, da una ragazza nubile e squattrinata, di Napoli, dove pure i nobili avevano i loro palazzi) cui pure Carlo Lorenzini a suo modo anelava, in modo stravagante.
Ma Totò (come ho scritto nel mio recente libro “Totò e Pinocchio”, Aletti Ed. 2011) resta burattino/marionetta/Pulcinella in ambito artistico (nonostante, come già accennato, il neorealismo) e in un certo senso redime, nobilita (in modo speculare alla vicenda di Pinocchio) tale realtà meccanica dandole un valore simbolico di contestazione e di libertà, anarchicamente contro tutto e tutti.
C’è inoltre di fatto uno stretto legame tra il teatro dei burattini e il Varietà: la figura stessa del comico acrobatico G. De Marco, che Totò iniziò ad imitare (in segreto, a casa, davanti allo specchio come i gesti di Pulcinella/burattino) durante la scuola elementare, lo conferma: era rimasto infatti incantato dalla sua particolare mimica e dalle sue movenze (e dallo scioglilingua) che gli ricordavano tanto il teatro di «figura» e comprese di avere le sue stesse capacità da contorsionista (a rendere davvero unica la sua faccia fu un pugno sferratogli per errore da un suo precettore nel Collegio Cimino, che gli deformò naso e mascella).
Attraverso il teatro ambulante delle «guarattelle» o piccole guerre a colpi di bastone, costituito da una baracca di legno e di stoffa, il Pulcinella più antico e verace (quello analizzato da R. De Simone) affascinò il piccolo Antonio Clemente (poi de Curtis) e così entrò in contatto a livello immaginativo con il mistero della comicità, collegato al «doppio» (l’«ombra» secondo Jung). E apprese a poco a poco la funzione liberatoria della rappresentazione teatrale. Superando comicamente la violenza, Totò imitò sempre, ricreandoli a suo modo, i gesti rapidi del Pulcinella/burattino, che ballava, piroettava e cantava (così come quello del Carnevale napoletano), zanni sempre affamato, sciocco o folle e astuto e anche filosofo allo stesso tempo. In eterno contrasto con la Morte, il Diavolo, i gendarmi, gli animali feroci e fortemente attratto dal gentil sesso in tante peripezie, tipiche del teatro popolare. Totò realmente sentì in vari modi, prima fisicamente da piccolo, con una meccanica ripetizione, il legame con tale mondo artistico. E poi, da grande, quando modellò su tali basi la sua maschera, metabolizzando vari influssi, portando la sua comicità fino all’astrazione in modo grottesco in scene memorabili nei film che, soprattutto, attingevano al suo amatissimo teatro di Varietà, che a Napoli già dal 1890 (e poi a Roma) aveva trovato la sua sede naturale, dopo Parigi.
Del resto i burattini, le marionette (come pure i robot) catturarono, tra ‘800 e ‘900, l’attenzione di molti autori e attori che sentivano l’esigenza di creare un nuovo tipo di teatro (grande fermento era in atto anche in ambito letterario, pittorico, musicale, filosofico e scientifico), facendo ricorso alla Commedia dell’Arte e al Varietà. Si pensi a G. Craig o allo stesso G. P. Lucini, che precorrendo il Futurismo individuò in tale forma teatrale la fonte per una teatralità più moderna e dinamica, inserendo pure l’uso del colore e della musica e di un linguaggio non convenzionale.
Idea poi ripresa da Marinetti e da Cangiullo: non va dimenticato che il Teatro Sintetico futurista, e in particolare il cangiulliano Teatro della sorpresa, ha attinto molto al Varietà napoletano (come alla commedia dell’Arte) coinvolgendo lo stesso Petrolini, per non parlare di L. Fregoli. Portando fino alla provocazione estrema delle «sintesi» tale tipo di rappresentazione, suscitando reazioni contrastanti, agendo comunque, insieme ad una massiccia propaganda e gazzarre clamorose (ad arte), come cassa di risonanza del Varietà stesso e della sua importanza. Totò fu dunque molto attratto dal teatro di Varietà dove avveniva uno scambio originale tra tradizione e avanguardia futurista, perché vide in esso una segreta affinità: rivedeva infatti se stesso nella sua camera da letto ed esaltati in un contesto moderno quei movimenti burattineschi e gli scherzi linguistici che proporrà in tanti film, degli attori della commedia dell’Arte (dove aveva recitato da ragazzo come «mamo») e dei burattinai. Che imitavano tutte le voci e i versi degli animali (come l’antico Maccus gli uccelli), recitavano in tutti i dialetti, parodiandoli, ridicoleggiando i potenti, con i loro modi disarticolati, gli scatti legnosi, con sequenze d’azione a ballo, mulinando le braccia.
La sua storia di burattino cominciò così.

(Articolo di Aldo Marzi, pubblicato sulla rivista Orizzonti n. 41)


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