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Info sull'Opera
Autore:
Rassegna Stampa
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
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Su inkorsivo.com: intervista a Mario Caruso, autore del romanzo "Il grande buio" ( Aletti Editore )

di Rassegna Stampa

Il Grande Buio (Aletti, 2015) è il romanzo d’esordio del giovane scrittore aretino Mario Caruso. In un mondo italiano fatto di precarietà lavorativa e non, ci siamo fatti raccontare qualcosa da chi ha speso pagine e pagine per sviscerare questa realtà.

Inkorsivo: Quali sono le fonti letterarie che, in maniera più o meno diretta, hanno ispirato la scrittura de Il Grande Buio?

Mario: Coloro che ho rinominato i miei Musi ispiratori sono quattro letterati che io reputo di prim’ordine, i quali non solo mi hanno ispirato, ma per me è stata addirittura provvidenziale l’analisi di tutti i loro testi nel corso di questi ultimi anni, e giurai a me stesso che il mio primo romanzo sarebbe stato dedicato, in parte, anche a onorare la loro memoria. Sto parlando di Vasco Pratolini; da qui la scelta di omaggiarlo ambientando il romanzo nella sua cara Firenze di fine anni ’90 che, purtroppo, non ha potuto vedere; è stato il mio principale influsso per concatenare una vicenda d’amore in un romanzo che, d’amore, ne aveva bene poco. Luciano Bianciardi: io sarei stato uno dei primi a sostenere alla morte il suo grande, umano, liberalissimo per quanto paradossale lavoro culturale, la denuncia verso un sistema economico, politico e aziendale malato, insomma: io per Bianciardi sarei stato un “boia” senza cappuccio. Pietro Di Donato, autore italo-americano che i primi anni della sua innocente adolescente ha vissuto l’inferno dei mattoni e della calce, in bilico tra i grandissimi grattacieli newyorkesi macchiati di sudore e sangue italiano: lui, nei panni di Paolino nel romanzo “Cristo fra i muratori”, mi ha lasciato un segno profondo. Dulcis in fundo, il mentore Carlo Emilio Gadda e la sua personalissima cognizione del dolore di un intellettuale travagliato dall’oppressione antiretorica del mondo tutto intorno, un mondo fatto di ville, di soldi, e di borghesia che ripudierà sempre e per sempre.

I: Ne Il Grande Buio, come del resto i tuoi Musi sembrano introdurre, si parla delle dinamiche del lavoro odierno, tema caro a molte espressioni prosaiche italiane contemporanee come quelle di Alberto Prunetti, Michela Murgia et alia; paradossalmente, però, hai deciso di ambientarela storia dell’operaio protagonista, Moreno, alla fine degli anni ’90?

Mario: Fine anni ’90 perché ho voluto analizzare quello che ritengo sia il trampolino di lancio di una progressiva caducità aziendale senza precedenti. Inutile negarlo: a fine degli anni ’90, con l’euro alle porte, con la tecnologia che prendeva sempre più il sopravvento, il cambiamento è stato inevitabile. Ho raccolto delle testimonianze e tutti, quasi all’unisono, mi hanno confermato che negli anni del boom economico in Italia tra operai e impiegati si davano del lei, e del voi, che tra padroni e dipendenti c’era un sano rapporto di lavoro fondato su un semplicissimo, legittimo e sacrosanto principio: tu lavori Signor Rossi, e io Signor Verdi il dieci del mese ti pago. Vallo a dire oggi alla massa di giovani vittima innanzitutto di un governo che ha legalizzato il lavoro a gratis degli stage o dei tirocini; vallo a dire a chi non riscuote da sei mesi e a chi ha quattro tredicesime non pagate. In altri tempi ciò non sarebbe potuto succedere. Oggi come oggi si è messo in moto un meccanismo di lavoro come necessità non più per sostentamento ma per induzione consumistica, senza la quale si può morire di dipendenza. Questa è la conseguenza devastante e atomica che ha fatto ammalare quasi tutti in questa società. Per me gli anni ’80-’90 rappresentano sia la fase finale di un periodo storico importantissimo, ma anche la calata verso il pertugio di un gregge d’automi, anzi di atomi: ma non di uomini. Aggiungo, oltre alla nozione di tempo, anche la nozione di spazio. Ho deciso di ambientare il romanzo nell’ambiente metalmeccanico poiché è proprio da quell’organizzazione aziendale che sono nate le prime lotte di “classe sociale” per meglio dire posizione lavorativa. Tutto ha fatto sì che questi due mondi non possano coesistere, ma che si sentano in continuo scontro per una questione superficiale di posizione aziendale, appunto. Il tutto condito dall’arrivismo a tratti compulsivo. Da lì sono nati anche i primi stereotipi di operai per lo più incolti e sfigati, di impiegati assenteisti, di segretarie che indossano le ginocchiere, e di padroni ammalati tutti di tirannide.

I: Se l’influenza di Bianciardi è chiara da un punto di vista strutturale e linguistico/formale quella di Pratolini, oltre alla già citata ambientazione fiorentina, si rileva in modo peculiare nell’esigenza di inserire una componente sentimentale che si interseca con quella lavorativa. In che modo le due dimensioni sono complementari all’interno del romanzo?

Mario: Ottima domanda, e speravo tanto che tu me la facessi. Ebbene, concatenare le due cose è stato per me un modo per far capire che sogno un mondo fatto di uguaglianza, come anche Moreno ha sognato, e di rispetto reciproco escludendo ogni sorta di pregiudizio. Il sogno che possa esistere ancora, oggi come allora, un amore vero tra uomo e donna, di quello che se ne frega se hai la tuta blu e le mani sporche, di quello che se ne frega di quanto è la busta paga a fine del mese; amore anche tra amici, tra parenti, tra sconosciuti. Pensa a quanto sarebbe bello se la prima reazione emozionale tra gli umani fosse l’amore. It’s easy if you try, direbbe un genio inglese, ma come ciò potrebbe accadere oggi nelle nostre piazze, nelle nostre strade e, soprattutto, nelle nostre aziende? Io ho voluto parlare sì di un amore, dal punto di vista di Moreno, come lui stesso definisce cieco, snaturato e incomprensibile, ma ho voluto altresì parlare di un amore malato, per l’appunto, dal clima germinale che si respira nelle aziende, e nel descriverlo mi rendo conto che sono stato terribilmente cinico e realista, ma tuttavia non in contraddizione con ciò che penso. Sogno un mondo in cui ci si possa innamorare liberamente, e il fatto che sia un’utopia non fa che accrescerne il desiderio.

I: Passiamo a due domande tecniche: ci spieghi l’uso della terza persona narrante e la sua ibridazione nel tuo stile?

Mario: Ho affidato il racconto ad un narratore che conosce bene i pensieri di Moreno, i suoi desideri, i suoi sentimenti, le sue vedute, i suoi ricordi: c’era la necessità, in questo romanzo, di una voce narrante per creare immagini, per far calare il lettore nel grande buio dell’azienda fino a quasi fargli sentire l’odore, e nella mente giovane, fragile e variopinta di Moreno. A prima vista pare che l’ottica della narrazione sia interna fissa su Moreno; a tratti potrebbe risultare addirittura onnisciente, ovvero il narratore entra di forza ed esprime il suo punto di vista spesso divagante, spesso retorico e spesso filosofico su certe situazioni ma… quest’ottica, forse, non sarà un po’ troppo fissa? A un lettore davvero attento non possono sfuggire alcuni passaggi che fanno chiaramente capire che c’è una tecnica narrativa piuttosto sovversiva e direi “falsaria”, che va un po’ al di là degli schemi: la mia scrittura riflette il mio primo ideale di libertà artistica, poiché secondo me anche la scrittura può essere considerata un’arte a tutti gli effetti. Un piccolo indizio: occorre indagare a fondo sul narratore e sulla tecnica narrativa per ottenere la chiave per capire a pieno il romanzo.

I: Come si inseriscono le sezioni di linguaggio stilnovista, machiavellico e rinascimentale all’interno di una narrazione che prevede spesso un registro quasi colloquiale e riferimenti continui alla cultura popolare? Che ruolo svolge?

Mario: Il ruolo che svolge è sicuramente spiegato a tutto tondo nell’ultimo capitolo ed è anche questa una chiave per comprendere il romanzo. Non nascondo sia un espediente allegorico, ma la sua funzione è propriamente di contrasto tra momenti di pochezza e momenti di lucidità intellettuale. E’ stata una scelta dettata da una certa volontà di retorica in primis ai tre padri della lingua italiana: Dante, Petrarca e Boccaccio. I riferimenti poi a Machiavelli sono proprio a sottolineare il fatto che specialmente nelle aziende, ma anche in politica, si fa continuamente della retorica errata che, come ho scritto nel libro, “un letterato a caso in fila all’ufficio di collocamento alzerebbe la mano e direbbe: «se permèttete, dissento!»”. Ci ho giocato su, e lo ammetto: mi sono voluto anche un po’ divertire. Tuttavia uno dei motivi dell’alternanza di questi registri è anche per dare un tocco ironico e per divertire il lettore, poiché alla fine la letteratura deve anche divertire (vedi Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Messer Gadda).

I: A differenza delle scritture sul lavoro post-belliche, ma anche di quelle attuali, ne Il Grande Buio non si percepisce uno scontro classista (proletari Vs. padroni) ma la frizione avviene tra ogni individuo e l’etica marcia del lavoro in quanto tale sembra infestare la salute spirituale sia dei dirigenti che degli operai, nessuno si salva. In questo senso la lotta se non avviene all’interno del mondo del lavoro in quanto essenzialmente deformato, dove può avvenire e che ruolo ricopre la letteratura o il tuo romanzo in questa fatica di sisifo?

Mario: È un lavoro culturale che manca. Ecco dove sta il problema. Il lavoro abbraccia tutti, e cerca di plasmare tutti. Si salvano solo poche tipologie di persone: gli stolti, gli indifferenti, e i letterati. Io credo che per cambiare veramente qualcosa occorra ripartire da zero, e oggi come oggi non so se il verbo che ho usato “cambiare” sia pienamente corretto, voglio essere un po’ meno drastico: riscoprire? Diciamo che mi piacerebbe che si potesse riscoprire il grandissimo ruolo di apertura, di serenità, di scoperta, di voglia di vivere che potrebbe infondere solo la cultura. Il lavoro può essere anch’egli culturale, solo culturale, anche nelle aziende. Ma bisogna curare prima il male, ovvero l’arrivismo, il qualunquismo, il materialismo e il consumismo. Tolti questi cancri, disinfettare tutto con un bel lavoro culturale. Vorrei tanto che tornasse un maremmano a caso con una biblioteca mobile, a suscitare e tentare di allargare le vedute di certi minatori…

I: Raccontaci la tua esperienza con il mondo dell’editoria e, magari, dacci una considerazione generale sullo stato/salute di un mondo editoriale che sembra in perenne crisi.

Mario: Inizio dicendo che c’è una perenne crisi perché anche quel settore è stato infettato da una certa venalità. «Vendi? Bene, ti produco. Non vendi? Il suo libro non è adatto al nostro catalogo, grazie e a risentirci». Si può tranquillamente affermare che il mondo dell’editoria va di pari passo con quello delle case discografiche: un prodotto che non vende non lo producono. Tuttavia nel mio caso mi è stato detto chiaramente che il mio non è un romanzo per tutti, anche se per la tematica trattata potrebbe essere il romanzo di tutti: di questo ne sono perfettamente consapevole. Non sta a me dire per quale motivo il mio libro sia stato prodotto, posso dire solo di avercela messa tutta e di averci creduto veramente. Ho declinato qualche proposta editoriale perché ho avuto il sentore che il mio libro non l’avessero nemmeno letto, ma al momento posso dire con certezza che ho avuto una grande fortuna ad essere stato prodotto dalla Aletti Editore di Villanova di Guidonia (RM): un’azienda seria, corretta, e che offre possibilità e opportunità concrete; vanta inoltre di un’altissima distribuzione e di un notevole servizio di promo sia sui social che su altri canali. Personalmente, ho ricevuto un contratto eccellente che non ho potuto che accettare. Sono felice che ancora oggi ci siano degli editori interessati davvero agli autori, e a maggior ragione se sono emergenti.

I: Per concludere, cosa ti ha spinto a scrivere questo romanzo?

Mario. Io credo che un romanzo prima di essere scritto dev’essere lungamente pensato, immaginato. Ho avuto modo di vivere varie esperienze e realtà, di raccogliere ma a tratti anche intuire delle testimonianze – o le conseguenze di esse –; anche solo il semplice osservare di come il mondo muta giorno dopo giorno: tutto ciò mi ha spinto a fissare su carta delle parole che possano scandire una certa memoria, affinché mai possa essere dimenticata. Per questo prima di cominciare il libro ho citato Pietro Alfonsi, letterato latino-medievale che, come tanti di quell’epoca, si è sentito in grande dovere di fare della letteratura. Anche io, nel mio piccolo e nella mia modesta posizione di studente universitario, ne ho sentito sia il dovere sia il desiderio.

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